12
Sophia
Uscii di casa e salii a bordo dell'auto di mio padre. Presi posto sui sedili posteriori poiché davanti sedeva Karen.
Ripensai al libro che mi aveva gentilmente prestato e alle pagine lette con slancio e fervore. Il romanzo narrava di una ragazza madre, audace e temeraria, che affrontò una situazione così feroce, come quella di doversi separare dal proprio bambino e non di sua volontà. Le avevano fatto credere che fosse morto durante il parto, ma era stata ingannata, poiché circondata da ostilità. Conviveva con un destino crudele, era stata lasciata sola da tutti, tuttavia trovò il coraggio di reagire, dotata di grande tenacia e solerzia. Eppure, non direi che ne fosse dotata, ma che le avesse conquistate quelle virtù, e ciò faceva di lei una Donna con la D maiuscola. Perché, in fondo, nessuno nasce forte o coraggioso, ma siamo noi a decidere chi essere, con tutto l'impegno che questa scelta necessita.
«Sai, Karen, ho iniziato Storia di una mamma, è davvero molto interessante. Mi sono lasciata trainare dalle emozioni e mi sono innamorata della protagonista. È una donna che vive di emotività, non scappa dai dolori, non cerca di evitarli o consumarli e per questo è una donna forte» vociai coinvolta, cogliendo l'occasione per esprimere il mio buonissimo giudizio a riguardo.
Karen, in risposta, sorrise compiaciuta. La osservai attraverso uno degli specchietti laterali e non potei non far caso ai suoi occhi lucidi. «Quella storia è davvero molto toccante, è come una figlia per me» affermò sotto lo sguardo attento di mio padre che, magnetizzato dal suo volto, si distrasse dalla guida e per poco non si andò a schiantare.
«Chris, la strada!» lo additò Karen allarmata. Lui si ricompose e lei gli lasciò subito dopo un'amorevole carezza fra i capelli setosi. Si vedeva che erano in sintonia, che condividevano un sentimento puro e sincero.
Mi ritrovai a pensare a me e Jonathan, ai nostri sporadici momenti insieme, a quell'affetto che ci aveva sempre tenuti uniti, e fissai il sole. Sì, il sole: così caldo, sfolgorante, quasi accecante. Sono belle le giornate soleggiate: ti lasciano vedere le cose per quello che sono, tutto è chiaro e distinto. Senti quasi un senso di familiarità e compagnia, come se ci fosse la luce a guidarti e a vegliare su di te.
Ed ecco che tutto questo rievocava ciò che il mio fidanzato era per me: protezione e sicurezza. Ma il calore del sole... quello non somigliava affatto al nostro rapporto! Mi sembrava strano e addirittura odioso pensarlo, ma l'unica volta che avevo sentito caldo tra le braccia di qualcuno era stato quella famosa notte con Jack. Che poi Jack mi infuocava anche solo con uno sguardo. Peraltro, stavo iniziando a supporre che non si trattasse di semplice passione tra di noi, ma di qualcosa che andava oltre. Doveva esserci un motivo se ogni volta che lo incontravo qualcosa si smuoveva nel mio stomaco e sentivo il cuore battere più forte, se le orecchie si ovattavano e la saliva si prosciugava, se le gambe si rammollivano e la mia vista si appannava! Avevo stilato questa lista mentalmente, con l'ausilio del tempo e del mio incontrollabile desiderio di rammentare frequentemente i momenti trascorsi con Jack. Dovevo essere pazza, avere qualche rotella fuori posto o, più probabilmente, la lontananza di Jonathan stava recando enormi danni alla mia sanità mentale.
Quando giungemmo al Greenwich Village, salutai mio padre e Karen con distrazione e balzai fuori dall'auto. Presi un grande respiro e mi incamminai verso l'entrata, percorsi i corridoi a testa bassa e presi posto nell'aula di Filosofia. Il professor Hack, come di consueto, incalzò spedito con la spiegazione di quel giorno: Schopenhauer. Era così appassionato che, nonostante avessi mille pensieri per la testa, riuscì a catturare la mia attenzione. Camminava avanti e indietro nei suoi jeans attillati, i mocassini e una polo azzurrina. La sua età doveva aggirarsi attorno ai trenta. I suoi capelli folti, castani e mossi oscillavano e il ciuffo gli ricadeva inevitabilmente sulla montatura di un paio di occhiali grandi, ma sottili.
