11
Alexia
Tutto procedeva secondo i piani. Anzi, ancora meglio di quanto potessi immaginare. Sophia si era data la zappa sui piedi da sola andando a letto con Jack. "Ce l'ho in pugno" sorrisi vittoriosa rimirandomi nello specchio a muro.
«Ale, andiamo?» Jack entrò di soppiatto nella stanza.
«Tra dieci minuti sono giù» gli riferii lanciandogli uno sguardo seducente. Lui asserì col capo e poi richiuse la porta dietro di sé.
Afferrai la mia borsetta e cercai alla rinfusa il rossetto rosso. Ricalcai il contorno delle labbra e lo rigettai nella pochette. Mi ammirai ancora una volta nel mio tubino bianco "Domani dovrò fare doppio allenamento per smaltire il pranzo di oggi", diedi un'occhiata al mio ventre "Oddio! Guarda che pancia gonfia che ho!" Scossi la testa per scacciare quei pensieri e mi accostai alla porta. Mi accertai che non ci fosse nessuno nei paraggi e poi attraversai il corridoio, accompagnata dal ticchettio delle mie decolleté rosse in vernice. Raggiunsi a passo spedito la camera di Jonathan e bussai. Jo Jo mi accolse qualche istante dopo, lasciandomi entrare fra le mura della sua stanza.
«Sei pronto? Come ti senti?» gli chiesi apprensiva. Lui sospirò pesantemente, mentre si allacciava la cravatta grigia «Non mi sentirò mai pronto per questo, ma voglio vederla» i suoi occhi verdi trasmettevano sofferenza, nonostante stesse cercando di essere forte.
«Jo Jo, tu non hai colpe. È stato un incidente, non potevi farci niente» cercai di rassicurarlo. Mi avvicinai alla sua figura imponente «Lascia fare a me» presi i lembi della cravatta con cui stava armeggiando e li strinsi in un nodo «ecco fatto.»
«Grazie... per tutto. Non so se riuscirò mai a perdonarmi per ciò che le è successo» eravamo a pochi centimetri di distanza, sentivo il suo respiro corto sulle gote. Non potevo negare che la mia attrazione nei suoi confronti non fosse mai morta del tutto. "Ora c'è Jack" rammentai a me stessa e arretrai di qualche passo per allontanarmi dai suoi occhi color smeraldo. «Ci riuscirai, devi farlo. Non punirti inutilmente» mi si inumidirono gli occhi, ma cercai di nasconderlo cambiando argomento «e con Sophia come va? Sei riuscito ad avere sue notizie?» In fondo ero sgattaiolata da lui proprio per questo motivo.
«Vado a prenderla al college più tardi, spero di risolvere le cose tra noi» se possibile, si incupì ancor di più. Mi riavviai una ciocca di capelli biondi dietro all'orecchio e aprii la bocca per parlare, ma Jonathan mi precedette: «Io la amo, Ale. Sono innamorato perso, non voglio commettere più gli errori del passato» si cacciò le mani nelle tasche dei pantaloni e curvò le spalle. Le sue parole mi trafissero come mille lame. "Perché ama tutte tranne me?" strinsi i pugni dietro la schiena e poi incrociai le braccia al petto: «Beh, per quanto ne so, c'è qualcosa che lei dovrebbe dirti. Qualcosa di davvero importante, ma non so se abbia le palle di farlo» sganciai la bomba. "Ora si inizia a giocare, piccola Sophia."
«Di cosa parli? Te lo ha detto lei?» avanzò verso di me con lo sguardo perso.
«Dobbiamo andare» proferii per tagliare corto, e poi lo abbandonai fulminea per recarmi al piano inferiore.
Jack era in piedi, poggiato al corrimano della scalinata, nella sua solita mise elegante.
«Ce ne hai messo di tempo! Altro che dieci minuti!» dichiarò indicando il quadrante del suo orologio da polso. In risposta alzai le spalle «Volevo farmi bella per te» gli carezzai la mascella scolpita e lui fece schioccare la lingua tra i denti.
