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Roswell, luglio '47

...quarantotto, quarantanove, cinquanta.

Appena finita la serie di flessioni mi girai sulla schiena per iniziare con gli addominali, ma venni interrotto da Michael di ritorno dalla sua corsa giornaliera. Era grondante di sudore, come sempre, e i denti bianchi mostrati dal largo sorriso erano in netto contrasto con la pelle scura.

"Ti vedo di buon umore" lo salutai velocemente iniziando gli addominali.

Lui si posizionò davanti ai pesi; iniziò a sollevare qualche chilo per riscaldare le braccia.

"Sono eccitato."

"Una donna?" chiesi curioso.

"Oh no, molto meglio. C'è un via vai di gente da qualche tempo, hai notato? Penso stia succedendo qualcosa. E indovina un po?"

"Tu hai intenzione di scoprire cosa..." sospirai alzando gli occhi al cielo. Era fatto così, ormai lo conoscevo. Eravamo compagni d'arme, avevamo combattuto insieme durante la seconda guerra mondiale: eravamo tra i soldati sbarcati in Normandia. A fine conflitto, non avevamo abbandonato la carriera militare ed eravamo stati trasferiti a Roswell, New Mexico.

"Tu cosa pensi sia?"

"Niente, Michael. Solo gente di passaggio. Siamo così pochi qui che poche persone si notano subito", provai a non dargli corda.

"Vedrai, vedrai anche tu e mi darai ragione." terminò.

Mi alzai per andarmene; avevo perso da un po' il conto degli addominali e non avevo intenzione di essere trascinato ancora una volta in una delle sue avventure. Quella fu l'ultima volta che vidi il mio migliore amico, vivo.


Il funerale si tenne due settimane dopo, a metà giugno,quando da scomparso Michael divenne ufficialmente morto. Fu una cerimonia sobria, secondo la tradizione. Fui io a consegnare la bandiera americana ben piegata alla madre, che ricambiò il mio sguardo con dolore e dignità.

Non pensai subito che qualcuno lo avesse voluto morto. Non aveva mai fatto male a nessuno, non aveva nemmeno mai saltato la fila in mensa o il turno delle pulizie. Era cordiale con tutti; l'unico suo vizio era quello di non sapersi fare gli affari suoi. Cosa poteva aver scoperto di così scandaloso? Non feci domande, non indagai. Ma qualcuno capì i miei sospetti.

Lo scoprii quando scambiai la mia bottiglia di acqua naturale con quella gassata di Martin: lui non beveva mai acqua frizzante. Dopo qualche sorso dalla mia bottiglia, collassò sul tavolo davanti a me.

Non fu l'ultimo incidente, ma dopo quella volta non smisi di fare attenzione. Mangiavo solo quello che ero sicuro non potesse essere avvelenato, non bevevo acqua da una bottiglia che avevo perso di vista anche solo pochi secondi. Non entravo per primo in nessuna stanza, non uscivo da solo la sera.

Continuai così, a testa bassa, per qualche settimana. La goccia che fece traboccare il vaso fu la morte di un altro mio compagno. Forse era stato un incidente, forse un caso. Forse non era nemmeno colpa dell'assassino di Martin. In ogni caso, decisi che non avrei piegato la testa un'altra volta. Non avrei più consegnato bandiere accuratamente ripiegate a madri in lacrime.

Cominciai a guardarmi intorno, a notare cose... Cominciai a tastare il terreno con i miei compagni, cominciando con quelli dalla parlantina facile. La palestra era il momento ideale.

"Ehi Jim, come va?"

"Robert, come mai a quest'ora? Di solito ti alleni la mattina."

"Beh, oggi non ho avuto molto tempo. Hai visto anche tu il via vai di questi giorni, vero?"

"Pensavo ti fossi abituato, sono settimane che i dottori sono qui."

"Dottori?"

"Sì, sono scienziati o qualcosa del genere. Hanno finito da poco di allestire un laboratorio nel piano di sotto."

"A che cosa serve?"

"Non lo so, segreto di stato." alzò le spalle e mi ignorò per il resto del tempo. Frustrato per aver ottenuto più nuovi interrogativi che risposte, uscii per correre. Feci la strada che era solito percorrere Michael.

