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Quattro mesi più tardi, a Riccione, tirai nuovamente contro la Giorgetti.

Sì, non smisi di tirare.

E sì, quella volta vinsi io.

E sì, era la finale del Nostini. Diventai Campionessa d'Italia, rifilandole l'unica sconfitta a Riccione in tre anni in cui ci si era presentata.

Avevo provato a smettere, ero stata anche abbastanza determinata, lasciando mio padre di stucco.

<Davvero vuoi smettere?> mi aveva chiesto all'indomani di Treviso.

<Assolutamente si> avevo risposto.

E lui, pur mal celando una profonda contrarietà alla mia decisione, aveva detto <Se è quello che vuoi, sei libera di farlo>.

Poi mi aveva guardato con un'aria molto seria, aggiungendo <Ma lo comunicherai tu, di persona a Vincenzo>

Ed era esattamente quello che avevo fatto. Vincenzo si era limitato a guardarmi a braccia conserte su quell'enorme petto, e a dirmi «Lì c'è la porta. Ma è sempre aperta».

Nei giorni successivi, ogni santissima volta che aprivo l'armadio, vedevo la mia giubba. Lodato. Il mio nome, il mio sudore, le mie mille lacrime, le mie parolacce, i miei sonni in macchina al ritorno dalle trasferte. "Che scema sei" avevo pensato, "sei scema perchè altre mille venderebbero la mamma per avere le tue qualità, la tua costanza, la tua abnegazione, e tu le butti nel cesso per uno".

Così, da brava scema, da perfetta adolescente che oggi vede nero, domani vedrà rosa e il giorno dopo vedrà dorato, avevo ricominciato, ad un mese mezzo da Riccione. Era stato strano rimettere piede in quella che, a volte, pensavo essere la mia prima casa, il mio rifugio dai guai domestici e casalinghi.

Vincenzo mi aveva guardata, sornione, chiedendomi se avevo bisogno di tirare un po' con le spade di plastica, avevo mezzo sorriso, mentre mio padre, tutto felice aggiungeva <Vincenzo non cambia mai>.

Sempre mio padre, dopo la vittoria al Nostini, mi elencò circa venti episodi sportivi riferibili alla mia vicenda, mentre mi abbracciava e sorrideva tutto contento, in attesa dell'intervista del dopogara.

E poi mi misi a sedere davanti alla pedana, e la prima domanda fu «Come ci si sente ad essere campionesse italiane sia nell'individuale che a squadre?».

Sì, avevamo vinto anche a Treviso.

Alla domanda, scoppiai a piangere, girandomi verso Any, che era scoppiata a piangere esattamente nello stesso momento, con in mano il cellulare per farmi il video, che poi rividi mille volte nelle ore successive, mentre tornavamo a casa assieme, amiche appiccicate a fare la videochiamata alla Costy, che prendeva il sole nella piscina di casa sua, parlando male della madre.

A Treviso, Vincenzo mi aveva mandato a monte le preghiere, calpestando una delle norme basilari che aveva sempre rispettato per etica personale. Era un coach che ti insegnava soluzioni, anche combinate, per rispondere all'avversario, sia in situazioni di attacco che in situazioni di parata e risposta. Ma il suo lavoro, come aveva sempre detto, finiva lì.

Non aveva mai suggerito il colpo da portare nell'immediato. Questo, secondo lui, era compito dell'atleta: leggere la situazione e trovare la soluzione.

In quella finale, aveva rotto questa sua regola ferrea: aveva chiesto un timeout tecnico per raddrizzare la spada ad Anita, e mentre tirava la lama sotto il piede, aveva confezionato due frasi secchissime per la traditrice, erano per filo e per segno le combinazioni che avrebbe dovuto eseguire, ciecamente, senza chiedersi perchè. Per ognuna delle due, le aveva chiesto laconicamente «Hai capito bene?».

Lei aveva annuito, convinta, riprendendo la spada in mano, risorgendo e mettendo due punti in fila ad una avversaria esterrefatta, che sembrava in perfetto controllo dell'assalto, ma che aveva affrontato con una frazione di secondo di leggerezza quella dirittura d'arrivo. Campionesse d'Italia, contro l'etica di Vincenzo, contro la mia volontà.

Tirare per vincere. Loro avevano fatto quello.

Io non so, ma imparai la lezione, anche se leggermente a scoppio ritardato. La imparai dallo sguardo di Vincenzo, che diceva che ero solo una stupidotta, mentre lui, sapeva sempre cosa era meglio per noi, anche se per noi appariva il peggio.

Anche se questo, per una volta, lo aveva fatto tradire la sua stessa etica.

Any, quella deficiente, era la persona più felice del mondo, perfetta inconsapevole di quello che le era capitato, sia a livello sportivo che sentimentale. Manco quando Costanza, tre giorni dopo Treviso, le mise sotto il naso il cazzo di Edo mandato per whatsapp, aveva capito la questione. Ci volle la Riciputi per spiegarle bene che il suo boy era un tipo perfetto da fuori ma perverso dentro. mandandole un paio di screen "illustrativi" del soggetto in questione, che le chiedeva di regalarle un paio di mutandine possibilmente usate, in amicizia.

Si ok, lo confesso: ricominciai perché Anita venne a trovarmi.

«Ho mollato Edo» mi disse sospirando, poi aveva come riavvolto il nastro, «mi piaceva, era libero e ho pensato ehi Kikka non muove un passo, pensa solo alla scherma. E poi...» tergiversò torturandosi le dita, lo sguardo che si posava su un punto imprecisa del pavimento pur di non guardarmi. «E poi, ecco io... Volevo essere meglio di te. Almeno in un campo» sospirò, «ma ho sbagliato. E ti chiedo scusa».

E mi chiese altre mille volte scusa e piangemmo assieme come delle cretine, registrando anche un paio di freestyle offensivissimi nei confronti di Edoardo.

Mi pregò di metterci una pietra sopra e di ricominciare a tirare, perchè la scherma per lei era diventata un mondo di completa solitudine.

Rimanemmo spadiste, anche se con risultati non così folgoranti, come se in quei pochi mesi tra gennaio e maggio 2017 avessimo sparato tutte le nostre cartucce. Io e Any il prossimo anno avremo la maturità, poi ci piacerebbe andare a studiare assieme, non sappiamo nemmeno ancora bene cosa.

Costanza, invece, proprio in questi giorni ha avuto la certezza di aver vinto anche il Ranking Cadette 2020-2021.

Costanza è brava, è forte, è incredibilmente coscenziosa, è bellissima tanto da meritarsi continuamente dei passaggi sul profilo Instagram della federazione, ed ha avuto la fortuna di incontrare Vincenzo che ha aperto la porticina della sua gabbia dorata.

Io piango sempre, quando ripenso a Treviso.

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