4. La strada che io non ho scelto di seguire
La porticina in legno scavata nella terra si aprì, finalmente. Dopo ch'ebbe dettato la parola d'ordine con stanca diligenza, i due uomini di guardia lo riconobbero e si decisero ad aprirgli la via.
Il ragazzo in nero, che già si era addentrato un'infinità di volte all'interno dell'edificio austero, rammentando la solita trave di troppo e tutte le volte in cui l'aveva urtata-anche di brutto!- si abbassò con un'agile capriola in avanti che lasciò tutte le sacerdotesse del luogo con il fiato sospeso fino a quando non toccò con i piedi terra. Era un'azione quasi necessaria, ma per nulla compiuta per mettersi in mostra davanti le attraenti donne. Non era uno spaccone come suo fratello, lui, anche se una compagna era da tempo che la desiderava. Ma dato ch'egli amava più segregarsi nella sua piccola stanza, come un eremita saggio –così gli piaceva definirsi, ma aveva ancora molta strada per diventare saggio- e immergersi nei libri di magia, non ci si era mai soffermato più di tanto: era soltanto uno sfizio.
Quale tipo di magia? Qualsiasi genere, dal curativo all'esorcismo, non era molto rilevante. Era grazie ad essa che fino ad allora era riuscito a sopravvivere nel suo campo, ed era grazie ad essa che fino ad allora non aveva avuto bisogno di ricorrere all'uso della sua spada. Ma stavolta era sopraggiunta una situazione totalmente differente: come era riuscita quella ragazza, o per meglio dire quella guardia, a superare la sua illusione? Non aveva utilizzato un alto livello di Mana per procedere all'incantesimo, quindi il livello di quest'ultimo non era tanto elevato, ma era abbastanza arduo risolverlo per un mago principiante. Ma quella ragazza non era un mago, non poteva esserlo: era una guardia. In quel mondo si poteva scegliere in due modi distinti di servire il proprio regno militarmente: diventando un guerriero, colui che usufruisce della forza bruta della sua arma e del nobile braccio che la comanda, oppure essendo un mago, costui, sin dalla nascita, veniva prediletto da Talos per utilizzare la magia, ossia lo specchio dell'anima dell'esecutore fatta materia. Questa era alimentata dalla Mana, la forza spirituale dell'animo umano. Quest'ultimo, oltre che dalla Mana, era formato anche dall'Energia, un qualcosa di più complicato che il giovane non comprendeva fino in fondo, ma che poteva intuire come la forza vitale di un individuo umano.
Si diceva, poi, che più gli incantesimi erano oscuri, più erano malvagi ed egoisti, e più l'anima e il cuore della persona praticante s'ingrigiva e i suoi pensieri si oscuravano di nuvole di morte e disperazione. Ma lui sapeva che non era affatto così, poiché anch'egli utilizzava la Magia Nera, la magia più oscura, malvagia ed egoista al mondo, ma anche quella più potente e quindi più imprevedibile, la più ardua da attuare, ed era vispo e felice come un fringuello, almeno per ora. Almeno relativamente.
Ed infine, esisteva una terza via alternativa per servire Caart non visto, in quel mondo c'erano sempre eccezioni, ossia il servizio alla Confraternita. Quella era la sua via, ma non la sua scelta, quello era il suo destino, ma non era ciò che lui desiderava.
Comunque, mentre ancora stava barcollando sulle caviglie per la frenetica rotazione in aria, ecco che, come fosse in un teatro, quando una comparsa, anche se solo per un attimo, ruba la scena al protagonista, questo ritorna e si riprende le redini dello spettacolo in mano, il nostro spaccone di turno: Gurzo, il suo cancro perenne sin dalla sua entrata nella Confraternita, che si precipitò subito a rovinargli l'entrata. Infatti, con un calcio agli stinchi mirato allo sbilanciamento del giovane sicario, lo fece crollare a terra a peso morto, già sghignazzando a trentadue denti. Anche se con l'intrepido intento di attutire la sua caduta con le mani, il nostro ragazzo riuscì soltanto a peggiorare la sua figura, abbozzando uno sciatto gesto che risultò infine inutile. Già tutti ridevano ancor prima che lui avesse toccato terra, c'erano abituati: lui era il fenomeno da baraccone, il tipico timido che faceva di tutto per sembrare almeno all'altezza dei suoi compagni, ma che alla fine veniva mirato dal gruppo e calpestato. Era il solo in tutto il suo corso a cui preservavano un trattamento del genere, veramente era il solo in tutta la Confraternita. Sempre un caso isolato, lui.
