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Libertà


Libera.

Questa è la prima parola che attraversa la mia mente una volta che il cancello della prigione è finalmente chiuso dietro le mie spalle.

Sono sola sul marciapiede, con un borsone leggero accanto ai piedi e il mio amato cappellino da baseball in testa. Il sole è alto nel cielo, splende con la solita prepotenza del mezzogiorno riscaldando l'asfalto rovinato che porta alla città.

Nessuna macchina all'orizzonte, tanto meno qualcuno ad attendermi. Sono passati cinque anni, ma mai ho avuto paura del futuro come adesso: nemmeno quando lui è sparito nel nulla; nemmeno nel momento in cui mi hanno comunicato la sentenza; nemmeno mentre sentivo il mio avvocato pronunciare le prime parole di resa.

Lentamente, mi incammino verso gli alti edifici che spezzano la linea piana dell'orizzonte. Dovrei metterci poco più di un'ora, penso muovendo il primo passo.

La strada è deserta e il silenzio della campagna mi permette di ripensare a tutto quello che è successo...

È iniziato tutto con un debito, quando ancora avevo una famiglia. Christian aveva dodici anni all'epoca, era la mia gioia e la mia speranza.

Eravamo felici, sia io che mio marito avevamo un lavoro e nostro figlio frequentava una delle scuole private più prestigiose della città. Non eravamo ricchissimi, ma con due stipendi riuscivamo a permetterci tutto ciò che serviva.

Inaspettatamente, non fui io a rovinare tutto.

Era una tranquilla giornata primaverile, come tante. Quando Nathan entrò in casa, con un'espressione indecifrabile in viso, una strana sensazione si risvegliò in me. Quando gli chiesi che cosa non andasse, non mi rispose. Mi ignorò e si rinchiuse nella piccola biblioteca del nostro appartamento.

Quando uscì, era ormai tarda sera e Christian già dormiva. Si sedette al tavolo nella sala e mi chiese di parlare. Lo imitai, stringendo brevemente la sua mano poggiata sul bracciolo della sedia.

"Ho perso il lavoro." sputò tutto d'un fiato. Niente discorsi per prepararmi alla notizia, niente incoraggiamenti. Soltanto quattro parole di fila, senza pause, senza paura. Sapeva che non lo avrei giudicato, che sarei rimasta sempre al suo fianco.

"Ho capito." gli risposi semplicemente. "Ci toccherà ritirare Christian dalla scuola, alla fine di quest'anno."

"Sarebbe un peccato: ormai si è fatto degli amici lì dentro, e sai quanto delle buone amicizie siano fondamentali per una carriera promettente." mi contraddisse.

Sul momento rimasi basita, ma decisi comunque di tacere.

"Ci toccherà fare dei sacrifici, ma l'istruzione di nostro figlio è la nostra priorità, vero?"

"Ci sono scuole pubbliche valide, ma se pensi sia una priorità allora non lo ritireremo fino alla fine delle medie. Potremmo dover vendere questo appartamento."
"Vedrai che non servirà." mi sorrise. "Conto di trovare un lavoro in fretta, anche se non sarà ben retribuito come questo che ho lasciato."

"Perché ti hanno licenziato?" gli chiesi senza mezzi termini.

"Ho fatto un errore."

"Che tipo di errore?", se pensava che non avrebbe più trovato un buon lavoro, qualcosa deve essere successo.

"Un errore in un progetto. Nessuno si fiderà più di me per un po'." concluse alzandosi, facendomi intendere di non volerne parlare oltre. "Non devi preoccuparti, troverò una soluzione. Come sempre."

Se in quel momento lo avessi fermato, se lo avessi convinto a non strafare, forse in questo momento non starei qui sotto al sole, con un borsone in spalla e uno dei nostri vecchi ricordi in testa.

Quel cappellino me lo aveva regalato lui, il giorno del nostro primo anniversario. Eravamo giovani e la mia passione per il baseball era nata da poco. Lui voleva portarmi a cena fuori, ma io insistetti per andare a vedere la squadra della nostra città sfidare quelli che sarebbero diventati i vincitori del torneo nazionale.