«Per me?» afferrò il mio polso delicatamente e lo scostò dal suo viso «Tu hai occhi solo per te, Alexia. Non prendermi in giro» si lasciò scappare una sottile risatina.
«Ci sono! Allora, partiamo?» fu Jonathan a interrompere la nostra conversazione, animandosi di buon umore. Lo conoscevo fin troppo bene. Cercava di nascondere in ogni modo possibile le sue paure.
Poco dopo prendemmo posto nella Lamborghini nera di Jack e ci dirigemmo verso il Presbyterian Hospital, incanalandoci nel traffico Newyorkese. C'era un sole accecante, ma meno aggressivo rispetto a quello mattutino. Dallo specchietto retrovisore osservai Jonathan che si mordeva il labbro nervosamente e si asciugava una gocciolina di sudore dalla fronte. Stava per rivedere mia sorella Caroline, la sua ex, dopo cinque anni dal suo tragico incidente.
Quella notte avevano litigato drasticamente, erano in macchina e Jo Jo perse il controllo del motore andandosi a schiantare contro un albero. Lui ne uscì quasi intatto, riportando solo qualche lieve contusione, mentre per mia sorella si rivelò un tragico evento. Non si era più risvegliata. Era in coma, tenuta in vita da alcuni macchinari. Spesso i medici mi avevano chiesto se volessi staccare la spina, ma avevo sempre rifiutato, continuando a sperare che prima o poi avrebbe riaperto gli occhi. Inoltre, Jack si era impuntato più di me e aveva convinto la sua famiglia a pagare fior di quattrini pur di preservare la vita di mia sorella. Ai tempi non avevo risorse economiche per pagare l'ospedale, così si era offerto di accollarsi tutte le spese necessarie. Inutile dire che anche lui, come il mio migliore amico, si era follemente innamorato di Caroline.
"È incredibile come questi due siano sempre attratti dalla stessa ragazza come una calamita" mi ritrovai a constatare.
«Manca molto?» si informò Jo Jo con voce instabile. Mi voltai per stringergli la mano e per dirgli che c'eravamo quasi. Più ci avvicinavamo alla meta e più si agitava e, quella volta, difficilmente riuscì a mascherarlo. Lui, a differenza di Jack, aveva affrontato in maniera completamente diversa l'accaduto: inizialmente lo aveva negato a sé stesso, poi era crollato nella fase più disperata, tra sensi di colpa e dolore, e infine aveva deciso di rimuovere nettamente il ricordo di Caroline dalla sua vita. Non aveva mai avuto il coraggio di andarle a fare visita in tutto quel tempo; invece, io e Jack ci recavamo all'ospedale quasi ogni giorno da cinque anni a quella parte. Era pur vero che io, avendo avuto il lavoro a Parigi, avevo saltato la maggior parte delle visite nell'ultimo anno.
Arrivammo a destinazione. Appena dentro l'ospedale, la ragazza della reception riconobbe subito me e Jack, anzi riconobbe solo Jack. Aveva gli occhi a cuoricino ogni volta che lo guardava, iniziava a parlare freneticamente e in maniera sillabica. "Patetica."
«Signor Jones, che piacere rivederla!»
«Salve», rispose lui, regalandole un mezzo sorriso.
«È qui sempre per la signorina Pottermore?»
«Sì e loro sono con me» ci indicò con l'indice e Jonathan sussultò, come se si fosse appena risvegliato dai suoi pensieri. Subito tornò vigile e controllato.
«Bene, lasciatemi i vostri nominativi. La stanza è sempre la 186, terzo piano» ci informò la simpatica receptionist. Non appena ebbe registrato tutto nel computer davanti a lei, afferrò quello che doveva essere un bigliettino da visita «Tenga signor Jones, qui trova il mio numero, nel caso in cui le servisse qualcosa. Rispondo sempre, anche quando sono fuori servizio» glielo porse, stirò bene la schiena e si aggiustò il colletto della camicia. Dopo qualche istante di smarrimento, Jack la ringraziò. Roteai gli occhi e, senza che i due fratelli potessero vedermi, la fulminai con uno sguardo agghiacciante.
