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Copertina fatta da me
Spero vi piaccia❤️
Grafica 3D
a cura di Heroon_S
Grazie mille❤️
"Tutto ciò che è passione arde.
Tutto ciò che è sentimento ti attanaglia lo stomaco e ti stringe il cuore.
Tutto il resto sfuma nel vento".
-Sophia Williams
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New York, 2018
Era una calda serata di agosto, un punto alla fine di un lungo periodo, un nuovo traguardo per la mia giovane età e un giorno speciale per me. Lanciai uno sguardo aldilà della finestra: il cielo era velato dallo smog e oscuro, ma costellato di tanti piccoli e luminosi puntini, uno più scintillante dell'altro.
Neanche una nube quella sera, solo il chiarore delle stelle e l'aria appiccicosa e tiepida sulla pelle. I grattacieli di New York sovrastavano la città, erano tutti allineati davanti ai miei occhi e a quelli di Dio. Aspettavo quell'undici agosto da trecentosessantacinque giorni ormai. Sarebbe stata una grande nottata in onore del mio diciannovesimo compleanno. Allo scoccare della mezzanotte avrei compiuto gli anni e avrei festeggiato insieme a tutti i miei amici.
Ero quasi pronta per dirigermi al CIELO CLUB, la migliore discoteca di NYC a detta di molti esperti. Avevo indossato un elegante abito rosso fuoco, aderente e lungo fino ai piedi, con uno spacco da capogiro sul retro.
Mi restava solo afferrare la mia borsetta e gettarci dentro il documento falso per evitare di incappare in qualche disastroso controllo. Possedevo quel documento da un anno a quella parte, lo utilizzavo spesso per raggirare il divieto di bere alcolici nei locali. D'altronde, una festa senza alcool non sarebbe stata una festa.
Nello specchio a muro della mia stanza mi rimirai per un'ultima volta nel mio outfit e con il trucco non troppo sobrio sul mio viso magro. I tacchi vertiginosi erano d'obbligo, non solo per il lieto evento, ma anche perché era richiesto direttamente dalla discoteca un abbigliamento consono all'ambiente. All'entrata del locale, infatti, veniva fatta spesso una selezione per criteri di stile e sobrietà. Essendo perquisiti in modo abbastanza minuzioso, conveniva non presentarsi visibilmente sbronzi, straccioni o esagitati.
In casa mio padre era accoccolato sulla sua fedele poltrona, dinnanzi alla televisione, e con un boccale di birra tra le mani ruvide e virili. Quell'immagine mi intenerì. Sembrava così solo, aveva solo me. Avevamo perso entrambi una donna molto importante della nostra vita, rispettivamente mia madre e sua moglie. Un'unica persona, ma che avrebbe ricoperto due ruoli ragguardevoli nelle nostre esistenze.
Io avevo sofferto tremendamente l'assenza della figura materna. Era stata un'infanzia difficile e tortuosa, ma mi aveva insegnato molto sulla vita. Ero maturata prima del tempo, sapevo quanto potesse essere bastarda la dea bendata e avevo racimolato quelle poche forze che erano in mio possesso per affrontare la realtà. Con gli anni ero diventata una guerriera, una donna forte e determinata. Sapevo ciò che volevo e nessuno me lo avrebbe tolto.
Non avrei lasciato che mi venissero portate via, ancora una volta, le persone che amavo.
Non avevo mai conosciuto mia madre, mi era solo stato detto che era morta dandomi alla luce. Non avevamo neanche una sua fotografia, ma papà mi ripeteva di continuo che le assomigliavo molto e che sarebbe stata fiera di me. Questo mi bastava per andare avanti e farmi coraggio, al contrario di mio padre che non si era mai risposato né aveva tentato di conoscere qualche nuova pretendente. Non era anziano, tutt'altro. Era arrivato alla quarantina e faceva ancora un certo effetto alle donne, ma era rimasto bloccato al giorno in cui sua moglie era morta. Era davvero innamorato e mi parlava spesso dei suoi sentimenti per lei. Qualcosa di indescrivibile, un amore folle, un colpo di fulmine e una passione irrefrenabile. Era così che descriveva la sua relazione con la mamma. E io, nel profondo, speravo di riuscire a trovare la fotocopia del loro rapporto. Credevo di averlo rintracciato nel mio attuale fidanzato Jonathan e lo stavo coronando da ben due anni.
