Twenty Fourth
Non ho abbandonato la nostra panchina,
non ho smesso di andarci,
né ho dimenticato la sequenza di numeri.
Però non mi ci sono più seduto sopra.
Per un paio di settimane
mi sono limitato a passarci davanti,
con i palmi sudati delle mani
infilati nelle tasche
della mia giacca di jeans.
Ci passeggiavo attorno,
come un satellite che segue l'orbita
attorno al suo pianeta.
Non la fissavo mai
per più di qualche istante,
il tempo che serviva
per assicurarmi che fosse ancora tutto
al suo posto.
Ma dopo un po'
mi sono stancato di camminare,
e ho iniziato a sedermi
a terra.
Accanto alla panchina,
ma mai sopra.
Mi macchiavo i pantaloni
di erba e fanghiglia,
portavo a casa
gli steli verdi
che mi restavano appiccicati addosso,
vi strisciavo attorno
come se vederla da più angolazioni
potesse aiutarmi
a capire
cosa significasse
quella mia
determinazione
ad evitarla a tutti i costi.
Per un periodo
è stato strano
non volerci stare attorno,
ma averne comunque il bisogno.
Sentivo che se non fossi tornato più
in quel posto,
nel nostro posto,
avrei rinunciato
definitivamente
a te.
Quindi mantenevo le distanze
senza mai allontanarmi troppo.
La terza mattina di Dicembre
il caldo
soffocante
sembrava aver inaridito
l'intera città.
Arrivai al parco
zuppo di sudore
stanco,
triste,
e mi sedetti dietro la panchina.
Sulla corteccia dell'albero
che la sormonta,
campeggiavano altre incisioni
ma nessuna
che fosse stata una tua produzione.
Mi ci poggiai contro
e respirai
profondamente
l'umidità dell'aria
e l'odore speziato
del mio deodorante.
Chiusi gli occhi
e li riaprii
un paio di volte.
Poi lo vidi
e fu come
sentire il mio cervello
sgretolarsi in particelle
disperdersi nell'aria
ed essere risucchiato di nuovo al suo posto.
Un numero,
solitario,
era stato inciso
rabbiosamente
sullo schienale di legno
della panchina.
Nel giro di qualche secondo,
mi trovai in piedi
e in movimento,
lanciato a tutta velocità
lungo le roventi strade
di Sydney.
-Sempre tuo, Michael.
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