Seventeenth
Il viaggio dall'aeroporto all'albergo sembra paradossalmente durare più di quello in aereo.
Probabilmente la sensazione di chiusura che ho ai polmoni e allo stomaco è dovuta al ricordo della mano delicata di Jodie che scivola con naturalezza sulla mia, stringendomi le dita con le sue.
Infatti sono il triplo più nervoso di prima e anche più sudato.
Il taxi in cui ci stringiamo appena usciti dall'aeroporto è di un giallo scolorito tendente al marrone, come l'involucro di una banana marcia, e gli interni smunti odorano esattamente come ci si aspetterebbe.
Accanto a me si siedono prima Michael e poi Jodie, che adesso condividono le cuffiette e fanno del loro meglio per distendere il viso in un'espressione quantomeno tranquilla, se non spensierata.
La mia mente però continua ad essere un casino per tutto il tragitto.
Oltre il groviglio di pensieri causato dalla sua sola presenza, ora più immediata che mai, man mano che ci avviciniamo al centro di Melbourne ai grattacieli a specchio e ai parchi verdissimi, immagini di te si aggiungono alla matassa.
E non solo, se si trattasse solo di ricordi delle tue camice spiegazzate sempre troppo corte o dei tuoi occhi azzurro ghiaccio, forse saprei raccapezzarmici meglio. Credo di esser diventato bravo a gestirli. Ma no.
Adesso sposto lo sguardo dal colorito paesaggio della periferia fuori dai finestrini impolverati e mi scontro con i volti sudati e incartocciati dei tuoi genitori.
Riesco a malapena a gestire me stesso in questa situazione, figurati se posso preoccuparmi del mento costantemente contratto di Elizabeth che cerca di non scoppiare in lacrime da un momento all'altro o alle sopracciglia corrucciate di Andy, che forse sta cercando di racimolare un po' di coraggio.
Tutto questo stare in ansia mi inacidisce lo stomaco ancora vuoto, così mi trovo a pensare a te per calmarmi.
Se avessi pensato una cosa simile anche solo qualche settimana fa credo proprio che sarei scoppiato a ridere fragorosamente.
Avrei trovato a dir poco ridicolo pensare a te per sentirmi meglio. Tu che sei sempre stato il primo ad infiammarmi di rabbia il cervello.
È stranissimo pensare che ora sei diventato una distrazione dalla realtà, che è diventata più pesante della tua assenza.
Chiedermi come sarà rivederti occupa la mia immaginazione per il tempo necessario che ci vuole a lasciarci alle spalle l'aeroporto e iniziare la ricerca del nostro albergo.
Sentirò il petto sprofondarmi dalla tristezza e desidererò solo correrti incontro per abbracciarti? O forse prenderti a pugni?
Mi domando se dopo aver sistemato la questione avremo qualcosa di cui parlare o se il silenzio sarà ancor più doloroso di tutte le parole che vorrei dirti.
E per qualche minuto immagino persino di consegnarti tutte le lettere e i pensieri che ho collezionato negli anni, però le immagini della tua espressione interdetta mi spingono subito a cestinarla come una pessima idea. Probabilmente renderebbe l'incontro ancor più imbarazzante.
Così occupi la mia mente per un tempo sorprendentemente lungo, abbastanza da permettermi di superare la cena forse più spiacevole della mia vita.
Michael spinge la sua porzione di risotto alla milanese da una parte all'altra del piatto con aria pensierosa per tutto il tempo.
Il resto di noi inghiotte acqua o vino bianco -nel caso di tuo padre- a grandi sorsi, per tenere la bocca occupata tra un boccone e l'altro.
Anche Ashton si chiude nei suoi ragionamenti, intrattenendo una breve conversazione con Jodie soltanto quando ci stiamo alzando tutti da tavola, pronti per ritirarci nelle nostre stanze.
"Siamo alla 102" lo sento sussurrare in sua direzione, prima di afferrarmi per un braccio e trascinarmi verso l'ascensore.
Lì per lì mi sento un'ondata intensissima di calore strisciarmi su per il collo fino agli zigomi, però lo sguardo diffidente che lei lancia ad Ashton è abbastanza impassibile da raffreddarmi immediatamente.
"Sta zitto" intimo a lui, che invece sembra aver ancora qualcosa da ribattere e poi richiamo all'attenzione anche Michael, che ci segue in ascensore mordendosi l'interno di una guancia come se fosse una chewing gum.
"Ti fai male così" lo ammonisce subito Ashton, che a quanto pare sembra accorgersi solo dei terremoti emotivi di Mike. O forse ignora di proposito quelli di tutti gli altri.
È dopo esserci chiusi nella nostra stanza, sdraiato sul materasso duro del letto a castello, ad un respiro dal parquet lucido, che cerco finalmente di mettere un punto al costante divagare dei miei pensieri.
Ma, al contrario, continuo imperturbabile ad accumulare punti interrogativi per tutta la sera.
A dar man forte c'è Ashton, sul punto di esplodere a causa del silenzio perentorio che aveva dovuto mantenere durante il pasto, e che adesso sembra non riuscire anche lui a smettere di parlare di te e del momento in cui finalmente ti rivedremo.
