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New York, 2019
Aprii il cassetto del comodino facendolo scorrere in un cigolio stonato, la presi, la strinsi fra le mani e la annusai a occhi chiusi. L'odore di tabacco era sfumato col tempo, ma non si era mai dissolto del tutto. Poco dopo lessi per l'ennesima volta, come ogni giorno negli ultimi otto mesi, le prime righe: "Quant'è strana la vita, piccola Sophia."
Quella lettera mi aveva completamente scombussolato la vita, da un giorno all'altro. Mi aveva ferita sì, ma mi aveva anche lanciato una sfida. Una speranza. Un ramo a cui appigliarmi per non sprofondare.
Ed era proprio questo a spaventarmi. Non volevo passare il resto della mia vita appesa a una bugia, cullandomi su un'amaca intrisa di menzogne. Un muro di certezze era crollato e aveva lasciato il posto a mille domande, alle quali non avrei trovato risposta. "Mia madre è viva? Qualcuno mi ha nascosto la verità?" Un eterno, indefinito e asfissiante limbo di dubbi irresolubili. E, nonostante fosse causa di agonia, avevo conservato quel pezzo di carta come se fosse una reliquia o addirittura una gemma preziosa, poiché l'idea che mia madre potesse essere viva bruciava dentro e mi stava corrodendo. L'unica spiegazione plausibile che ero riuscita quindi a darmi, in quegli otto mesi, era che la lettera fosse stata recapitata alla ragazza sbagliata. Non potevo essere io il destinatario, o meglio, non volevo e non dovevo essere io. Magari era un altro scherzo del destino che, per l'ennesima volta, si prendeva gioco di me come avrebbe fatto un abile sfidante di scacchi con le sue pedine.
Io, però, mi ero stancata di essere una pedina in balìa degli eventi. Avevo bisogno di sicurezze e di serenità.
D'altronde, era tutto ciò che avrebbe dovuto caratterizzare una semplice ragazza di diciannove anni. Invece mi associavo al vaso di Pandora: un contenitore copioso di emozioni varie e contrastanti, una più complessa dell'altra. E in fondo al vaso, proprio come nella leggenda, albergava la speranza. Quella maledettissima speranza, che rappresentava il fulcro della mia smania e che, purtroppo, è l'ultima a morire. Mi sentivo una stolta, perché avevo paura di cedere al bisogno disperato di conoscere mia madre, per poi ritrovarmi, per la seconda volta, sola e debilitata.
Scossi il capo, come a voler scacciare, una volta per tutte, quei pensieri che aleggiavano nella mia mente. Riposi nuovamente la lettera al suo posto, al sicuro fra le pagine di un romanzo rosa nel mio comodino, e mi allontanai.
Le vacanze di primavera erano davvero un toccasana, in quanto staccavo la spina dallo studio assiduo, almeno per un po', e mi godevo la bella stagione. Il college non era una passeggiata, dovevo ammetterlo, ma mi ero intestardita per frequentarlo e dare il meglio di me stessa. Conoscendomi, sapevo che volere o volare mi sarei fatta onore. Odiavo smentirmi e non rispettare la parola data.
Scostai la tenda bianca e velata e gettai lo sguardo oltre la lastra della finestra. Era una bellissima giornata, il sole capeggiava sornione su New York. Non riuscii a non fissare la figura di Karen, la nuova compagna di mio padre, che annaffiava le piante con cura.
Ero felice per loro. Dopo tanti anni, finalmente papà aveva ritrovato l'amore. Karen alzò il capo dalle rose che stava abbeverando e mi sorrise dolcemente. Era radiosa, con i suoi capelli biondi, splendenti e baciati dalla luce del sole, e i suoi occhi azzurri che infondevano ilarità. Sorrisi di rimando e poi abbandonai la mia stanza, tentando di chiuderci a chiave anche tutte le mie perplessità.
Quando raggiunsi la cucina trovai un muffin al cioccolato, lasciato al centro del tavolo, con un bigliettino ripiegato alla sua destra. "Papà pensa sempre a tutto!" Anche quando non c'era, per via del lavoro, mi faceva sentire speciale e al centro dei suoi pensieri.
Gustai il dolcetto con poltroneria, stando ben attenta a non pasticciarmi, come invece ero solita fare sin da piccola. Papà l'aveva scritto sul biglietto: "E non sporcarti come fai sempre!"
Raccolsi le ultime briciole all'angolo della bocca con la lingua e misi a tacere il languorino di stomaco. Mi sarei accontentata di quella breve colazione.
«Buongiorno, Sophia! Guarda un po' chi è arrivato?» Karen fece il suo ingresso in casa, seguita dalla sagoma imponente del mio fidanzato.