Alzò gli occhi, dolorante, e li vide, infine, tutti quegli sguardi derisori e giudicatori, tutte quelle bocche curve che spruzzavano disonore e disprezzo da tutti i pori che sin dagli albori della sua esistenza non avevano esitato a presentarsi. Ridete, sghignazzate, divertitevi, ma infine mostrerò io a voi chi per ultimo si divertirà, aveva promesso a se stesso tante di quelle volte. Ma non era ancora il tempo, quando sarebbe stato più forte ed autoritario, la sua ira repressa avrebbe terminato di attendere, non gli restava di partecipare passivamente alla sua lenta ripresa che, quasi invisibile agli altri, avrebbe segnato per sempre la storia della Confraternita.
E come ciliegina sulla torta, come ennesimo, ma forse non ultimo dei suoi guai quotidiani, ecco che una voce potente e profonda si sovrappose al chiasso: "Sempre la stessa storia, non è così?" tuonò dall'alto della facciata in marmo al di sopra di lui. Faceva capolino dalla povera costruzione semplice, ma armoniosa nelle forme, un occhio scrutatore, spesso celato allo sguardo altrui, ma che il giovane sicario intravedeva e scovava sempre, ormai. Il potente Capo Assassino che lo tormentava nei suoi sbagli mattutini e nelle sue notti d'incubi. Non era mai stata una persona accondiscente, questo era vero e certo come la luce del sole fievole che traspariva ora dalle piccole finestre su un lato, ma non si era mai sforzato di esserlo per davvero, solo ultimamente, solo quando il piccolo assassino accoglieva le sue richieste e le portava a termine in modo corretto- o "pulito" come l'omone osava sempre aggiungere-, allora gli permetteva un sorriso, o nei casi estremi, un abbraccio. Ma il nostro povero quattordicenne in cerca di calore, non quello di un camino ma quello di un focolare familiare, la fiamma che probabilmente mai avrebbe pulsato nel suo cuore, sapeva fin troppo bene che quelli erano miseri regali, come quelli che si fanno alle feste, che spesso sono solo per rafforzare i rapporti o allargare le simpatie, mirati solamente ad un secondo scopo molto più prosaico e molto più egoista di un sincero affetto dimostrato materialmente. Però a lui non interessavano i doni da quell'uomo, poiché aveva recepito già dai tempi più lontani ed ardui da ricordare quale fosse il ruolo di padre nella sua vita, un rapporto che poteva somigliare più a cane-padrone. Naturalmente, il cane era lui. Era quel povero essere che strisciava ai piedi del padrone e chiedeva la grazia di una carezza misera, ma che non verrà mai concessa. Tutte parole di suo padre, queste. Tutte parole di quell'uomo che lui non ebbe mai amato come padre, ma odiato come nemico.
Per sua fortuna, il Capo Assassino non la fece tanto lunga, forse perché era stanco e spossato o forse solamente perché non aveva voglia di fargli una ramanzina davanti a tutti. "Bene, uomini, lo spettacolo è finito" e con un gesto plateale da poeta si aggiustò la casacca nera pece che celava il corpo scolpito e poi continuò: "Donne, cos'è questo chiasso? Tornate ai vostri doveri! E voi, assassini, siete veramente degni del nome che portate o avete fatto una retrocessione al passato e siete tornati poppanti? Se volete fare i bambini sarò costretto a violare i vostri occhietti dolci" convenne lui sarcastico, con un mezzo sorriso, in seguito continuò disinvolto con un gesto verso il figlio, come se volesse parlargli in privato. Succedeva sempre più spesso, ormai. Era quasi un rituale mattutino.
