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Fourteenth

Per il resto della settimana, Jodie pranza tutti i giorni al Curry Freeze.

È particolarmente strano vederla entrare nella saletta dismessa del locale, ma scelgo di non soffermarmici troppo.

Ordina sempre un tramezzino ai funghi, una bottiglia d'acqua minerale e si siede su uno degli sgabelli che si affacciano alla vetrina tappezzata di vecchi poster pubblicitari.

La prima volta in cui mi passa una manciata di spiccioli oltre il registratore di cassa, sta ben attenta a non guardarmi negli occhi per troppo a lungo e a non sfiorarmi i palmi delle mani con le dita.

Il petto mi si stringe dal dispiacere, però sono velocissimo a riprendermi e finire di battere lo scontrino, che resta abbandonato accanto ad un posacenere di plastica.

È forse preoccupante come negli ultimi mesi mi capiti di sentirmi in empatia più con gli oggetti che con le persone. Sono statico, indolente, immobile.

Però è comunque una tortura fingere di non guardarla. Mentre stacca pezzi di pane con aria pensierosa e gioca col tappo di plastica della bottiglia.

Mentre è a pochissimi metri di distanza da me. Soprattutto mentre mi da le spalle e si sventola pigramente la nuca umida di sudore con un tovagliolo di carta.

È come se volesse ferirmi utilizzando l'orizzonte affilato delle sue scapole e la curva dolce del collo.

Sono stato stupido a pensare che il suo ricordo potesse semplicemente scivolare via dalla mia mente, come acqua dagli scogli.

Avrei dovuto sapere che lei è la salsedine che ti si appiccica alla pelle dopo una giornata di mare e i granelli di sabbia che ritrovi nelle scarpe da tennis anche durante l'inverno.

Forse è per questo che ad un certo punto inizia a far male fisicamente dovermi confinare dietro il bancone, invece di potermi slacciare il grembiule bianco e scivolare nello sgabello accanto al suo.

Però lo faccio lo stesso, perché so bene che Jodie si volterebbe a guardarmi infastidita e mi ordinerebbe solo di lasciarla in pace.

Non ho proprio intenzione di sentirmi dire certe parole, non da lei. Quindi evito di starle attorno se non per raccogliere le cartacce.

Ci sono giorni in cui starle lontano è più difficile di altri, in cui sembro dimenticare tutto quello che ci è successo. In quei giorni chiamo Ashton e gli chiedo di passare in negozio durante la sua pausa pranzo.

A volte lo raggiunge anche Michael, quando ha voglia di uscire di casa, che ultimamente è quasi sempre.

Non lo ricordavo così tranquillo da anni. E nonostante mi stia lentamente riabituando ad averli tutti e tre intorno, è comunque difficile.

Da quando abbiamo scoperto dove sei, mi sento quasi trasportato indietro nel tempo. A quando eri appena andato via e ogni cosa ancora mi portava alla mente il tuo nome.

Anche adesso è così, più o meno, e guardando di sfuggita Jodie posso dire sia lo stesso anche per lei.

Fa tutto soprappensiero, come se fosse troppo impegnata a districarsi i pensieri per riflettere su ciò che fa.

Non se ne rende conto, ma Jodie ha bisogno che qualcuno le faccia notare i lacci sciolti delle scarpe, la spallina della canottiera blu mirtillo abbandonata lungo un braccio o la silenziosissima presenza di Michael che l'ha salutata con un "Hey" sommesso da almeno cinque minuti.

Caccio un sospiro e mi dirigo verso Ashton, che accaldato e sudaticcio come al solito mi chiede "Uno di quei The che sanno di acqua sporca ma sono gratis".

Io ne afferro uno anche per me e una soda all'arancia per Michael, che smanetta al telefono da quando è arrivato.

Di solito l'umore generale non è mai così basso, ma l'ingresso di un Chris ciondolante peggiora ancora di più la situazione.

Jodie fa scattare il capo verso la porta, seguita a ruota da Ashton che con la testa buttata all'indietro sta ancora ingollando la sua bevanda.

Io devo sopprimere un sospiro sconsolato e borbotto un "Buongiorno" che sembra perlomeno cordiale.

Non penso che l'ex proprietario dell'Ink Bar lo trovi troppo convincente, però non me ne importa.

L'intera sala è immersa in un silenzio ronzante di tensione mentre ordina.

Quando si avvicina alla cassa per pagare il suo panino alla caprese e una tazza di caffè americano, lancio un'occhiata in direzione degli sgabelli occupati.

Michael ha spento il telefono e adesso bisbiglia qualcosa nell'orecchio ad una Jodie particolarmente nervosa.

Lei ha le mani strette in due pugni e il viso solo parzialmente rivolto verso di me. Sbircia oltre la spalla nuda con sguardo ostile.

Non appena incrocio i suoi occhi, lei corruccia sopracciglia e labbra in una smorfia e si gira di colpo verso la vetrina.

Segue passo dopo passo la figura ciondolante di Chris che finalmente esce dal locale, solo per poi sedersi all'unico tavolino accanto la porta d'ingresso.

Ashton butta fuori un respiro pesantissimo e si alza per gettare via la sua bottiglia di plastica già vuota.

"È mai venuto prima d'ora?".

"No" gli rispondo secco, afferrando una pezza umida per pulire l'espositore dei tramezzini.