Corsi a perdifiato, più per sfogare la frustrazione che per mantenermi in forma. Corsi, con i polmoni che urlavano dal dolore e i muscoli, tra gli arbusti secchi del deserto e le rocce, fino a che un proiettile non sfiorò il mio orecchio. Un filo di sangue scivolò sulla spalla, macchiando il bianco della maglietta. Mi gettai d'istinto dietro al masso che stavo evitando. Udii soltanto un altro sparo, poi nulla. Il mio assalitore doveva essersene andato.

Cominciai a non lasciare mai la mia pistola. Era sempre carica, nella fondina ascellare e coperta dalla larga giacca militare che indossavo nonostante le temperature continuassero a crescere. Quello che era appena iniziato, si prospettava un luglio di fuoco.

Il viavai in caserma aumentò esponenzialmente, in quei giorni. I dottori non cercavano nemmeno più di non dare nell'occhio, ma già dal quinto del mese, tutto d'un tratto, il loro brusio si acquietò. Sparirono nel nulla e nessuno ebbe mai più notizie su di loro.

Il sette di luglio avevano tutti dimenticato le stranezze degli ultimi mesi, distratti da nuovi inquietanti eventi. La stampa locale aveva pubblicato un articolo in cui descriveva la caduta, lo schianto e poi il recupero di materiale di origine aliena. Ero in mensa, quella sera, da solo. Ero concentrato sul giornale cercando di interpretare quelle parole così confuse. Avevo sempre avuto l'abitudine di sfogliare i quotidiani a tiratura nazionale ogni giorno, ma il titolo stampato sulla prima pagina di quella edizione a me fino ad allora sconosciuta mi aveva attirato a sé.

Con la testa bassa e un sigaro acceso nel posacenere, sentii un leggero rumore di passi: lento, ritmico e leggermente frusciante, come di qualcuno solito trascinare i piedi. Poteva essere chiunque, dall'inserviente della mensa a qualche mio compagno in ritardo per la cena; poteva persino essere l'ultimo degli scienziati che finiva di raccogliere le sue cose, ma ovviamente si realizza sempre lo scenario peggiore.

Era un uomo alto, possente e dalle spalle quadrate, grosso come un armadio e con una maschera a coprirgli il volto, precauzione inutile perché se fosse stato tra le mie conoscenze sarebbe stata la sua stazza, e non la faccia, a tradirlo. Ci trovammo uno di fronte all'altro, io impreparato e troppo rilassato, lui già pronto a uccidermi. Non aveva armi da fuoco, solo una lunga lama che scintillava maliziosa nella penombra.

Scattai verso il fondo del locale, dove una porta di servizio che mi sembrava l'unica via di salvezza si rivelò chiusa. Provai a scardinarla, ma il tempo era a mio svantaggio e l'energumeno sempre più vicino. Cominciai ad ansimare colto dal panico; cosa potevo fare contro quello che avrei giurato fosse un assassino professionista? Sarei morto lì, in quella sala buia e in silenzio senza che nessuno si fosse accorto di niente. Avrebbero trovato il mio corpo il giorno seguente, o forse mai se avesse avuto l'intenzione di portarmi via. Ecco perché non aveva pistole, pensai.

Si muoveva senza fretta, gustandosi la paura della sua preda ormai in trappola.

"Sei tu che hai ucciso Martin?" chiesi, trovando chissà dove il fiato. Lui si fermò un attimo, giurerei interdetto, ma riprese subito la sua avanzata. Farlo parlare era impossibile, rallentarlo con le chiacchiere, a quanto pareva, assolutamente inefficace.

Non avevo altra scelta che contrattaccare. Mi lanciai sul mio assalitore a testa bassa e mollai un gancio allo stomaco. Lui contrasse i muscoli e resistette portando il coltello pericolosamente vicino alla mia gola. Alzai una mano per proteggermi e gli passai a fianco sgusciando via come un'anguilla. Prima di scappare dalla mensa mi girai e lo fissai dritto negli occhi e vi trovai soltanto indifferenza. Non era da lui che avrei ricevuto risposte.


Non appena mi chiusi la porta della camera in cui alloggiavo alle spalle, capii di aver fatto un grave errore: sarebbe stato quello il primo posto in cui sarebbero venuti a cercarmi. Strappai uno dei lenzuoli per fasciarmi la mano ferita, dopo aver ispezionato brevemente il taglio. La lunga fila di letti ben fatti non mi era mai sembrata così sinistra. Mi avvicinai alla mia branda e raccolsi le poche cose che tenevo con me, gettai tutto in uno zaino e uscii di nuovo, diretto verso il nulla.