«Jonny!» corsi verso di lui e lo strinsi forte. I suoi abbracci mi trasmettevano protezione e non potevo negare di approfittarne ogni qualvolta ne sentissi la necessità. Mi lasciò un numero indefinito di baci delicati fra i capelli corvini.
«Allora, Jonathan, che ci racconti di bello?» chiese Karen, forse per dividerci e non sentirsi il terzo incomodo. Fatto sta che funzionò e il mio ragazzo si staccò dal mio corpo per rivolgere la sua attenzione alla donna di mio padre.
«Nulla di nuovo, sto lavorando sodo per ampliare gli sbocchi di mercato della Jones Atlantic. Sono in contatto con due uomini d'affari molto noti e a breve dovremmo fare una riunione, per discutere sulle strategie commerciali da applicare» spiegò con una punta di entusiasmo. Ero fiera di lui. Aveva sempre sognato questo futuro, al fianco di suo padre nell'azienda di famiglia, e stava svolgendo il suo ruolo con egregio ingegno.
«Sono davvero molto felice per te» rispose Karen, rivolgendogli uno dei suoi sorrisi rassicuranti.
«Jonathan ha talento con l'economia, sono sicura che farà molta strada in questo settore» mi intromisi poggiandogli una mano sulla spalla.
«Non ho dubbi al riguardo» Karen si congedò, abbandonando la stanza, per salire al secondo piano. Quando fummo soli, afferrai il volto di Jonny e gli lasciai un bacio a fior di labbra.
«E questo? Era forse una dimostrazione d'affetto, Miss Freddezza?» ghignò benevolo nella mia direzione e mi sentii al sicuro. Possedeva il dono quasi innaturale di contagiare la gente con la sua pacatezza confortante.
«No, ti starai sbagliando» mi lasciai scappare una risatina di circostanza.
~~~
Poco più tardi stavamo viaggiando in auto per raggiungere la sua abitazione, in quanto mi aveva invitata a pranzare da lui. Non si era curato di prendere in considerazione il parere dei suoi genitori sulla mia presenza a tavola. Non scorreva buon sangue tra me e la sua famiglia. Non ne conoscevo la ragione, ma sin dall'inizio non avevano mai celato la loro disapprovazione sulla nostra relazione.
«Jonny, credi che i tuoi se la prenderanno se pranzo con voi?» lo interrogai, gettandogli uno sguardo addosso, mentre guidava attento alla strada e ai semafori.
«Sai come sono fatti, non ci restare male se si comportano in modo strano. Non capiscono che voglio passare il resto della mia vita con te. Se ne devono fare una ragione se invito la mia ragazza a pranzo. Non ci vedo nulla di male» rispose sicuro di sé e dei suoi ideali.
Inutile dire che mi rincuorò a pieni voti. Eravamo una bella squadra, oltre che una coppia. Ci spalleggiavamo a vicenda e ci supportavamo come due buoni fratelli. Quando la vettura arrestò la sua corsa dinnanzi all'immensa Villa Jones, mi sentii piccola come una mosca.
Mi persi ad ammirare l'enorme giardino che attorniava la struttura. Un esteso terreno verde ed esuberante, cespugli scolpiti ritraenti i presidenti degli Stati Uniti d'America più noti. In particolare, dinnanzi ai miei occhi, primeggiava fiero e austero il volto del trentaduesimo presidente, Franklin Delano Roosevelt. I suoi lineamenti risaltavano, marcati e segnati dall'età, incorniciando un viso allungato. Due folte sopracciglia e le labbra sottili, strette in un accennato sorriso.
«Che c'è?» Jonathan rise di me. Si era accorto dell'espressione sbalordita che mi ero stampata in faccia.
«Ogni volta che vedo casa tua ho questa reazione. Mi chiedo se possiate fare concorrenza ai sei castelli della regina Elisabetta» dissi con aria sognante. La risata soffice e raffinata del mio ragazzo riecheggiò all'interno dell'abitacolo «Noi Jones siamo così, ci piace sfoggiare i nostri tesori» mi rispose, dopo aver riacquisito la sua solita tranquillità. Non ebbi il tempo di ribattere che il suo cellulare trillò sonoramente, attirando la nostra attenzione. Jonathan afferrò il telefono dal portaoggetti e aprì la chiamata. Rimasi in clamoroso silenzio, in adorazione dei suoi movimenti armonici. Lo osservai durante tutto il tempo, non mi focalizzai neanche sulle risposte che dava al suo interlocutore.
«Va bene, ho capito. Arrivo subito» fu l'ultima frase che pronunciò e l'unica che ricordo.
«Chi era?» mi informai curiosa.