Pochi mesi dopo nacque Christian e io smisi di andare alle partite, ma l'amore per quello sport non mi ha mai abbandonata. Ho sempre seguito i principali tornei, anche mentre ero in prigione. La mia squadra non è mai passata oltre il secondo turno, ma non ho mai pensato di tifare per nessun altro.

La prigione, d'altro canto, non offre molte possibilità per distrarsi. Guardavo le partite oppure pensavo. Sono invecchiata decenni, in questi anni. Ora mio figlio ne ha diciassette e vive con i miei genitori, probabilmente non mi vorrà vedere per niente al mondo.

Non so nemmeno dove sia mio marito, ma trovarlo non è esattamente la mia priorità.

Ho meditato molto, cercando di distinguere ciò per cui vale la pena lottare dalle perdite di tempo.

Non riavrò indietro il mio lavoro, forse non ne troverò nemmeno uno. Non sono come Nathan, io. So distinguere i sogni dalla realtà.

Erano passati mesi dal giorno in cui era stato licenziato. Quando rincasai dopo una dura giornata di lavoro, lo trovai spaparanzato sul divano che leggeva un quotidiano col sorriso sulle labbra.

"Ho un piano!" si illuminò.

"Di cosa si tratta?"

"Non te lo dirò, per scaramanzia, ma se funziona torneremo a vivere come prima. Anzi, meglio di prima!"

"Spero che funzioni." gli risposi prima di dirigermi in bagno sconsolata. La notizia del suo licenziamento era circolata in fretta e la mia posizione si era fatta critica. Mi era stato sottilmente rivelato che il mio lavoro fosse in bilico, e che non mi convenisse rifiutare di lavorare qualche ora in più "ogni tanto".

Non vedevo quasi più Christian, né mio marito. Ero dimagrita, perennemente stanca e con la salute sempre più cagionevole. Finché un giorno tutto non cambiò.

Nathan non tornò a casa a dormire quella notte, né quella successiva.

Il terzo giorno qualcuno suonò il campanello all'alba. Mi accinsi ad aprire e lo trovai con addosso gli stessi vestiti con cui se ne era andato e la barba incolta. Entrò velocemente e mi abbracciò con foga.

"Marianne, è successo un casino. Non so più che fare..." singhiozzò. Ricambiai l'abbraccio cercando di confortarlo. "Pensavo che avessi qualche speranza, credevo di riuscirci, ma ho fallito miseramente, di nuovo."

"Cosa è successo?"

"Io pensavo di riuscire a vincere almeno una puntata, pensavo che provando e riprovando lo avrei fatto. Mi serviva solo più pazienza e più soldi."

"A chi li hai chiesti?" domandai con la paura nelle vene.

"Al proprietario del casinò."

"A quanto ammonta il debito?"

"Trentamila."

"Senza interessi, immagino."

"Io non ho tutti quei soldi, li abbiamo spesi per la scuola di Christian... Ora li rivuole indietro o ha minacciato di farmi del male. Io non so che cosa intendesse esattamente, ma potrebbe persino uccidermi!"

"Potevi pensarci prima di indebitarti tanto." lo gelai. Rimase fermo, immobile, a guardarmi con quel suo sguardo da bambino disperato, chiedendomi con i suoi enormi occhi come potessi trattarlo così. "Non hai messo in pericolo solo te stesso, ma anche me e tuo figlio. Non so come potrei aiutarti, adesso."

"Potresti chiedere al tuo capo un aumento..."

"È già tanto che abbia ancora il mio lavoro. Non posso fare nulla, mi dispiace."

"Potresti parlare allo strozzino e convincerlo in qualche modo..."

"Ed esporre mio figlio a un tale pericolo? Mai. C'è una sola soluzione: te ne devi andare. Devi partire e far perdere le tue tracce. Adesso, prima che qualcuno ti veda."

E fu così che lo salutai, sbattendolo fuori di casa senza alcuna pietà. Ero disperata e dovevo pensare a mio figlio.

Il giorno dopo denunciai la sua scomparsa, ma per qualche motivo la polizia non reagì come avevo sperato. Invece di lasciar perdere la sua ricerca, come spesso accade, un commissario troppo zelante decise di indagare sul suo conto. Mi interrogò per ore, cercando di farmi confessare non capivo bene cosa.