«L'amore rappresenta nella filosofia schopenhaueriana lo stimolo più forte dell'esistenza. L'amore è un potente mezzo usato dalla Natura ai fini della riproduzione della specie. L'incanto e il lato romantico sono maschere costruite dall'uomo per celare questa dura e triste verità: il desiderio sessuale è il motore dell'innamoramento, nient'altro» spiegò il professore, gesticolando con la mano a mezz'aria e uno sguardo estromesso. Per quanto lui amasse la sua materia, non ero sicura che fosse un grande fan di Schopenhauer, almeno riguardo all'ultima tematica trattata.
«Professor Hack, mi permette una domanda?» mi ritrovai a chiedere, senza rendermene conto. Lui ruotò il capo nella mia direzione e assentì con un cenno della mano.
«Mi chiedevo: il signor Schopenhauer che tipo di vita sentimentale ha condotto? Si sa qualcosa?»
Hack ghignò con fare sommesso e si grattò il mento per poi prendere parola: «Eccellente constatazione, signorina Williams. Schopenhauer odiava le donne, a partire da sua madre. Era un maschio ferito e frustrato» concluse con un'alzata di spalle.
«Quindi lei sarà d'accordo se dico che la filosofia è un semplice punto di vista condizionato da esperienze personali che possiede l'arroganza di imporre queste credenze e darle per vere» constatai contrariata.
«Signorina Williams, non è la filosofia ad essere arrogante, ma il filosofo. Non crede?» alzò un sopracciglio e mi fissò, forse in attesa di una replica, che non arrivò. Così, riprese la spiegazione e io mi persi in nuovi ragionamenti. Il filosofo era Jack, la sua filosofia era condizionata da esperienze personali, ne ero certa. Lui era l'arrogante, eppure trovavo più fastidioso ciò che diceva, piuttosto che la sua persona. Non capivo il suo gioco: portava le donne a letto per poi dimenticarsene come niente fosse, eppure mi aveva dato l'impressione di volere di più da parte mia "Perché? Sta giocando con i miei sentimenti? Per quale strana ragione, poi! E se anche lui, come Schopenhauer, avesse sofferto per una donna?" Mi risposi semplicemente che Jack non sembrava proprio il tipo che potesse portare una delusione d'amore nel cuore. Aveva ragione Caleb: per lui l'amore era solo un desiderio sessuale e sembrava non esserne mai sazio. Il problema era che io un cuore ce l'avevo e impazziva di continuo al suo cospetto.
Terminata la lezione di filosofia, presenziai ad altre due. Il tempo passò troppo velocemente per i miei gusti. Si stava avvicinando il momento in cui avrei dovuto guardare negli occhi Jonny. Prendere una pausa significava arrivare a un punto di non ritorno nella nostra relazione. Le cose non sarebbero state più le stesse. Qualcosa nella nostra favola perfetta iniziava a rompersi.
«Signorina Williams!» la voce del professor Hack mi fece sobbalzare mentre stavo per uscire dall'università.
«Signor Hack, è successo qualcosa?» rimasi sorpresa.
«Non ha più risposto alla mia domanda: è il filosofo ad essere arrogante o la sua filosofia?» si avvicinò di pochi passi per poi incrociare le braccia al petto. Dopo un attimo di smarrimento, mi sfuggì una mezza risatina «Assolutamente il filosofo, rende la sua stessa filosofia estremista e seccante» proclamai.
In risposta, lui sembrò soddisfatto, a giudicare dal sorriso che si stampò in faccia.
«Mi permette una domanda, signorina Williams?» gli luccicarono gli occhi.
«Certamente.»
«Che vita sentimentale ha condotto? Si sa qualcosa? Mi lasci indovinare: un uomo l'ha delusa» era strafottente, ma non si poteva dire che si fosse scomposto.
Spalancai la bocca «Non proprio.»
Lui assottigliò lo sguardo incuriosito.
«Se pensa che abbia una sorta di odio per gli uomini si sbaglia e, se sta insinuando che io sia un'arrogante come Schopenhauer, beh... mi hanno definita in modi peggiori» dopo poco il professore si lasciò andare ad una risata leggera. Lo seguii a ruota.