«Papà, io vado allora» lo avvisai, mentre era ancora comodamente ubicato sulla sua poltrona bordeaux.
Si voltò di scatto, puntandomi i suoi occhi scuri e penetranti addosso; erano il suo punto di forza e gli conferivano fascino e trasgressione. «Prima che scappi via,» si avvicinò, mi prese il volto fra le mani e mi lasciò un bacio delicato sulla fronte alta «Auguri, bimba mia, anche se in anticipo», mi strinse a sé con affetto e ricambiai con trasporto. Era l'unica persona con cui riuscivo a essere completamente me stessa. Neanche Jonathan era in grado di farmi aprire come faceva mio padre. Ero un libro aperto per lui, mi aveva cresciuta con amore e spirito di volontà.
«Grazie, papà. Ti voglio bene, lo sai» lo strinsi forte e inspirai il suo profumo pungente alla menta, il medesimo da diversi anni.
«Dove vai?» mi chiese prima di lasciarmi andare.
«A casa di un'amica, poi faremo un tuffo dal ponte di Brooklyn» recitai con aria sommessa e colpevole. Mi morsi il labbro per non ridere sguaiatamente. Inizialmente la sua espressione mutò da apprensiva a sbigottita, poi tornò serena. Sapeva che non mi sarei buttata da più di quaranta metri di altezza! "Maledette vertigini!"
«Non me lo dirai mai, vero?» si rassegnò, con un debole sorriso in volto. Mi fece quasi tenerezza il modo in cui mi guardava.
«Potrei sempre farti un colpo di telefono prima di cadere in acqua» scherzai e abbandonai subito dopo la mia umile dimora. Non navigavamo nell'oro, ma ce la cavavamo. Mio padre era un dipendente della famosa e rinomata azienda Jones Atlantic, di proprietà famigliare del mio fidanzato.
Mi persi ad ammirare le luci spiccate e alte dei grattacieli della zona più hot della città, Meatpacking District. Un quartiere di Manhattan conosciuto ed esimio per la sua movida notturna. Ero fortunata, perché abitavo proprio in un palazzo stante nelle prossimità dell'High Line Park. Gettai un'occhiata più in alto, sollevando il capo e gli occhi, e non potei fare a meno di guardarlo con un sorrisino cucito in faccia. Mi ricordava le lunghe passeggiate fatte con Jonathan, armonizzati con il totale paesaggio dalla sfumatura onirica, per via della sua bellezza naturale e artificiale al tempo stesso.
Momenti che custodivo gelosamente nelle mie memorie. Avevo sempre avuto un debole per quel parco, realizzato su una sezione in disuso della ferrovia sopraelevata, la West Side Line. Era un luogo tranquillo, lontano dal traffico e dalla confusione urbana e, di sera, sembrava ancora più bello e maestoso.
Una chiamata mi sconvolse i piani, non potevo ancora saperlo, ma sarebbe stato inoppugnabile.
«Piccola, mi dispiace moltissimo, ma non potrò esserci questa sera. Ho delle faccende lavorative da concludere in azienda e non riesco a raggiungerti» la voce di Jonathan squillò dritta nel mio timpano, disorientandomi per qualche secondo.
«Jonny, ma è il mio compleanno!» piagnucolai evidentemente scossa dalla notizia della sua assenza.
«Lo so, piccola, giuro che mi farò perdonare in qualche modo» avvertivo la stanchezza nel suo tono di voce, mi stava dicendo la verità e ne ero consapevole.
«Ti conviene. Scherzi a parte, mi mancherai» ero sinceramente dispiaciuta, ma non me ne sarei curata più di tanto. Ero decisa a divertirmi come non mai, e quella notte sarebbe stata "la famosa notte". «Anche tu piccola. Sappi che ci sarà mio fratello lì con te, ti terrà d'occhio al posto mio» mi informò. Jonathan riponeva molta fiducia in suo fratello Jack, anche se a volte non lo dimostrava. Litigavano di continuo ed erano l'uno l'opposto dell'altro. Il giorno e la notte. Il sole, sempre splendente, e la luna, con tutti i suoi affabili e latenti misteri.
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Più tardi ero in fila insieme a tutti i miei amici del college. Dopo il primo anno, avevo già una bella intesa con alcuni di loro, tra cui Aria e Caleb. Gli altri li avevo invitati solo per fare numero.