«Mio padre. Vuole che lo raggiunga in azienda per sistemare dei documenti importanti» aveva un'espressione cupa, quasi scocciata, nonostante lui amasse occuparsi di lavoro. «Devo proprio andare, ci vediamo per l'ora di pranzo. Mi dispiace non poter stare con te» sussurrò con voce fioca, e poi mi afferrò il viso fra le grandi mani.
«Anche a me dispiace, ma non preoccuparti. Sopravviverò a tua madre in qualche modo» puntualizzai. Con l'assenza di Jonny, sua madre Jenna mi avrebbe tartassata di frecciatine maligne.
«So che lo farai, sei una tosta, amore» si accostò alle mie labbra e indugiò prima di posarci un bacio.
Gli misi una mano dietro la nuca, spingendolo verso di me.
Approfondii il bacio e lui esplorò la mia bocca con la lingua. Sentii il suo respiro affannarsi e i suoi battiti cardiaci incalzare un ritmo più veloce. Un rumore ovattato mi arrivò all'orecchio. Mi staccai dal mio fidanzato e, sconsolata, ruotai il capo verso il finestrino alla mia sinistra. Fuori c'era Jack che bussava sul vetro con le nocche. Jonathan arrossì come un bambino scoperto a mangiucchiare merendine nel suo nascondiglio segreto.
Abbassò il finestrino e si rivolse al fratello minore: «Jack! Per l'amor del cielo, un po' di privacy mi sarà concessa?» chiese retoricamente e con una punta di fastidio nella voce, guadagnandosi un'espressione impassibile da parte di quest'ultimo.
«Perché? Tu baci le tue ragazze quando nessuno ti vede?» infilò la testa dentro l'automobile e realizzai, solo in quel momento, quanto fosse vicino a me. Sentivo il suo fiato caldo sul collo. Non osai degnarlo di uno sguardo, tenendo gli occhi fissi su Jonathan.
«Innanzitutto, ho solo una ragazza, non sono donnaiolo come te. Poi, saranno affari miei quando e dove voglio baciare la mia fidanzata!» si difese piccato.
«In effetti, a certe ragazze piace amoreggiare di nascosto, all'insaputa degli altri» l'affermazione di mio cognato era palesemente rivolta a me, nonostante Jonny non potesse saperlo. Fu solo allora che, d'istinto, portai lo sguardo sul volto di Jack, dove ritrovai quel fastidioso ghigno da stronzo che amava indossare. Sì, mi stava guardando anche lui. Avevo ragione a dire che avesse pronunciato quelle parole con un secondo fine: quello di mettermi in imbarazzo. E ci era riuscito. Ero piombata in uno stato di panico improvviso, tanto che una gocciolina di sudore mi cadde lungo la fronte alta. Strinsi le mani fra loro per scacciare la tensione.
Fortunatamente Jonathan non sembrò dare troppo peso alle insinuazioni del fratello «Ora devo scappare, mi raccomando, tienila lontano da nostra madre finché puoi» suonò redarguente nei confronti di Jack, poi mi depositò un bacio all'angolo della bocca. Mi slacciai la cintura di sicurezza e feci per aprire la portiera, notando che Jack aveva ritratto il capo e ora stava passeggiando in tondo nelle prossimità della vettura. Scesi dall'auto e salutai il mio ragazzo, che diede gas e guidò la macchina sino al di fuori della villa.
«Ehi!» tentai di richiamare l'attenzione di mio cognato, che non tardò ad abbordarsi al mio fianco, con un'espressione enigmatica cucita in volto.
«Sapienza, è da un po' che non ci vediamo, noi due» disse guardandomi dall'alto, a causa della differenza di centimetri che ci dividevano. Feci il latente errore di imbattermi nei suoi occhi scuri, che mi inchiodarono a lui. Al suo sguardo glaciale e imperscrutabile.
«Che cosa ti è venuto in mente? Stavi per spiattellare tutto!» alzai il tono della voce, sviando a fatica l'effetto che mi facevano i suoi occhi. Lui inaspettatamente mi afferrò il capo con una mano e azzerò le poche distanze che ci separavano. Trattenni il fiato e feci ricorso a tutto l'autocontrollo in mio possesso per non farmi abbindolare, evitando di perdere la concentrazione.
«Prima o poi verrà fuori, Soph, sai che le bugie hanno le gambe corte» soffiò sulle mie labbra carnose. Quando ero nelle sue vicinanze sentivo mancarmi la terra sotto ai piedi, mi rubava tutto. Si appropriava della mia sanità mentale fino a strapparmi anche il respiro.
«Se non apri quella bocca, non lo saprà» dissi a denti stretti.