«Amore, andiamo?»
Mi congelai sul posto. Non mi voltai, ma capii subito che si trattava di Jonathan. Il professore, dopo aver teso una mano al mio ragazzo, ci congedò con un "Buona giornata ragazzi."
«Miss Freddezza, non mi saluti?» se ne uscì, allargando le braccia e venendomi incontro. Finalmente ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi. Mi si fermò il respiro, poi mi feci forza e lo afferrai per un braccio, trascinandolo in una zona meno affollata, nei pressi di una quercia lì vicino.
«Jonathan» esordii poco convinta.
«Perché mi chiami così? Mi hai sempre chiamato Jonny» palesò, storcendo il naso e appropriandosi di una postura molto più rigida.
«Dobbiamo parlare» continuai con il mio non preparato discorso.
Avevo rimuginato a lungo su cosa dirgli, ma in quel momento tutte le parole sembrarono poco adeguate e svanirono nel nulla.
«Non capisco, puoi spiegarmi? Perché anche Alexia dice che devi parlarmi? Cosa c'entra lei? Da quanto ricordo non siete mai state grandi amiche» proferì teso e agitato: una veste che non gli si addiceva per il suo temperamento pacato. Al nome di quella bionda psicopatica rabbrividii "Che cosa gli avrà detto? Io la uccido" tenni a bada l'istinto omicida e mi redarguii mentalmente: bisognava uscire puliti da quella conversazione, senza far trapelare nulla che potesse avere a che fare con Jack. Dovevo restare calma e risultare credibile.
Ad Alexia ci avrei pensato più tardi. "Una cosa alla volta" mi intimai.
«Alexia non c'entra nulla, quella vipera vuole sempre ficcare il naso dove non deve. È fatta così, si inventa cose che non esistono sperando di mettere zizzania. Non pensiamo a lei, Jonny, parliamo di noi» ciarlai, pronunciando parole alla rinfusa, sperando di poterlo distrarre.
Lui sospirò pesantemente e mi poggiò le mani sulle spalle. Mi osservò con così tanta intensità che credetti avrebbe capito tutto. Eppure, mi sorrise lievemente, prima di aprire bocca per parlare: «Soph, sarò al tuo fianco d'ora in poi, basta lavoro. L'ho capito: non ti stavo dedicando le attenzioni che meriti.»
«Non è questo. Io ho bisogno di una pausa» ecco, lo dissi. Tutto d'un fiato, senza ripensamenti.
«Perché? Se non è per il mio lavoro, allora perché?» continuò a penetrarmi con lo sguardo. Il cuore batteva all'impazzata, potevo sentirlo uscire dal petto. Stavo guardando con i miei stessi occhi la mia unica ancora di salvezza sgretolarsi. Ma era giusto così.
«Jonathan, io non credo di meritarti» provai a spiegare, con le gambe che iniziavano a tremarmi. Non vedevo l'ora di lanciarmi sul mio letto e pensare che fosse stato tutto un brutto sogno.
«Stai scherzando? Tu sei la persona più giusta che abbia mai conosciuto! C'è altro, ne sono certo. Si tratta di quel professore, vero? Ti piace?» il pomo d'Adamo iniziò a fare su e giù, la sua fronte si imperlò di sudore.
Sbarrai gli occhi incredula «Cosa? Che stai dicendo?»
«Ho visto come vi guardavate, non sembrava una semplice chiacchierata tra un insegnante e una sua allieva. Dimmi la verità, Soph, ti prego» mi implorò, squarciandomi il petto. Mi stava chiedendo la fottuta verità, ma non potevo. Avrei preferito morire piuttosto che infliggergli una simile sofferenza.
«Non ti farei mai una cosa del genere, Jonny. Ho solo bisogno di un po' di tempo» provai a carezzargli il viso, ma si scansò. Iniziò a camminare in tondo come un matto, per poi dare un calcio a una pietra, che volò dritta sulla fiancata di un'auto bianca.
Poco dopo tornò a inchiodare i suoi occhi ai miei «Ti sto perdendo, Soph, ed è tutta colpa mia. Tutta colpa mia» proclamò disperato.
Non mi permise di emettere un singolo suono, poiché mi depositò un bacio sulla fronte e se ne andò, lasciandomi sola tra i miei pensieri e malcontenti.
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