«Faremo l'alba e marciremo qui fuori, se non si muovono a farci entrare» Aria si strinse nelle spalle, lasciate scoperte dalle spalline trasparenti del suo abitino nero.
Erano circa le ventitré e avevamo sentito che i buttafuori erano in minoranza rispetto al consueto schema di schieramento. Uno si occupava di controllare gli uomini e l'altro le donne.
«Sophia!» Aria mi fece sobbalzare con euforia isterica e improvvisa. Mi voltai di soprassalto e la guardai con aria interrogativa.
«Che c'è?» chiesi infastidita dalle sue grida, e mi massaggiai l'orecchio con le dita affusolate.
«Mancano solo quaranta minuti al tuo compleanno!» squittì felice e mi contagiò con il suo buonumore. Era proprio ciò di cui avevo bisogno: allegria e spensieratezza. Finalmente, in seguito a una lunga attesa, riuscimmo ad entrare, non prima di aver ceduto i nostri documenti fasulli all'uomo piazzato difronte all'entrata del CIELO CLUB. Il locale, per quanto acclamato e viziato dalle dicerie della gente, era più piccolo di come me lo aspettavo. Mi rincuorai, però, venendo a sapere che avrebbe suonato per noi uno dei dj internazionali più ricercati del momento. Divanetti in pelle erano disposti in ordine e accoglievano parecchia folla, accalcata e munita già di cocktail svariati. Non persi tempo e, dopo aver saputo in quale angolo fossimo stati smistati, mi avvicinai al banco dei drink. Il tavolo era lungo e in legno, circondava una piccola zona dove sostava il barman, alle prese con l'alcool e intento a shakerare più bevande simultaneamente.
Mi sedetti su uno degli sgabelli in rialzo e non dovetti aspettare troppo prima di ricevere l'attenzione del ragazzo in divisa da lavoro. «Buonasera, signorina, cosa le posso dare?» mi fissò intensamente dalla sua postazione. Aveva i muscoli delle braccia tesi e pronti a reagire a ogni mia richiesta. Solo professionale si intende.
«Dello champagne può essere all'altezza della serata?» una voce che conoscevo bene, quella di mio cognato Jack, mi provocò tanti brividi lungo la schiena nuda ed esposta ai suoi occhi scuri. Ghignai inevitabilmente, sapendolo dietro di me.
Avevamo uno strano rapporto, intriso di giochetti di parole e frecciatine a scopo sessuale. Non era un caso, visto che sapevamo entrambi con chi avessimo a che fare. Lui era il re della notte e della seduzione. E io ero la fidanzata di suo fratello, il suo sogno proibito. «Sì, per favore ci dia dello champagne» non diedi retta al barman che armeggiava con le bottiglie e i calici, ma mi voltai per incastrare i miei occhi in quelli di Jack.
Restai sorpresa nel vederlo fasciato da un jeans insulso e scolorito e da una maglietta a mezze maniche aderente. Di solito era sempre vestito di tutto punto, con tanto di camicia e cravatta.
«Così sei arrivato davvero! Jonathan mi aveva avvisata della tua presenza, ma non credevo avresti rinunciato alle tue conquiste notturne per sgattaiolare da me» sostenni il suo sguardo magnetico ed enigmatico. Sul suo volto si formò una piccola ruga d'espressione all'angolo della bocca. Stava sogghignando. Era sempre così misterioso e glaciale, ma a detta di molte ragazze, di notte si trasformava diventando focoso come un drago. Quel ragazzo era un controsenso, un eterno miscuglio di sostanze tossiche e nemiche tra loro che si fondevano in un cocktail di freschezza e di bramosia al tempo stesso.
«Non è detto che non possa fare altre conquiste anche qui, stanotte» mi piantò con prepotenza gli occhi addosso, mi mangiava con lo sguardo di un affamato di carne e desiderio. Avevo sempre tenuto duro e non ero mai finita a letto con lui, nonostante la tentazione fosse sempre in agguato, contando anche le sue spiccate tecniche persuasive. Lo conoscevo sin dalla High School, avevamo frequentato le stesse classi per un anno ed era stato così che avevo conosciuto suo fratello Jonathan. Jack aveva tre anni in più di me, ma si era fatto bocciare sino a trascorrere le giornate scolastiche con me e i miei coetanei. Non avevo mai compreso cosa gli ronzasse in quella testa matta. Era un genio della matematica e del calcolo delle probabilità, sapeva recitare Shakespeare a memoria e non gli mancava di certo l'intelligenza per superare uno stupido anno di scuola. Perché avesse ripetuto più volte lo stesso programma didattico non era tra le mie conoscenze.
