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Prologo


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Dicono che se anche ti sbatti da sta vita poi non esci vivo,
dicono che uno come me è solo autodistruttivo,

ma faccio un altro giro, e faccio un altro giro all'ultimo respiro.


Club Dogo, All'ultimo Respiro

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Vivo in una città poco nota, un paese abitato da persone rispettabili per il loro cognome, e stirato e incravattato da valori tradizionali troppo forti. Una campana di vetro dove non puoi muoverti diversamente, bensì puoi solo sederti ed ammirare la gente ben truccata e impellicciata salutarti e tirare su con naso, avanti senza sosta. Una città che ti inghiottisce fondamentalmente e tu glielo lasci comodamente fare. Non hai di che vivere se non di apparenza già creata e impacchettata trovata sotto casa, come un bambino abbandonato al destino.

Sono nato 26 anni fa, quando la vita voleva prendersi gioco degli altri, e mi sono sistemato insieme alla mia famiglia prematura in un'abitazione a tre piani, una confezione regalo arrivata fin troppo presto. Mi sono catapultato nella mia vita a malo modo, non volevo abitarci e ho reso infernale tutto ciò che mi camminasse attorno. Hanno affiancato al mio viso scarno, scavato dall'adolescenza e pallido, un nome comune: Alexander. Un condottiero valoroso e un re, ma alla mia nascita nessuna corona ad aspettarmi. Descrivere il mondo attorno a me rende la mia biografia smielata e pesante, e posso sentire il peso degli errori sbattermi in faccia gli insulti.

Lo spirito da schiavo e l'animo ribelle, così detta legge la mia testa. Io annuisco, mi chiudo ogni sera in camera e ripeto la preghiera animatamente, con convinzione. Getto i vestiti luridi a terra e continuo a darmi pace dentro di me, mentre fuori pregano ideali ben diversi dai miei. Mi vesto di apparenza anche io come il resto del gregge che tira avanti il mio paese, mi incravatto, pulisco le mie scarpe lucide ed vado in chiesa a pregare una somma di denaro maggiore della precedente per la settimana seguente.

Mi esprimo meglio, questo è ciò che mio padre aveva in mente per me. Miserabile vita andata a male così la chiamo io.

Una linea sottile separa me e mio padre, una linea ben costruita con gli anni e sorretta da sbagli: una nascita prematura, un tatuaggio di troppo e un pacchetto di sigarette in tasca. Il mio analista crede che sono la vita andata a male di mio padre e io gli rispondo che se vivo per mio padre allora mi impicco. Ma poi non lo faccio mai, come una spugna mi nutro di quella verità e ci gioco la scommessa della vita. Poi dice che vivo in una famiglia di vittime e che mio padre sa tenere bene le redini, io rispondo che se voglio fare la vittima a dovere mi impicco e ruota tutto intorno alla mia morte. Poi lui ride, sdrammatizza, dice che sono coraggioso, che sono arrogante e schietto e che un giorno andrò lontano. Lontano da casa mia, ma la speranza marcia ha messo radici fin da subito in casa e io ho allagato la mia camera di pianti disperati e spezzati nella notte. Poi mi sono abituato al sapore amaro delle lacrime, mi sono abituato ai mostri nella mia testa e ho continuato così per anni. Mi sento orgoglioso di quel che sono e nel mentre prego chissà quale Dio di farmi completamente fuori. Un personaggio di una storia che impari ad odiare fin da subito ma che ami completamente perché ha un coraggio che tu non avrai mai, così mi valuto. Schedato da me stesso e stritolato con le mie stesse mani. Adesso mi aspetto una conclusione meritata per la mia vita, eppure devo ancora scorrere un'immensità di pagine prima di mettere la parola fine.

Mi colpisce l'agitazione, mi siedo contemplo questo silenzio e afferro il mio diario segreto. Mi sento un pezzo di legno ed ardo, do spettacolo peggio di un fuoco d'artificio. Brucio lentamente mentre sfoglio le pagine e aspetto che qualcuno mi salvi. Il mare ha dato spazio al fuoco e non scappi facilmente da un'anima in fiamme. Frugo dentro di me e apro la pagina a caso, poi mi ricordo che non devo piangere e allora chiudo tutto.