Lo seguì fra l'interseco stretto ed angusto di corridoi e camere, il tutto illuminato solamente da una fievole luce rossastra delle fiammeggianti torce sparse per tutto il rifugio. Sì, era solo un rifugio, quello. Era dove gli iniziati cominciavano "a camminare" come specificava solitamente suo padre. In effetti, era così: gli apprendisti più giovani, lì dentro, iniziavano il loro cammino da assassini. Era puro allenamento il loro, almeno fino ai primi dodici mesi: dopo un anno esatto, solo gli apprendisti più svelti e pronti continuavano. "Del resto è sempre stato così, in natura", aveva spiegato tempo fa suo padre. "Fra un anno o poco più, anche tu avrai l'età giusta per iniziare l'allenamento. Avrei voluto condurti prima verso questa strada, ma le mie regole sono chiare a tutti e non vorrei apparire contraddittorio".
In fondo, a lui non importava. Sapeva che suo padre, nel bene o nel male, volente o nolente, non poteva lasciarlo morire, perché della profezia di cui suo figlio si era fatto carico lui non poteva proprio infischiarsene.
Lo condusse, come di consueto, nel suo studio: un ampio salone immerso nei libri, nei manuali, nei progetti e nei prototipi delle armi più assurde e bizzarre, e lo fece accomodare con finta cortesia su una sedia un po' malridotta davanti alla disordinata scrivania in legno d'acero, dove lui si sistemò.
"Allora, con te so che i preamboli non funzionano, quindi passo al sodo" convenne subito risoluto. Il ragazzo sapeva che suo padre era molto pericoloso, sì con la spada che come con la lingua: era un grande oratore, quell'uomo, la sua lingua allettava con proposte pericolose e solo troppo tardi la sua vittima si rendeva conto del tranello mortale a cui era avvinghiata. Agiva come un serpente che, anonimo e sereno alla vista, sotto celava un'anima sadica, che scatenata, portava alla morte del suo obiettivo. Senza perdite né scandali, senza ripensamenti né avvertimenti, era solamente una macchina mortale.
Il ragazzo annuì attento, senza farsi sfuggire un minimo movimento del padre. "Lo sapevo" e con un gesto quasi di fastidio egli levò una mano nell'aria, che fece acuire i sensi del nostro assassino. "Calmati, figliolo" disse notando l'atteggiamento del giovane. Era stata tutta una montatura per capire il suo livello di attenzione e apprendimento. Se il ragazzo era nervoso, lo dava a vedere pienamente. Una delle sue più grandi debolezze era quella, ossia che il suo corpo parlava sempre prima della sua bocca, anche se furbo e distaccato, tenace e tattico, il suo sguardo lo tradiva sempre.
"Falla breve" replicò con finta noia e impazienza, soltanto per poter verificare se era in grado di giocare un po' con suo padre. "E va bene, caro. Volevo solo che mi consegnassi il sangue della tua vittima di oggi" lo guardò suo padre come per dire: "perché ce l'hai, non è così?".