"Perché ha aspettato quattro giorni prima di denunciare la scomparsa di suo marito?"

"Pensavo sarebbe tornato."

"Quindi non era la prima volta che non si faceva vivo per più giorni?"

"Era la prima volta, invece."

"E come mai ha atteso?"

"Ho già risposto a questa domanda."

"Sa cosa penso io?"

"Non lo so, né mi interessa."

"Penso che lei lo abbia ucciso e poi, nei seguenti giorni abbia nascosto ogni traccia prima di rivolgersi alla polizia."

"Non ho mai ucciso nessuno."

"L'ha provocata, vero? La picchiava forse? Ha perso il lavoro mesi fa, era lei a sostenere la famiglia e un uomo non accetta di farsi mantenere da una donna..."

"Non è così."

"Suo figlio è iscritto in una scuola privata, una bella spesa."

"Cosa vuole adesso da mio figlio?"

"I suoi vestiti sono di taglio costoso. Non deve essere facile cambiare stile di vita tutto d'un tratto. Ne sarà stata devastata, vero? Non potersi permettere più di andare dal miglior parrucchiere della zona, né cenette nei ristoranti in centro..."

"Sta insinuando che lo abbia ucciso per dei vestiti?"

"Per che cosa lo ha ucciso, allora? Aveva forse un amante?"

"Io non ho ucciso mio marito!" gridai. Dopo quelle parole rimasi in silenzio e ignorai le sue accuse. Poco dopo fu aperto il processo, mi fu assegnato d'ufficio un avvocato senza carattere e mio figlio fu costretto ad andare a vivere con i nonni.

La cosa più difficile da sopportare furono le sue visite che si diradavano nel tempo, fino al giorno della sentenza in cui fui proclamata colpevole di omicidio, inquinamento delle prove e una serie di altri reati meno gravi. Mi fu dato l'ergastolo e da quel giorno non vidi più nessuno della mia famiglia.

Una goccia di sudore mi scivola in un occhio costringendomi a fermarmi e destandomi dai miei pensieri. Manca ancora poco, deduco dal cartello bianco con il nome della città scritto in caratteri cubitali.Prendo un bel respiro prima di continuare la mia marcia.

Non so ancora cosa farò una volta arrivata. In realtà non so nemmeno dove sono diretta.

Mi piacerebbe rivedere mio figlio, ma è una cosa che va fatta a sangue e mente freddi. Devo trovare un posto in cui passare la notte. Ho dei risparmi, da parte, ma non dureranno a lungo. Per oggi può andare bene anche un ostello, ma devo sbrigarmi a trovare una stanza con un affitto basso.

Entro nel primo motel che trovo sulla strada. Già dall'ingresso si capisce di che tipo di albergo si tratta. Gli angoli sono sporchi e mal illuminati; alla reception un vecchio sorride sdentato e mi porge una chiave appiccicosa. Devo pagare in anticipo, mi dice. La mia prima impressione si rivela giusta: per fortuna, costa poco.

Salgo le scale ed entro nella mia camera. Almeno qui sembra un poco più pulito. Decido di farmi una doccia prima di dormire, ma l'acqua calda non basta a rilassare a sufficienza i miei muscoli, così rimango sveglia a pensare.

La vita in prigione non era tutto sommato male. Il cibo era passabile, la compagnia non mancava e, anche se si trattava di criminali, finivo spesso per ridere insieme alle mie compagne di cella.

Quando le ho conosciute avevo paura di loro, di quello che potevano farmi mentre dormivo o quando mi distraevo un attimo. Loro, però, mi hanno accettato subito. Nelle prigioni femminili, a quanto pare, c'è un certo rispetto a chi si ribella al marito. Per loro ero un eroe, continuavano a ripetermi quanto fossi stata coraggiosa, tanto che a un certo punto smisi di negarlo e cominciai a ripeterlo anche io. Quando una nuova ragazza si presentava e mi chiedeva cosa ci facessi lì, rispondevo: "Ho ucciso mio marito."

