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Il fatidico momento di attraversare la soglia d'entrata della colossale Villa Jones era arrivato. Avevo tergiversato a lungo prima di imbattermi in Jenna Jones, senza la compagnia di Jack, che aveva deciso di scomparire a mia insaputa. Suonai il campanello rigirandomi i pollici e attendendo con ansia che la porta venisse aperta.

Mi accolse la donna di servizio, con un ampio sorriso, e mi fece accomodare all'interno.

«Vuole darmi il soprabito, signorina Sophia?» mi chiese con gentilezza. La signora mi aveva vista lì uno svariato numero di volte e mi stupivo ancora quando mi chiamava per nome.

«Sì, grazie, Margaret» feci scivolare lungo le spalle il cappotto bianco e lo porsi a Margaret. Si dileguò lasciandomi sola, con i tacchi fissati al parquet, e a passare in rassegna i dettagli di quella casa. La polvere era un lontano ricordo per quell'abitazione. Era tutto ben ordinato e pulito, ogni angolo era minuziosamente curato.

Per quanto le pareti in pietra si rifacessero alle antiche fortezze, la villa emanava freschezza e modernità. Le vetrate scorrevoli davano la possibilità di affacciarsi su qualsiasi zona all'aperto. Mi avvicinai a quella che dava sul fianco sinistro della dimora, dove scovai un albero in fiore, con due corde fissate a un ramo che reggevano un seggiolino. Quell'altalena doveva essere rimasta lì per anni, a giudicare dall'età dei ragazzi che ci avevano giocato. La luce del sole si specchiava nella vetrata e la superava, addentrandosi e abbagliandomi calda e raggiante. Non avrei voluto altro che godermi quella piacevole sensazione di benessere, standomene sul prato umido e tagliato alla perfezione, mano nella mano con Jonathan, a ridere e consumare un picnic. Invece ero finita nelle grinfie del diavolo: Jenna Jones. Il padre di famiglia, Joseph Jones, non era poi così male, nonostante non sprizzasse gioia da tutti i pori a vedermi al fianco di suo figlio, ma sua moglie era una vera arpia.

Feci qualche passo, allontanandomi dalla vetrata, superai il divano ad angolo nero in pelle e mi inchiodai davanti a uno scaffale in legno di ciliegio. Accarezzai, con la punta delle dita, la cornice argentea di una fotografia che ritraeva Jonathan e Jack in costume, mentre ridevano come matti e si abbracciavano. Le goccioline d'acqua percorrevano il loro corpo e i capelli bagnati si erano scompigliati.

Sorrisi senza distogliere lo sguardo dai due ragazzi. Pensai a come fossero in sintonia solo qualche anno prima che io conoscessi Jonathan. Quella foto era datata 23 Luglio 2013. Lo scoprii leggendo la targa a destra. Da quando ne avevo avuto l'occasione, avevo visto il rapporto tra i due fratelli crollare come sabbie mobili. Mi era persino saltato in testa che fossi stata io la causa della loro faida.

Traspariva una competizione malcelata dai loro approcci e un leggero, ma fastidioso, odio reciproco. Nel profondo di entrambi avevo intravisto, però, un icastico affetto fraterno.

«Sono sempre stato un bel bocconcino.»

Sobbalzai, lanciando un urletto, e quasi feci schiantare la cornice a terra per lo spavento. Mi portai una mano sul petto e, quando mi voltai, non rimasi sorpresa di trovarmi difronte Jack. La sua voce era ben riconoscibile fra qualsiasi altra.

«Mi hai spaventata a morte! Entri sempre così all'improvviso?» continuai a respirare affannosamente. Lui non si fece scappare il pretesto per iniziare una delle nostre solite conversazioni a doppio senso.

«Credevo di avertelo dimostrato. Entro quando meno te lo aspetti e ti faccio godere» si avvicinò con aria colpevole e complice. Tentai di evitarla, ma la fitta allo stomaco fu inoppugnabile. Scene di lui che mi penetrava ritmicamente con veemenza si insinuarono nelle mie memorie, e non potei frenare la scarica di brividi lungo la schiena e il calore fra le gambe. Jack era ormai davanti a me, in tutto il suo splendore e con un'aurea dannata che monopolizzava la mia attenzione. Il suo essere così misterioso mi intrippava il cervello.

«Verbo sbagliato, Jones. Hai utilizzato il presente, ma è più corretto il passato, perché non si ripeterà più» la voce mi tremava, nonostante stessi cercando di risultare salda e risoluta in tutto ciò che dicevo.

«Ne sei proprio sicura?» mi afferrò la vita con decisione. Le sue dita premevano contro il tessuto sottile del vestito fresco che avevo indossato.

«Sì» risposi senza indugiare. Mi ero imposta di tagliare tutti i ponti con lui, altrimenti non sarei stata così sicura di non finirci a letto un'altra volta.

«Il tuo corpo mi dice tutt'altro» soffiò nel mio orecchio e iniziò a far vagare la mano verso l'alto. La bloccò sotto il seno destro. Schiusi le labbra e mi lasciai scappare un sospiro frustrato.