Lui sembra non prestare attenzione all'atmosfera tesissima che sicuramente ci avvilupperà e nemmeno a tutto il risentimento che potremmo provare nei tuoi confronti.
Invece snocciola una serie di domande retoriche abbastanza ridicole, che a dir il vero suonano più come osservazioni.
Si domanda se sei più alto di noi, se i tuoi capelli sono ancora biondissimi e se hai ancora la smania di lisciarteli con il ferro e fissarli in una cresta con una montagna di gel per capelli.
Vuole sapere se continui a correre maratone in giro per la città, se suoni ancora la chitarra, se hai imparato a cantare come si deve, se scrivi ancora canzoni e se le fai leggere a tutti i tuoi nuovi amici.
"Dormi" gli intimo con voce monotona e bassa, fingendo che io non mi sia mai chiesto sciocchezze del genere.
Micheal è il primo di noi ad addormentarsi, mentre col suo vecchissimo lettore CD ascolta il tuo mixtape. Mi sconvolge constatare che mentre dorme ha un sorrisino perennemente stampato sulle labbra.
Per me e Ashton il sonno non arriva se non verso le tre del mattino, solo dopo esserci scolati due lattine di birra a testa dal mini-frigorifero dell'hotel. Costosissima e decisamente troppo schiumosa per poter essere definita buona.
"Mi ha tenuto la mano in aereo" sospiro una volta tornato sotto le lenzuola di lino fresco.
"Immaginavo fosse successo qualcosa" prende un sorso Ashton, che ancora è steso a stella sul pavimento di legno. Ad ogni assaggio fa seguire una smorfia disgustata, ma continua ad ingollare alcol come se fosse acqua.
"Sei stato più distante del solito tutto il pomeriggio" commenta semplicemente. Non è una critica e anche questa suona solo come un'affermazione.
"Mh" mugugno, allungando una mano per farmi consegnare la lattina mezza vuota. Seguo anche io i suoi gesti, mimando persino l'espressione schifata. Ora è anche tiepida.
"Comunque, direi che è un gran passo avanti. Anzi, gigantesco" aggiunge, dopo aver soppesato le parole per un paio di secondi in più del solito.
Apprezzo silenziosamente il suo tatto, anche se sono ben consapevole che se fosse stato un commento più aguzzo, una frecciatina magari, l'avrebbe detto lo stesso.
Ashton è così da sempre, troppo onesto e diretto per esitare.
"Lo so" mi schiarisco la gola.
"Forse puoi riprovarci" dice lui con un'immediatezza che mi fa arricciare il naso più della birra stomachevole.
È come se come avesse aspettato solo il momento giusto per sottopormi quella proposta.
Io gli rifilo un'occhiataccia gelida.
"Non adesso. Magari nemmeno tra qualche mese, però in futuro. Ecco, finita tutta questa storia di Luke. Tra qualche anno, magari" insiste.
Io pondero sulle sue parole più del dovuto, lasciandomi ingannare dal suono invitante e dall'immagine accogliente che producono le sue parole.
Poi però scuoto la testa risoluto, anche se sento il cuore pesante e che la birra mi scende a fatica lungo l'esofago.
"Forse tra qualche decennio" accenno un sorriso tirato, alleggerendo di molto l'atmosfera. Infatti Ashton scoppia a ridere.
"Giusto, Jodie sarebbe capace di portarsi dietro il rancore per tutta la vita".
E la conversazione finisce così, allungandosi nel silenzio confortevole che segue ogni nostra chiacchierata.
Finita anche la birra calda ci rigiriamo per un po' nei nostri lettini a castello e fingiamo di prepararci finalmente per dormire.
Io lancio uno sguardo premuroso verso Michael, che accucciato nel letto singolo accanto di tanto in tanto scalcia via le coperte.
Poi Ashton sbadiglia rumorosamente e i miei occhi schizzano di riflesso verso l'alto, anche se tutto ciò che riesco a vedere è il fondo del suo materasso.
"Non so cosa accadrà domani con Luke, però una volta tornati a casa promettimi che non scomparirai di nuovo".
Più che le sue parole, questa volta, è il tono sommesso e speranzoso ad annodarmi le corde vocali.
Mi schiarisco la gola in imbarazzo e mi sporgo oltre il materasso.
Ashton si è affacciato anche lui e i ricci gli penzolano attorno al viso come un'aureola crespa e sudaticcia.
Il buio della stanza non mi permette di distinguere i suoi lineamenti, però posso immaginare benissimo il suo sguardo assonnato e allo stesso tempo fiducioso.
Provo a farmi uscire di bocca qualche parola di conforto, ma sentendomi la gola chiusa finisco per annuire solennemente e a rientrare nel mio piccolo bunker.
Il sospiro che mi riempie i polmoni è tutto ansia e trepidazione, un po' per Jodie e un po' tanto per te, però poi affondo la testa nel cuscino e mi addormento immediatamente.
-Sempre tuo, Calum
MY SPACE:
Hello!
Non ve l'aspettavate un aggiornamento così presto, vero? E invece eccolo qui.
Spero che vi piaccia e che insieme a me raggiungiate la fine (prossima) di questa storia! Mancano solo pochissimi capitoli.
Grazie per aver letto!
-Sara
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