Lo ripetetti così tante volte che iniziai a crederci davvero. Mio marito era morto, lo avevo ucciso io. La pesantezza della colpa non mi assalì mai, perché in fondo ero pur sempre innocente, ma la figura di Nathan sbiadì poco a poco, rendendolo soltanto un fantasma del mio passato.

Passarono gli anni e piano piano cominciai a fare pace con l'idea che sarei rimasta lì dentro fino alla fine dei miei giorni. Ero una carcerata modello: tenevo pulita la mia cella, salutavo sempre le guardie cortesemente e non saltavo mai un turno di lavoro.

Se avessi continuato così, probabilmente, mi avrebbero rilasciato per buona condotta quando sarei diventata troppo vecchia per nuocere a qualcuno.

Purtroppo, o per fortuna, non ebbi il tempo di scoprire come sarebbe andata a finire.

Dopo cinque anni di silenzio, mio marito ha deciso di uscire allo scoperto. O meglio, viene costretto a uscire allo scoperto. A trovarlo è di nuovo un commissario, ma non quello tanto convinto che io lo avessi ucciso.

Mi aveva anche fatto visita in prigione, una volta. Mi aveva fatto delle domande strane alle quali avevo risposto come meglio potevo.

"So che non ha ucciso suo marito." aveva affermato ad un certo punto.

"Davvero?" avevo risposto sarcastica. "Adesso sì che sono sollevata."

"Le ho fatto queste domande perché suo marito è sospettato di concorso in evasione fiscale."

"Mio marito pagava le tasse, commissario. E di sicuro non era in combutta con la sua azienda, visto che lo avevano licenziato."

"Penso fosse tutto un piano per depistarci. Se lei mi dicesse dove si trova suo marito la farei uscire di qui immediatamente, ma se è arrivata fin qui o è disposta ad andare fino alla fine con questa recita, o non sa realmente dove si trova ed è soltanto una vittima di tutta questa vicenda."

"Mio marito aveva dei debiti." gli confessai dopo qualche minuto di silenzio. "Per questo lo avevo cacciato di casa. Mi ero anche aspettata la visita di quello strozzino, ma mai nessuno è venuto a reclamare il debito. Pensavo che avesse trovato un modo di ripagarlo, o che lo avessero trovato."

"Probabilmente era tutta un'invenzione, una scusa per poter scappare. Suo marito non aveva problemi finanziari, anzi. Aveva messo da parte un bel gruzzoletto e quando si è stancato ha consegnato le dimissioni ed è scappato."

"Ha abbandonato nostro figlio..."

"Portarsi dietro la famiglia avrebbe significato rendersi irrimediabilmente riconoscibili."

"Sa, commissario, è la prima volta che mi pento di non averlo ucciso per davvero."

Dopo quell'incontro passarono dei mesi, ma tornò a trovarmi periodicamente. Fino all'ultimo incontro, pochi giorni fa, quando mi ha aggiornato sulle indagini; in quell'incontro mi rivelò che molto presto sarei stata libera.

"Entro la fine della prossima settimana sarà una donna libera, glielo prometto."

Alla fine, ha mantenuto la sua promessa.

Adesso sono libera, anche se non ho idea di dove andrò. Sono libera da quelle sbarre che hanno limitato i miei movimenti per anni; sono libera dal falso amore di Nathan.

Secondo il commissario ho diritto ad un risarcimento per gli anni che ho passato in prigione da innocente. Non so se veramente di daranno quei soldi, né se pensano davvero che basti così poco per riabilitare il mio nome, la mia dignità.

Niente, a questo punto, mi ridarà indietro gli anni che ho perso: l'adolescenza di mio figlio, un terzo della sua vita! Per i ragazzini cinque anni sono troppi da riempire, da recuperare.

Domani, a metà mattina, lui sarà sicuramente a scuola. Allora andrò a cercare i miei, a chiedere loro cosa è successo mentre ero via. A chiedere cosa succederà ora che sono tornata.

Cullata da questi pensieri spaventosi, ma al tempo stesso rincuoranti, riesco finalmente ad addormentarmi. Il ticchettio dell'orologio fa da sottofondo ai miei sogni, dove Christian ha ancora dodici anni e Nathan è la persona più onesta che abbia mai conosciuto.

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