Adesso anche Michael si è voltato a guardarmi e quasi mi tremano le mani dal nervosismo, quindi apro la vetrina e mi ci tuffo dentro con tutto il busto.

I panini non hanno alcun bisogno di essere risistemati, ma io ho disperatamente bisogno di una distrazione.

"E allora che significa? Neanche ci saluta più e adesso, di punto in bianco, si siede qui fuori a mangiare" insiste Ashton, indicando con un pollice la chioma bionda di Chris, che a tratti sparisce dietro un'enorme poster che sponsorizza The verde.

"Forse si è stufato della vista dal suo lato del marciapiede" borbotto, facendogli capire che non ho intenzione di voler continuare la conversazione.

Passata l'ora di punta Ashton ci trascina tutti in strada e ci fermiamo sul ciglio del marciapiede a parlare.

Il tuo nome gli scivola giù dalle labbra con una facilità che fa rabbrividire tutti noi.

Michael sembra costantemente sul punto di volergli chiedere di smetterla, però non lo fa mai.

"Vai al punto" lo sprona allora Jodie, alzando il viso verso il cielo e chiudendo gli occhi.

La luce del sole le colora la curva delle spalle di un arancione caldo e cremoso, riscaldandole gli zigomi nel giro di pochi secondi. Adesso le sue labbra e le sue gote sono dello stesso rosso ciliegia.

Tenere gli occhi fissi sul grigio dell'asfalto è l'unico modo per tenermi in riga.

È chiaro che il mio corpo ancora non abbia capito che il suo non gli appartiene più, quindi devo prestare moltissima attenzione a non gravitargli attorno più del necessario.

Mi ero convinto che andando via avrei migliorato la situazione per entrambi, ma solo dopo averla rivista ho capito quanto stupido sia stato anche solo pensarlo.

Ashton passa una manciata di minuti a mostrarci i voli low cost per Las Vegas che è riuscito a trovare ieri sera.

Michael non dice nulla per tutto il tempo, ma i suoi occhi verdi non riescono a nascondere la contentezza che prova. Non è molta, ma c'è.

Al contrario, Jodie sembra sempre più frustrata. E la sua frustrazione mi rende ancora più ansioso, quindi tiro fuori il pacchetto di sigarette e me ne infilo una già mordicchiata tra le labbra.

"Las Vegas non è un parco giochi" la voce di Chris, roca e poco più alta che un sospiro, arriva insieme ad una folata di vento bollente.

"Abbiamo tutti compiuto i ventuno anni e poi non vedo come possa interessarti" rispondo, guadagnandomi un'occhiata di rimprovero da parte di Ashton. Ignorarlo è incredibilmente semplice.

"E perché mai dovreste andarci, comunque?" continua l'uomo, imperterrito.

"Come se non lo avessi già origliato" Jodie sbuffa sarcastica, incrociando le braccia al petto.

La scollatura abbondante della sua canotta cattura la mia attenzione per un mezzo istante, però sono veloce a farle scivolare gli occhi addosso senza indugiare troppo sulla sua pelle lucida.

"Chiedo proprio perché vi ho sentiti parlare di Luke Hemmings. È lui vero? Il figlio di Elizabeth.".

Ashton è l'unico ad annuire freneticamente, con un mezzo sorriso agli angoli delle labbra sottili.

Io rifilo uno sguardo a Jodie con la coda dell'occhio e mi mordo l'interno di una guancia quando noto i suoi avambracci impallidire a causa della ferrea stretta.

Le sue unghie, dipinte di un blu notte un po' scrostato, mordono la sua pelle abbastanza da lasciare lunette rosse ben visibili.

"E a te che t'importa?" Abbaia lei, abbozzando un passo verso Chris. Quello sospira, alza gli occhi al cielo azzurro sbiadito sopra le nostre teste e stacca un morso alla metà di panino che aveva abbandonato sul tavolino.

"Nulla" deglutisce, accompagnando la sua affermazione con un'alzata di spalle e un'altra occhiata alla porta blindata del suo locale.

"Però è inutile che voi andiate a Las Vegas" quando si volta a guardarci, per la prima volta da quando è iniziata quella breve quanto spiacevole conversazione, le sue sopracciglia sono rilassate sulla fronte ampia e la sua espressione è completamente piatta.

Non so perché, ma devo prendere un respiro profondissimo per evitare di chiudere le dita in un pugno e percuotergli la faccia.

E anche quando ho i polmoni pieni, le spalle tese e gli occhi semi-chiusi, l'unica cosa che riesco a percepire sono le punte delle mie dita formicolare all'impazzata.

"E perché?" Sputo tra i denti, sollevando lentamente gli occhi da terra.

Il sole mi costringe ad abbassare di nuovo le palpebre, ma vedo comunque un angolo delle sue labbra screpolate schizzare verso il basso in una smorfia.

"Perché Luke Hemmings vive a Melbourne, non negli Stati Uniti d'America. Di sicuro non a Las Vegas".

-Sempre tuo, Calum


MY SPACE:

Hello!

Questo capitolo non l'ho scritto, l'ho partorito!

Sono stati cinque giorni di puro dolore, giuro. Non so perché ma ci ho messo tantissimo per arrivare ad un risultato che mi piacesse, quindi spero che anche voi lo troviate piacevole da leggere.

Adesso però sapete anche voi dove si trova Luke! Come vi sentite? Ahahah

-Sara

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