«Hai già puntato qualche vittima?» lo invogliai a continuare il nostro scambio di quesiti e repliche. Avvicinai il calice di champagne alle mie labbra, dopo averlo preso dal bancone, e procrastinai. Giocavo con il cristallo, che urtava i miei denti, e non distoglievo le iridi azzurre dalle sue. Lo vidi girarsi attorno, portarsi una mano sotto il mento sbarbato e rifletterci su. Poi mi squadrò da capo a piedi e si soffermò senza pudore sulla mia scollatura, in bella vista tra il solco dei seni. Tornò a incatenare i nostri sguardi. Ero ancora in attesa di gustare il dolce e frizzante sapore dello champagne, così ne bevvi un sorso e poi mi leccai le labbra sicura di me stessa.
«La mia vittima più desiderata è proprio davanti ai miei occhi» aggrottò le sopracciglia per approfondire il contatto visivo, ma tornò subito disteso e rilassato, come solo lui sapeva essere in qualsiasi circostanza. Ingoiai un groppo di saliva e una piccola fiammella di attrazione mi attanagliò lo stomaco. Non dovevo dare peso alle mie emozioni con Jack, perché era sbagliato che io provassi qualcosa per il fratello del mio ragazzo. Era una delle mie regole.
«E sarò una vittima solo nelle tue fantasie, sai come stanno le cose» saltai giù dallo sgabello, abbandonai il calice vuoto sul bancone e ignorai la tensione sessuale che mi logorava ogni qualvolta fossi nelle sue vicinanze.
Prima che potessi svignarmela, mi afferrò il polso e mi fece scontrare con il suo corpo muscoloso e tonico. Sentivo il seno schiacciarsi contro il suo ampio petto. Delineò i tratti del mio viso con la punta delle dita, in un lento e asfissiante movimento. Trattenni il respiro quando l'altra mano finì sul fondo della mia schiena, poco più sopra del sedere.
«Sarai sempre la mia fantasia più ambita» mi soffiò nell'orecchio e io chiusi gli occhi e gettai il capo all'indietro. Era incredibile come il suo tono roco e virile mi mandassero fuori di testa, fino a farmi quasi obliare il motivo per cui lo tenevo a debita distanza. Strinse la presa sulla mia schiena, ma io gli misi una mano sul petto per allontanarlo. Lo fece senza opporre resistenza.
«Ti tengo d'occhio, Sapienza» si concesse anch'egli un'abbondante sorsata di champagne e mi osservò, fino a che non gli diedi le spalle e tirai dritto per raggiungere i miei amici. Era una tradizionale consuetudine quella di affibbiarci nomignoli a vicenda. "Sapienza" era quello che mi aveva dato ai tempi dell'High School, era il significato del mio nome in greco e lui non perdeva occasione per usarlo. Era comunque cosciente del mio disappunto. Quel soprannome mi ricordava il periodo in cui sguardi e baci innocenti ci avevano fatti avvicinare. Non eravamo fidanzati, solo complici di una chimica inspiegabile tra noi. Poi era arrivato Jonathan, con il suo fascino e la sua premura, e mi aveva rubato il cuore. Il mio fidanzato non poteva presagire che ci fosse stato qualcosa, anche se piccolo, tra me e suo fratello minore qualche tempo prima. E io e Jack ci eravamo ripromessi di tenere la bocca cucita. Mi feci spazio al nostro tavolo fra Aria e Caleb e afferrai la bottiglia di vino pregiato che avevano ordinato. La fissai con una punta di furbizia e congetturai l'effetto che avrebbe avuto, sul mio corpo e sulla mia mente, ingurgitare altro alcool. Non lo reggevo bene ed era anche per questo che Jonathan si era preoccupato di mandare Jack a supervisionare la serata. Era contrario al fatto che bevessi più del dovuto.