«Questa bocca...» ci mise un attimo a farmi andare il cervello in fumo, accostando le sue labbra rosee e sottili alle mie «non parlerà» spezzò ogni barriera, ma non con un contatto fisico, bensì con il suo sguardo. Mi penetrò dentro l'anima. Non riuscivo a comprendere come ci riuscisse, ma era un vero esperto. Non aveva bisogno di chiedere. Se voleva qualcosa, lui se la prendeva.
«T-ti c-conviene» balbettai tremante, priva di forze. Mi lasciò andare e iniziai di nuovo a respirare regolarmente. Il mio cuore era impazzito, non ne voleva proprio sapere di darsi una calmata. Pompava alacre e spedito.
«Fidati di me, sarai tu a dirglielo. Non potrai fare a meno di me, e sentirai il bisogno di essere libera per me. Solo per me» pronunciò il tutto come fosse una profezia, ammaliante e ipnotico. Al sentire quelle parole la mia coscienza mi trafisse il petto, come una lama tagliente. Per mesi mi ero seviziata a dovere, mi interrogavo di continuo e mi chiedevo se avessi dovuto parlare con Jonny o starmene zitta. Alla fine, avevo preso la decisione che mi era sembrata più giusta. Tacere. D'altronde, mi ero detta: "Meglio una bella bugia di una brutta verità." Ora, invece, tutte le mie convinzioni venivano meno, lasciandomi un'aspra sensazione di sdegno e disistima verso me stessa.
«Vai al diavolo, Jack» gli sputai velenosamente addosso. Per quanto ambigua, astrusa e bizzarra potesse apparire la sua reazione, fu comunque ben evidente. Sorrise vittorioso, come avrebbe fatto un gladiatore guardando il suo avversario, sfinito e lasciato a marcire sul terreno di battaglia. In fondo, lui non aveva colpe quanto me. Jack era single. Ero io quella fidanzata e, per giunta, con suo fratello. Dall'esterno poteva sembrare una comica soap opera, per quanto la situazione fosse ingarbugliata, ma era la realtà e non era affatto divertente.
Giurai a me stessa che avrei lottato, con le unghie e con i denti, per tenermi stretto Jonathan. Non riuscivo a immaginare la mia vita senza di lui; perciò, non avrei dovuto commettere altri sbagli. Jack era la mia tentazione più infervorata e ardente. Avrei dovuto tenerlo lontano come avevo fatto sino a quel momento. Avevo eluso ogni occasione di incontrarlo dopo quella notte. Rammentavo ancora il modo in cui ero fuggita, alle prime luci dell'alba, dalla sua camera e da quella villa, che adesso riportava alla mente i fervidi ricordi di quell'avventura. Credevo che, concedendomi a Jack, avrei superato la voglia irrefrenabile di lui, che mi aveva sempre tormentata. Non avevo fatto i conti con la sua audace insistenza e la sua determinazione a non volersi allontanare da me. Per il resto dell'estate e durante tutto l'autunno non avevo riscontrato problemi, poiché Jack era stato fuori città. Avevo perdonato me stessa e portato avanti la relazione con Jonny come se non fosse successo nulla.
Poi, a dicembre, c'era stato il famoso primo incontro con Jack dopo la notte del mio diciannovesimo compleanno. Ero venuta qui, in Villa Jones, per il pranzo di Natale. Era stato un fulmine a ciel sereno rivederlo a pochi passi da me senza che avessi la coscienza pulita.
Fino all'anno prima, infatti, ero sicura che lo strano rapporto tra me e lui non avrebbe mai intaccato quello con suo fratello maggiore. Ero, in qualche modo, in pace con la mia anima interiore, nonostante fossi perfettamente conscia della tensione sessuale che persisteva fra me e Jack. Ma, in seguito alla notte di follia che mi ero regalata, le cose erano completamente cambiate. Non riuscivo a scambiare due parole con lui senza sentirmi un lurido verme nei confronti del mio fidanzato. Anche una sola occhiata con Jack mi scatenava un senso di nausea, ora che avevamo oltrepassato il limite. Mi accertai di riuscire a camminare senza perdere l'equilibrio, o addirittura, le forze per tenermi in piedi. Mio cognato era poco distante da me, ma si era voltato di spalle, con le mani nelle tasche dei pantaloni eleganti, neri e stretti attorno alle sue gambe toniche. Lo osservai nei suoi soliti abiti raffinati. La giacca, del medesimo colore dei pantaloni, gli scendeva a perfezione lungo le spalle larghe e possenti. Aveva ventidue anni, ma per il fisico che si ritrovava ne dimostrava molti di più.
Mi venne in mente la figura di Jonathan, meno palestrato, ma poco più alto di lui. Quei due non sembravano proprio fratelli. Erano due poli opposti e contrari. L'uno non aveva niente a che fare con l'altro, ma sapevo che in fondo si volevano bene.
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