«J-Jack...» riuscii semplicemente a balbettare, in preda a una forte sensazione di calore in tutto il corpo. Il suo tocco bruciava sulla mia pelle, anche attraverso il misero strato di tessuto che la ricopriva.

«Tu vuoi me, non mentire a te stessa» mi morse il lobo delicatamente e approfittò di un mio momentaneo smarrimento per inchiodare la sua mano sul mio seno. Spalancai le palpebre sorpresa. Gli poggiai una mano sul petto per allontanarlo, ma non riuscii nel mio intento, poiché si prodigò nel palpare le mie forme con ardore.

Se fossi stata benzina sarei bruciata di bramosia. Quel ragazzo era una droga di passione e seduzione mai viste. Mugolai qualcosa di incomprensibile. Anche lui emise un gemito di piacere contro il mio orecchio, che mi fece impazzire ancora di più.

Mi sporsi con il capo all'indietro, invitandolo a baciarmi il collo. Recepì il messaggio e lo venerò con le sue labbra e la sua lingua bollente. Gli afferrai i capelli e li tirai. Come era possibile perdere lucidità in quel modo? Tutti i miei buoni propositi erano andati a farsi fottere.

«Soph, ogni centimetro del tuo corpo mi desidera, e io desidero te. Smettila di evitarmi» disse d'un tratto, e poi smise di baciarmi per fissare i suoi occhi scuri nei miei. Erano dilatati e brillavano di cupidigia e avidità.

«Io non ti sto evitando» mentii e ingoiai un groppo di saliva. La sua mano era ancora ferma sul mio petto e non faceva altro che rendermi più difficile il compito di tenerlo lontano da me.

«È da quella notte che fai in modo di non incontrarmi. Se non fosse stato per il pranzo di Natale non ci saremmo più visti per otto lunghi mesi» il suo tono di voce era quasi irritato quando si staccò da me, per mettermi in soggezione con il suo sguardo ammonitorio.

Ripresi in mano la mia lucidità mentale e fisica «Cosa ti aspettavi? Che avremmo continuato a scopare come se fosse normale? Secondo te... avrei tradito il mio fidanzato?» alzai la voce, i miei occhi chiari erano carichi di risentimento. Ero arrabbiata, infuriata con me stessa, ma me la stavo prendendo con lui solo perché non riuscivo ad accettare di essere, ancora una volta, finita nella sua trappola.

«Lo avevi già tradito» fece schioccare la lingua e mi guardò con compiacimento. Divenni, se possibile, ancora più furibonda. Le guance si arrossarono e strinsi i pugni con troppa violenza, tanto da farmi male.

«Sei uno stronzo» sibilai a denti stretti.

«Solo perché ho detto la verità? Sapienza, ti ricordo che sei stata tu, quella sera, a volerlo» sembrava quasi offeso, come se lo stessi prendendo in giro.

«E smettila di usare quel soprannome! Sai che non mi piace!» gli occhi si iniziarono a inumidire, per via della rabbia furente che stava iniziando a scorrermi nelle vene.

«Qualche anno fa ti piaceva» tenne lo sguardo fisso sul mio, ma non suonò accusatorio, bensì nostalgico. Nonostante fosse bravo a nascondere le sue emozioni e i suoi sentimenti, sapevo che era provato.

«Jack, sono fidanzata, mettitelo bene in testa. Devi starmi alla larga. Jonathan è tuo fratello, cazzo!» gesticolai animatamente sotto tensione. Mi ero irrigidita. Quel discorso era troppo scomodo per essere affrontato. I nodi stavano venendo al pettine e io avevo la coda di paglia.

«Non ti sei posta questo problema quando ti fottevo sul mio letto.» Non si smentiva mai. Riusciva a tenere il controllo anche quando la sua ira era lampante. Il suo sguardo era intenso, quasi da farmi sprofondare in una voragine senza ritorno. Non ci pensai due volte e lo dissi: «Io lo amo.» Sapevo che con quella breve frase avrei messo fine alla nostra conversazione. Una lacrima mi solcò il viso, ma mi affrettai ad asciugarla senza lasciarne traccia. Solo per un attimo, quasi fulmineo, lessi sul suo viso una leggera sofferenza. Si ricompose in men che non si dica e si aggiustò la cravatta nera.

«Come preferisci, non ti darò più fastidio. Ma ogni volta che salirai queste scale» indicò la rampa alle sue spalle, «Ricordati di ogni singolo gemito, di ogni tocco, e quando sarai davanti alla mia camera prova a non ammettere che è stata la notte più bella della tua vita. Sai che Jonathan non potrà mai farti provare le stesse cose» concluse il suo discorso e distolse lo sguardo. Non dissi nulla. Non avrei avuto il coraggio di ammettere che aveva ragione. Proprio in quel momento suonò il campanello e prontamente Margaret andò ad aprire.

Passò al nostro fianco, ma non ci rivolse nessuna occhiata. Arrivò spedita al portone in legno e fece entrare Jonny e suo padre Joseph.