Il ragazzo sembrò ragionare per un attimo, soltanto per fare scena, ma poi tirò fuori dalla tasca una fialetta trasparente, resa quasi purpurea dal sangue semi-rappreso al suo interno. Consegnata quella, chiese il permesso di uscire, che fu accordato. "Ah, senti!" lo chiamò il Capo Assassino ancora seduto alla sua scrivania, mentre tracciava linee curve con un compasso su una lurida mappa. Che vuole? Un'altra missione? Ringhiò nella sua mente il ragazzo. Era troppo stanco per un altro incarico e poi aveva da pensare, non aveva alcuna voglia di ricacciarsi di nuovo in giro a cogliere il sangue di barboni senza cervello né dignità. Si sporse quel tanto per far spuntare dall'uscio della porta il suo orecchio, senza pronunciare una misera parola. "La prossima volta, però, cerca di fare meno lo spaccone, va bene? Io ci tengo alla mia dignità di padre" aveva detto. Il ragazzo sentì l'ira invadergli prima lo stomaco, poi il petto ed infine la sentì arrampicarsi su per le guance, fino a farle diventare purpuree. Avrebbe voluto scaraventargli tutti i suoi progetti in faccia ed in seguito trafiggerlo con il suo amato pugnale nero, ma sapeva che quello non era un uomo qualunque e, a solo quel pensiero, si trattenne. Si limitò a fulminarlo con lo sguardo, prima di scomparire dalla sua vista e dileguarsi definitivamente.
Passeggiò ancora per qualche tempo da solo per gli angusti corridoi rosati che stranamente gli davano un senso di pace, di piacere. Prese a formicolare con le dita le guizzanti fiammelle vive di una torcia a caso, sulla via verso la sua camera. Giocherellò con quelle ancora per un po', con il calore della fiamma che gli ravvivava le guance di un rosso che mai si sorprendeva sulla sua pelle pallida, passando come una nuvola su un cielo, per sorprenderle nella loro danza eterna, per interrompere per un attimo soltanto il loro movimento ipnotico. Era grazie alla magia che sapeva controllare ciò, ma nessuno lo sapeva e a nessuno importava. Quel piacere senza pensieri, però, si dissolse al passaggio dell'unica persona che gli avrebbe rivolto la parola: il suo mentore, il suo maestro, l'unica persona che si fosse preoccupata seriamente per lui, l'unica persona che poteva chiamare padre: Mazira, l'elfo, l'arciere che non sbagliava mai un colpo. "Salve, una giornata complicata?" fece quello avvicinandosi senza preamboli, sapeva meglio di chiunque altro che lo infastidivano. "No, la solita di sempre" rispose voltandosi verso il suo sguardo preoccupato. "Allora perché hai la testa tra le nuvole?" chiese lui con la fronte corrugata. Poi, forse dopo un'accurata analisi e un'ipotesi meditata, azzardò: "O forse una conoscenza?" domandò con sguardo e tono malizioso.
Lui arrossì di colpo. Perché quel bastardo sapeva sempre quello che gli passava per la testa? Non fece passare molto tempo e rispose con un debole cenno: "Una ragazza. Non so chi sia, ma... ha qualcosa in comune con me..." disse senza approfondire. Era chiaro che non volesse farlo. L'istruttore non violò le sue volontà: impressionato, ritornò sui suoi passi ancora rimuginando sulle sue parole. Ma poi l'assassino decise che quello era l'unico uomo con cui poteva sfogarsi, l'unico uomo a cui poteva proferire i sentimenti nel suo animo. Così lo chiamò: "Mazira" con tono da cane bastonato e, avvicinandosi a lui, si sedette a terra ed iniziò la sua cronaca giornaliera, come faceva di consueto. Raccontò di lei, della misteriosa ma valorosa ragazza di poco prima e di come i loro occhi fossero simili. Il maestro era un buon ascoltatore, prima annuiva ma poi, alla storia degli occhi rossi dello stesso colore, sussultò e, con sguardo quasi spaventato, continuò ad ascoltare irrequieto. "Non devi mai più incontrarla!" gli aveva proibito lui appena il giovane ebbe finito. "Perché?" ribatté quello, quasi affranto. "E' complicato, non posso dirtelo al momento, figliolo". Il ragazzo insistette ancora, quasi fino a farlo esasperare, ma non ci fu verso: Mazira, ormai, era intento nei suoi pensieri preoccupanti, di cui non ne sapeva né la provenienza, né la causa. Ma che si trattasse di quella ragazza, non c'erano dubbi.
Così si ritirò in solitudine e l'unico posto adepto era il tetto. L'unico suo rifugio segreto, il posto che mai nessuno avrebbe violato.