Jonathan
C'eravamo. Me ne stavo impalato di fronte alla stanza 186. Il cuore batteva all'impazzata, mi sarebbe uscito fuori dal petto se avessi continuato a lasciare il potere ai miei pensieri contorti e negativi di manipolarmi. Le mani sudavano grondoni, le gambe erano tese come la mia schiena. Mi fischiavano le orecchie. Dovevo riprendere in mano il controllo. Poggiai le mie dita sulla maniglia e chiudendo gli occhi esercitai una leggera pressione, lasciando che la porta si aprisse.
Alexia e Jack avevano deciso di fermarsi al bar dell'ospedale, per lasciarmi un po' di tempo da solo con Caroline. Arrancai qualche passo incerto e mi avvicinai alla ragazza distesa sul lettino. In un primo momento, serrai i pugni e distolsi lo sguardo. La scena di quella notte nefasta invase la mia mente.
«Perché mi hai fatto questo, Caroline? Perché, cazzo! Ti ho fatto mancare qualcosa? Non ti ho amata abbastanza? Dimmelo!» urlai stringendo il volante tra le mani con tanta rabbia quanta ne provavo nei confronti di mio fratello.
«N-no... tu non hai fatto niente di sbagliato» iniziò a singhiozzare, stringendosi nelle spalle e aggrappandosi al suo sedile.
Cercai di rilassarmi e di placare le emozioni contrastanti che mi assalirono tutte insieme con intensità. Provai a regolare il respiro. Mossi altri piccoli passi verso la testata del lettino e, per la prima volta dopo cinque anni, me la ritrovai davanti. Un tuffo al cuore.
«Ti ha baciata, Caroline! Perché glielo hai lasciato fare?» non distolsi lo sguardo dalla strada. Nonostante questo, con la coda dell'occhio, la vidi abbassare la testa bionda e prendersela tra le mani.
«Credo di provare qua-qualcosa p-per lui...»
Un pianto quasi isterico.
La nostra storia era ormai infranta. Se Caroline provava qualcosa per Jack era davvero finita. Fu letale.
Accelerai. Nelle mie orecchie il rombo del motore, nel mio cuore la collera e nelle mie vene il veleno. Non mi resi conto di come, poco dopo, premevo il freno inutilmente, mentre un fascio di luce difronte mi abbagliava «Cazzo!» sterzai a sinistra.
Uno strillo acuto di Caroline. E poi il nulla.
Sbiancai di fronte al suo corpo inerme. I suoi capelli biondi erano sempre lisci come seta e mi ritrovai a passarci una mano dentro. Rabbrividii quando, a contatto con la sua pelle, sentii il freddo gelido.
"È tutta colpa mia" ingoiai una sostanziosa mole di saliva. Avevo provato a chiudere in una cassaforte immaginaria il mio dolore, ma non c'era giorno in cui non mi svegliassi con un nodo alla gola. Quel giorno avevo preso coraggio. Era arrivato il momento di affrontare le mie paure. La traballante situazione con Sophia aveva fatto riemergere vecchi sgomenti e, in quella settimana senza di lei, avevo rimuginato a lungo. Lei non era a conoscenza di quella storia, tantomeno dell'esistenza di Caroline. Se l'avesse saputo, non so con che occhi mi avrebbe guardato. Tempo addietro ero stato da uno psicologo che mi aveva detto «Arriverà un giorno in cui sarai pronto e quel giorno non avere paura. Prendi in mano le redini e guidati fuori da questo tunnel. Tu meriti la luce, meriti la pace del perdono.» Volevo uscirne, volevo liberarmi da quel peso opprimente che mi schiacciava il cuore e l'anima. "D'ora in poi combatterò per ciò che amo."
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