Presi una delle biciclette nel capannone dei veicoli, sperando che nessuno se ne accorgesse e infilai la via verso la città. Sfilai dalla tasca un foglio di carta accartocciato e lo spiegai con cura. In un angolo, in corsivo, un nome: C. Kerley.


La sede del Corriere di Roswell era piena di vita, di movimento: una massa di persone che si muoveva e interagiva rapidamente, che batteva velocemente sulle macchine da scrivere sparse ovunque. Chiesi a quella che mi sembrava una segretaria del signor Kerley e lei mi indicò sbrigativa una porta. Bussai e aspettai il permesso di entrare. Mi accolse una donna di bell'aspetto, con un vestito ben stirato e i capelli raccolti in modo elegante sulla cima della testa. Mi sorrise cortesemente e mi chiese cosa volessi.

"Vorrei parlare con il signor Kerley, è urgente."

Lei alzò un sopracciglio con un espressione stranamente sorpresa, prima di rispondermi: "A quale proposito?"

"È una cosa strettamente confidenziale e non posso rivelarglielo, mi spiace."

"Allora penso proprio che dovrete fare a meno del mio aiuto." finì prima di tornare a dedicarsi a quello che stava facendo. Io rimasi imbambolato, con la bocca aperta e il mento quasi sul pavimento, per qualche secondo.

"Lei, lei è..."

"Sì, sono Cora Kerley." finì al mio posto. Mi sorrise candidamente prima di aggiungere: "Quando si sarà deciso potrà parlarmi, ma ora non ho tempo per la sua titubanza. Può sedersi e raccontarmi cosa la tormenta o può andarsene, rimanere lì impalato non è un'opzione."

Mi sedetti senza perdere tempo e tirai fuori il suo articolo. Lo posai sulla scrivania e lei non batté ciglio, ancora concentrata a scribacchiare qualcosa.

"Vedo che ha letto il mio articolo. Cosa ne pensa?"

"Scritto divinamente, quasi con cognizione di causa."

"Quasi?"

"Come le è venuta in mente una storia del genere?" chiesi appoggiando la schiena allo schienale della poltroncina e rilassandomi un poco.

"Non mi è venuta in mente, infatti. Ho collegato un paio di indizi che mi hanno portata nel posto giusto al momento giusto. Poi, è stata la storia a trovare me." spiegò pacata. Aveva un'aura di calma intorno che mi fece dubitare di essere davvero davanti alla persona giusta.

"Io penso che fosse tutto stato pensato in anticipo." sparai. Lei mi osservò per qualche istante persa nel vuoto, poi recuperò un paio di occhiali dalla montatura blu, in tinta con il vestito, e sottile e li posò sul naso. Mi osservò a lungo in silenzio, indecisa se darmi credito o meno.

"Se anche quello che dice fosse vero, non potrei farci un articolo, quindi non mi interessa."

"Interessa a me, però. Vorrei soltanto sapere come mai ha scritto quello che ha scritto."

"Ho una fonte interna al governo che mi ha raccontato questa assurda storia che, purtroppo per lei, coincide con molti indizi che ho trovato."

"Molti, non tutti?"

"La vita, sfortunatamente, non è perfetta come nei libri."

"Vorrei soltanto un nome!"

"Non posso tradire il mio collaboratore, mi spiace: etica del mestiere."

"Raccontare bufale, invece, non è vietati dalla sua etica?"

"Mi spiace, signor... signore. Le ho già detto tutto."

Ero già alla porta, adirato per non aver avuto risposte quando mi richiamò. Mi voltai aspettando un chiarimento, mentre il dubbio attraversava il suo viso.

"Gli alieni usano il nostro acciaio."

Annuii, esterrefatto e confuso, e abbandonai quell'edificio senza guardarmi indietro.

Raggiunsi il luogo dell'incidente e mi sedetti su un masso cercando qualche indizio, ma nulla. Tutta la zona era stata ripulita, soltanto la fuliggine svelava il punto dell'impatto.

"Alla fine ci sei arrivato." commentò una voce  mentre un uomo sulla cinquantina, con i capelli perfettamente bianchi e la barba ben tenuta, si sedeva accanto a me.

"Non è stato difficile, avete lasciato indizi dappertutto."

"Indizi di che tipo?" chiese sorpreso.

"Cadaveri." lo gelai, "O la loro assenza."

"Intendi Michael?"