Si avviò, quindi, veloce, sopraggiungendo giusto in tempo per il tramonto. Si distese sulle ormai consunte tegole ambigue ed ammirò come sempre il magnifico paesaggio che in quel momento la natura gli offriva. Finalmente calò il cappuccio sulle sue spalle e lasciò librare i suoi scuri capelli nel vento, liberi, mentre il roseo scenario di primavera si affettava a lasciare il posto alla torpida sera. Non un raggio splendente che non fu colto dal suo attento occhio dorato. Non una brezza che non fu accolta benevola dalle sue fibre, come gli stessero intaccando pezzi di un'armatura andata in frantumi da tempo. Poco durarono quegli attimi, prima che subentrasse la notte con i suoi freddi colori lunari. Ed il giovane d'un tratto seppe che quello non fu che il primo incontro con quella docile creatura, che la rivedrà e presto. Socchiuse gli occhi con questa consapevolezza nel cuore, sorprendendosi al pensiero soffuso di lei, prima che le tenebre e il ritmico suono dei grilli gli cantassero una lieve ninna nanna.
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Oyayo, min'na! Ci si rivede molto più frequentemente ormai^^'. Meglio così, giusto?Giusto? Scherzo XD. Ricordate com'ero lenta, prima? Era a causa della scuola, ragazzi. Quindi scusatemi se in inverno sono più lenta, ma fra le mille cose da fare con la scuola non potevo proprio dedicarmi al mio libro. Poi il prossimo anno ho gli esami quindi sarà ancora più complicato. Cercherò, quindi, di sbrigarmi nello scrivere, così che possiate avere una visione più chiara possibile della storia al più presto.
Parlando d'altro, oggi ho deciso, come avete visto, di indagare un po' di più sul nostro misterioso assassino, ora sappiamo più cose su di lui. (Ma va'? Non l'avevo notato!) Se vi state chiedendo il suo nome... Muauahaha! (risata malvagia)... lo saprete fra molti capitoli, quindi dovrete prima morire dalla curiosità! (Non mi facevate così cattiva, non è vero? Ma è solo per lasciare quesiti, è una tattica, ragazzi, non preoccupatevi, lo saprete a breve!)
Mi stavo dimenticando di dirvi che qui, al tempo di Disia, se mai dovessi dimenticare di citarlo nel libro, è l'anno Quarto del Regno di Re Agnos, il famoso figlio umano di Jarrus il Potente. Se non avete capito, come spero altrimenti inizio a pensare che mi leggiate nella mente XD, il sistema in cui vengono catalogati gli anni a Caart è il seguente, preso da Frammenti di Conoscenza Antica: "La sistemazione strategica di Caart ha permesso a noi studiosi del passato un'approssimativa ma soddisfacente ricostruzione, grazie anche alle varie testimonianze dei grandi scritti dell'Antenato supremo del Egregio ed Illustrissimo grande Jarrus Il Potente. [...] Molti scritti parlano di una ruota del tempo sistemata al Centro della Terra, che dava la possibilità di viaggiare e ricostruire il Tempo stesso, ma che non fu mai ritrovata. "Sin dai tempi più antichi si è a conoscenza di questa maestosa e mitica macchina," così dicono le sue cronache "ma mai nessuno ha tentato sulle sue traccie. [...] Comunque, sin dagli albori della vita ricordo come mio padre istituì questo ordine nel Caos. Affascinato dalla Storia e dal Tempo, così che nessuno potesse più chiedersi l'origine e la fine delle Cose e quando avvenne, istituì la seguente riforma: gli anni di servizio al proprio Regno verranno collegati al Tempo, così che mai dimenticheremo i Grandi Re che hanno portato alla Salvezza di Caart." Ecco quello che i suoi scritti testimoniano."
Sono stata abbastanza chiara? Anzi il "nonnetto antico" è stato abbastanza chiaro? XD
Bene, io, allora vi saluto, cari lettori. Alla prossima!
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