Sperai che nessuno si accorgesse del dissapore tra me e Jack. Con notevole bravura, mio cognato riuscì a recitare eccellentemente. Sorrise lievemente al padre e non degnò suo fratello neanche di uno sguardo.

Joseph mi rivolse un piglio sorpreso «Sophia, non sapevo ci saresti stata anche tu» mi disse con tono neutrale.

«Buongiorno, signor Jones» non seppi cos'altro rispondere, dato che mi aspettavo un supporto da parte di Jonathan, che arrivò poco dopo.

«L'ho invitata io. Nessun problema, giusto?» il mio fidanzato si avvicinò al mio corpo e mi allacciò un braccio attorno alle spalle squadrando il padre con scrupolosità.

«Mi piacerebbe solo essere avvisato la prossima volta» proclamò quest'ultimo. Non fece trasparire alcuna emozione, si limitò a bloccare il suo sguardo sul figlio maggiore, forse per intimorirlo. Ma Jonathan non lasciò la presa, si voltò verso di me e mi tirò a sé in un bacio delicato e rispettoso. Non potei scrutare le reazioni degli altri due presenti, una delle quali mi interessava più dell'altra. Non mi opposi ma, poco dopo, fui io a interrompere il contatto e a scostare il braccio di Jonny. Non volevo assolutamente passare per la ragazza disinibita e volgare agli occhi di suo padre.

«Vogliamo accomodarci in sala da pranzo?» furono le uniche parole che uscirono dalla bocca di Joseph. Jack fu il primo ad avviarsi verso la stanza, il padre gli stette dietro e io e Jonathan ci tenemmo un po' più distanti da loro.

«Mi sono perso qualcosa?» mi sussurrò all'orecchio. C'erano moltissime cose che si era perso. A partire da un semplice sguardo, poi un peccaminoso contatto fisico, una forte attrazione, fino ad arrivare a un clamoroso scontro con Jack.

«Niente. Non ho ancora visto tua madre» mi costrinsi a dire.

«Questa volta, quindi, Jack mi ha dato ascolto» sostenne, mentre intrecciava la sua mano nella mia.

Al sentire quel nome il mio stomaco si strinse in una morsa letale. Troppe bugie, troppi segreti, troppe menzogne. Non ce la facevo più a mentire, il peso della verità mi logorava.

«Sì, è stato efficiente» strinsi le labbra in un sorriso forzato, per mascherare l'uragano che portavo dentro di me.

Giungemmo nella sala da pranzo, interamente rossa e con un tavolo rettangolare che capeggiava al suo interno. I lampadari di cristallo pendevano dal soffitto splendenti e luccicanti.

Era già tutto apparecchiato a dovere, con posate in argento e piatti dall'aria sofisticata e costosa. Non era una sala enorme, ma di modeste dimensioni e, nonostante questo, appariva comunque solenne e prestigiosa. Jenna fece la sua comparsa al fianco di una ragazza che conoscevo bene, sbucando dalla cucina. Quando mi vide fece finta di nulla, salutò i suoi figli con gioia e liquidò il marito con un semplice cenno del capo.

«Mamma, Sophia si ferma a pranzo da noi» la informò il mio ragazzo, con perizia e salvaguardia. La donna assunse un'espressione di scherno. I suoi capelli neri, lunghi fino alle spalle, si mossero in un movimento agitato, e le sue gambe, strette nella gonna a tubino, avanzarono sinuose nella mia direzione.

«Sei sempre in mezzo, come il prezzemolo» storse il naso. Respirai a fondo per non fare una brutta figura e risponderle a tono.

«Il prezzemolo è una spezia fondamentale» mi limitai a sdrammatizzare, anche con una buona riuscita, contando le risatine dei due fratelli che si levarono nella stanza.

«Il tuo senso dell'umorismo è di pessimo gusto. Per fortuna, oggi c'è Alexia con noi» mi ignorò con superiorità molesta e monopolizzò l'attenzione di tutti su Alexia Pottermore.

«Jenna, così mi lusinghi, sono qui solo per una visita di cortesia al mio amico Jo Jo» quella, con voce minuta e insopportabile, non si pose scrupoli nel fare gli occhi dolci a Jonathan.

«Che onore!» scherzò il mio fidanzato, e la abbracciò sotto gli occhi di tutti, compresi i miei. Odiavo quella stupida, non solo perché era ben vista dalla famiglia del mio ragazzo, a differenza mia, ma anche perché Jonny le era sempre piaciuto. Era altezzosa e furba come una volpe, oltre che la migliore amica di Jonathan. Non potevo nutrire altro che avversione per Alexia. Quando prendemmo posto a sedere, Jenna dispose i due amichetti fianco a fianco, e mi liquidò in fondo alla tavola, di fronte a Jack. Sapevo che l'aveva fatto apposta, aveva sempre cercato di spingere Jonathan fra le braccia di Alexia, ma questa volta aveva esagerato. Mi morsi l'interno della guancia per non proferire alcuna parola maligna, ma di lì a poco sarei scoppiata di nervosismo.

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