«Beh, brindiamo!» alzai la bottiglia in alto e vociai forte e chiaro. Tutti entusiasti sporsero i propri bicchieri verso di me. Li riempii a uno a uno fino all'orlo, traboccanti e carichi di felicità. Prima che potessimo bere quel vino prelibato, un uomo sulla trentina si abbordò al mio fianco e mi sussurrò qualcosa all'orecchio.
«D'accordo, me la lasci pure.» Mi mise una lettera tra le mani e si dileguò. La ricordo ancora, era sgualcita e odorava di tabacco. Aprii la busta ed estrassi il biglietto. Gli altri presenti, forse per rispetto della mia privacy, mi ignorarono e diedero il via al loro "cincin". L'intera sala sembrò sfumare nel nulla, la musica scomparve nella mia testa e lasciò spazio a un silenzio inquietante. Ero eccitata: nessuno prima di allora mi aveva scritto una lettera! Doveva essere sicuramente di Jonathan e contenere i suoi auguri. "Ha iniziato proprio bene a farsi perdonare!" pensai tra me. Lessi tutto con voracità, sin dalle prime righe.
Quant'è strana la vita, piccola Sophia. Non mi conosci e ne sono conscia, ma non potevo permettermi di mancare a questo giorno speciale: il tuo diciannovesimo compleanno. Già mi immagino quanto sarai bella, elegante e raffinata con i tuoi lineamenti candidi e puri. Due occhioni azzurri che avranno sicuramente imparato a guardare il mondo da un'altra prospettiva. Quegli occhi che mi scrutarono diciannove anni fa, mentre eri tra le mie braccia, scalpitante e appena sbocciata, come un fiore raro, un girasole in mezzo ad un deserto. Spiccavi tra tutti i neonati, bella e agitata, ti facevi sentire sin da allora. Il tuo pianto riecheggiava in tutto l'ospedale e reclamava sua madre. Oggi, è quella madre a reclamarti e non può più vivere nell'agonia di non averti conosciuta. Non spaventarti, non era nei miei intenti. Volevo solo augurarti un felice compleanno. Che tu sia sempre forte come lo sei stata fino ad ora e che la vita ti possa restituire ciò che ti è stato tolto.
Con amore, la tua mamma.
Rilessi più volte quell'oscenità. Una profonda ira pervase ogni centimetro del mio corpo. Scorreva lungo le mie vene e pareva non riuscire a frenarsi. "Chi ha osato farmi un tale scherzo? Sicuramente qualcuno di crudele che non mi sopporta, perché mi sta rovinando la serata. La mia serata." Non mi ero accorta delle lacrime che capeggiavano sulle mie gote arrossate, a causa della rabbia. Sì, perché non potevo provare altro che rabbia. Il dolore era svanito molto tempo addietro, insieme alle mie insonnie e ai miei incubi ricorrenti e quotidiani. Ricordavo benissimo il gruppetto di bulli che mi aveva perseguitata per anni prendendomi in giro perché non avevo una madre. Il cuore non reggeva quelle tre parole, una accanto all'altra, "La tua mamma", che sembravano prendersi gioco di me e dei miei sentimenti arrugginiti. Lei era morta e purtroppo era l'aspra verità. Strinsi forte i pugni, quasi affondando le unghie nella carne, e mi rivolsi con ruvidezza alle persone presenti.
«Chi è lo stronzo che ha ideato questo scherzo di pessimo gusto? Non è divertente» indicai il pezzo di carta fra le mie mani e mi morsi il labbro inferiore con veemenza disumana. Gli sguardi persi e disorientati degli invitati mi convinsero a rassegnarmi alla loro innocenza. «Che cos'è, Soph? Hai un aspetto terribile» Aria mi toccò un braccio, ma mi scansai con fastidio.
Ero irritabile, non riuscivo ancora a connettere bene la realtà con la fantasia. Volevo crogiolarmi nell'assurda ipotesi che fosse solo un sogno, un brutto sogno. Che non fosse mai esistita quella fottuta lettera, che mi fossi immaginata tutto. «E ora, che è appena scoccata la mezzanotte, facciamo gli auguri alla nostra festeggiata, Sophia Williams! Diciannove anni da portare sulle spalle!» il dj scelse il momento peggiore per puntare l'attenzione su di me e un faro luminoso sulla mia figura fragile, esile e distrutta. Quando ogni individuo all'interno del nightclub mi poté scorgere fra la moltitudine di gente, mi sentii umiliata. Era troppo, non ne potevo più di stare lì impalata come uno stoccafisso alla mercé degli occhi maligni e curiosi di chiunque, compresi gli sconosciuti.