"Non solo lui. Se non aveste tentato di uccidermi, non mi sarei posto nessun dubbio, non sarei mai giunto fino a qui. So che è una cosa che preparate da almeno un mese, da quando i dottori sono giunti alla caserma."

"In realtà da molto prima. La guerra è finita da poco, ma i sovietici hanno già avviato un programma per i lanci spaziali. Sì, hai capito bene, spaziali. Vogliono poter posizionare satelliti lassù, lanciare missili ad alta precisione, chissà, forse un giorno potrebbero persino arrivare alla luna. Tocca a noi fermarli, proteggerci."

"Era un missile russo?"

"No, era nostro. Ora come ora non saremmo in grado di difenderci, quindi abbiamo avviato un programma di ricerca a dir poco innovativo."

"Ed era così necessario uccidere per tenerlo segreto?"

"Essenziale. Non si tratta solo del missile in sé, ma di quello che conteneva."

"La storia degli alieni? Deve esserci un motivo se avete inscenato tutto questo..."

"Pensaci, puoi arrivarci da solo. Immagina la reazione dei giornalisti. Si sarebbero buttati qui e avrebbero ficcato il naso dappertutto, rischiando di mandare all'aria anni di lavoro. Tra pochissimo smentiremo tutto e racconteremo di una sonda."

"E chiunque scoprisse qualcosa, chiunque avesse una teoria diversa non verrebbe preso sul serio perché, dopo che la più assurda delle ipotesi sarà stata confutata, ogni altra soluzione sarà del semplice complottismo." finii.

"Esatto. La signorina Kerley era molto titubante a pubblicare quell'articolo, ma le prove che le ho fornito sono riuscite a convincerla. Se qualcuno dovesse sospettare che ci sia qualcosa sotto all'incidente, seguirebbe la pista degli alieni."

Scoppiò a ridere, incurante degli interrogativi che erano rimasti aperti.

"Perché avete tentato di uccidermi? Martin è morto per questo."

"Cosa ti dice che sia una vittima innocente?"

"Perché io? Cosa sospettavate?"

"Ho letto la tua scheda, sergente. Intelligente, ma riservato. Una promessa come investigatore, se non fosse stato per la reticenza a essere coinvolto. Sapevamo che, probabilmente, avevi ricevuto qualche soffiata."

Gli ingranaggi nel mio cervello cominciarono a muoversi, mettendo ogni indizio al suo posto.

"Michael." esclamai. "Infine aveva scoperto davvero qualcosa. Beh, mi spiace deludervi, ma non mi ha detto niente."

"Peccato, anche se sospetto che avresti scoperto tutto molto prima se lo avesse fatto. Avevamo bisogno di qualche volontario per il nostro esperimento innovativo, li avevamo pronti."

"Nessuno si era accorto della sparizione di quelle persone?"

"Anche se fosse, nessuno si sarebbe arrischiato a denunciarlo: erano illegalmente negli Stati Uniti."

"E Michael cosa c'entra in tutto questo?"

"È riuscito a farli scappare, davvero ammirevole! Abbiamo dovuto trovare una soluzione innovativa..."

"E così avete usato il mio migliore amico per i vostri esperimenti."

"Esatto, il lancio non poteva essere ritardato e lui era l'unica possibilità."

"Cosa è successo?"

"Volevamo scoprire che effetto facesse l'alta atmosfera sul corpo umano, anche se in un ambiente sigillato. Purtroppo è stato ucciso dal calore. Abbiamo scoperto che il sistema di isolamento che usiamo attualmente è inefficace. Ci vorranno anni per trovarne uno migliore..."

"Lo avete bruciato come un animale!"

"Il suo amico sarà dimenticato, è inevitabile, ma le assicuro che il suo aiuto per il progresso è stato incommensurabile. Abbiamo liquidato un assegno alla famiglia a titolo di risarcimento, facendolo passare per liquidazione per aver partecipato alla guerra. Abbiamo fatto il minimo danno possibile."

"E io che fine farò? Userete anche me per i vostri esperimenti?"

"Non abbiamo esperimenti attivi per il momento, non finché non saranno pronti i risultati di quello appena fallito. Dovrò ucciderla, semplicemente."

"Pensa che sia arrivato qui impreparato?" ringhiai puntandogli in faccia la pistola dalla sicura disinserita almeno una settimana prima. Cominciai a indietreggiare lentamente, senza abbassare la guardia.

"Pensi di poter fuggire a lungo, sergente?" sibilò.

"Abbastanza." risposi prima di andarmene senza più voltarmi indietro.

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