Mi ricordo del mio passato e nella mia mente enormi crateri si fanno spazio, animatamente tra loro scavano lentamente e mi lascio mangiare dalle belve. Getto la mia mente in pasto ai leoni e mi rammarico della mia vita da mediano inesistente. Sono un navigante pigro, un naufrago dentro un mare di speranza, non ho braccia salde, e mi ancoro alla prima pietra che trovo. Penso alla vita che si muove fuori da questa stanza. Si muove meglio di me e corre. Un corridore codardo sono, ecco cosa. Un corridore che non sa che si affatica a fare nella vita.

Quale via di fuga.

Quale porto quiete.

Una mente bipolare ben costruita eppure continuo a respirare, mi do pace dentro un pezzo di mondo qualsiasi. Poi penso a quanto dolore la gente intorno a me contempla ogni giorno e mi do pace: il dolore dell'impotenza mentale. Il mio migliore amico mi dice sempre che dovrei cambiare prospettiva, che la vita ha tutto un altro sapore. E poi mi ritrovo nella mia camera a pensare a frasi smorte, senza punti e virgole. Una poesia ermetica che suonava lo stesso stridente spartito da più di vent'anni.

La mia vita è cambiata da quando ho deciso di dover cambiare. Mi sono chiuso mentalmente dentro i miei sbagli e ho cercato di rimediare. Mentre rimediavo tagliavo ancora di più dentro me stesso, cercavo una pace e scavavo a fondo dentro la mia stessa carne. Poi ho capito che più scavavo, più il dolore saliva, mi soffocava e mentre mi lasciavo soffocare urlavo una salvezza inutile che non avrei comunque afferrato. Così ho lasciato la presa e ho dato spazio a un pessimismo pigro.

Non mi sono mai innamorato e non ho mai desiderato di cercare qualcuno. Conosco le ragazze così come mi capita, dentro le discoteche dentro i bar. Entro nelle loro vite e nei loro sapori, e poi alla luce del sole scappo come un vampiro scottato. Non mi sono mai innamorato perché ho paura di diventare come mio padre, un viso stanco e affaticato dalla vita. Uno sguardo vuoto, strafatto da ideali tradizionali che non mi dipingono.

Eppure, vorrei essere guardato allo stesso modo di come mia madre guarda mio padre, come a voler dire nonostante tutto io continuo ad amarti, perché non potrei amare nessun altro nella mia vita. Eppure mio padre questo non lo sa, non lo capisce. Finge che a lui tutto è dovuto, e noi fingiamo che questo ci basti.

Qualche anno fa ho scoperto che mio padre tradisce mia madre. L'ho scoperto per caso, quando la mia famiglia si beveva le solite bugie del lavoro, della cena di lavoro, dei colleghi ignoranti. Quando le sue camice cominciavano a tornare sgualcite e mio padre non aveva più il coraggio di guardare mamma. L'ho capito nel suo sguardo da venduto, da un uomo pentito e peccatore.

Non ho mai capito cosa gli mancava e ancora oggi non lo so. Non riesco a capire cosa gli manca negli occhi di mamma, e forse penso che sono come lui: un uomo gettato al caos della vita senza speranza di felicità interiore.

Ho passato l'intera vita a casa mia, la solita città che lasci solo nella vacanze di Natale per andare a trovare i parenti fuori. La mia famiglia è estremamente difficile, come il cubo di Rubik o come Tetris, non sai mai come far combaciare i pezzi e lasci che il destino giochi sempre la sua ultima carta, così giusto per glorificare l'ultimo sospiro. Avevamo un'armonia, finta, ma pur sempre un'armonia che mi permetteva di chiudermi dentro i miei sogni, di impacchettare i miei desideri nel cassetto, un'armonia che mi faceva vivere solo nella mia mente che adesso è diventata inabitabile.

Vado da un analista perché mi credo pazzo, in realtà ho solo bisogno di essere ascoltato.

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