Afferrai i lembi del mio vestito e scappai via, corsi sui tacchi fino a uscire da quel locale, diventato troppo stretto per i miei gusti, che si stava nutrendo di ogni mia paura e debolezza. Assaporai la libertà di essere sola, all'aria aperta, e presi un gran respiro di incoraggiamento. Non ebbi la forza di immaginare che disastro fosse diventato il mio viso, fra make-up colato, occhi rossi e gonfi. Fu allora che da malsana masochista rimirai la lettera e, invece di stracciarla e gettarla lontano, la piegai con cura e la riposi nella mia borsa.
Per qualche ambigua ragione non riuscivo a buttare al vento l'unica speranza di sapere mia madre viva e vegeta. Era stato un ulteriore sgambetto del destino, ma non me la sentivo di smentire quelle parole. "Magari sono davvero state scritte da lei, forse prima di morire."
Una presenza alle mie spalle mi fece irrigidire più di quanto non lo fossi già. Non parlava, le sue corde vocali non emettevano un singolo misero suono. Mi asciugai le lacrime, sempre nell'ombra, e poi mi decisi a scoprire la sua identità. Era Jack, con il suo sguardo glaciale e la sua fedele espressione enigmatica. Non accennava ad aprir bocca. Per quanto calmo volesse apparire notai il suo pomo d'Adamo contraddirsi e fare su e giù più velocemente. Era uno schianto anche senza la giacca, la camicia e una stupida cravatta. Quella maglietta gli aderiva perfettamente addosso, evidenziando i suoi pettorali sotto la trasparenza del tessuto. Ero pronta a scordare, almeno per quella notte, l'esistenza della lettera e a tentare di godermi quella che doveva essere la mia più bella festa, infrangendo una delle mie regole.
«Che cos'è successo?» finalmente Jack parlò e si tradì, lasciandosi sfuggire il controllo motorio delle palpebre, che si spalancarono. Era preoccupato per me.
«Non sono pronta per parlarne ora, voglio fare finta di nulla» dissi con tutto il vigore d'animo che possedevo. Ero determinata, lo ero sempre stata, ma quella notte fu decisamente diverso. Erano una fermezza e una risolutezza completamente malate.
Afferrai il suo volto con prepotenza e schiusi le labbra, mentre già percepivo un certo calore fra le gambe.
«Oh, Sophia» Jack sembrò vacillare dinnanzi al mio corpo esposto ai suoi occhi. La vicinanza tra le nostre bocche era quasi inesistente. Mi allacciò le braccia attorno alla vita e mi strinse con decisione, possessione, ardore. Non potevo negare l'attrazione che provavo per lui, era inconfutabile. Così, allo stesso modo, mi ero sempre sentita desiderata e pretesa dal suo corpo. Bruciavamo come fuoco, avvolti in una passione che ci fondeva. Mi fissò dritta negli occhi, e mi scappò un gemito di piacere al solo immaginare le sue mani su di me e dentro di me. «Che cosa stai combinando, Sapienza?» mi sussurrò sulle labbra, prima di leccarle con maestria e lussuria.
Ricambiai il bacio e il contatto durò minuti interminabili, una sofferenza unica per i miei ormoni. Volevo di più, sapevo che lo stesso valeva per Jack, a giudicare dall'erezione che premeva contro il mio ventre. Mi sentivo sporca, era sbagliato quello che provavo, ma volevo dimenticarmi di tutto, anche della mia identità. Ero sconvolta e io odiavo tornare a sentirmi così, dopo lunghi anni di lotte contro me stessa per crearmi una corazza inespugnabile.
«Andiamo a casa mia» suggerì in preda agli spasmi di eccitazione. Lo desideravo con tutta me stessa. Il mio corpo lo bramava con tutte le sue cellule.
«Potrebbe esserci qualcuno» ero tremendamente accecata dalla scarica di adrenalina che mi provocava il suo tocco.
«No, i miei sono in viaggio e Jonathan resterà in azienda tutta la notte».
Sapevo che il tradimento era una cosa orribile, ma l'idea di ricevere come regalo di compleanno un orgasmo da parte di Jack mi mandò fuori di senno.
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