Capitolo 20
Dio, Alex, quante volte ho riscritto questa lettera e quante volte ho cancellato la frase di apertura.
"Caro, Alex", "Ehi, Alex" e qualsiasi altra cosa seguita dal tuo nome e poi mi sono reso conto di quanto tutto questo fosse così banale. Come si comincia una lettera d'addio? Tu lo sai? Io non ne ho mai scritta una prima.
Ho persino cercato su internet e sono completamente sicuro che mi cercherà prima la polizia postale e dopo la morte, sai bene la poca cura con cui uso internet. Stai ridendo? Spero tu stia ridendo di questa mia battuta (perché era una battuta).
Poi mi sono detto, ma come posso dire addio ad Alex? Non esisteranno nemmeno infinite parole nell'universo, o forse ancora l'Accademia della Crusca deve inventare le parole adatte per lasciarti andare. Dio, Alex, lasciare andare te. Mi trema la voce, mi trema la pelle, mi trema il mondo sotto i piedi.
Alex, il mio Alex, il mio per sempre è anche il mio addio. Ti sei odiato abbastanza in questi anni, non farlo anche per la mia morte. Ti sto regalando il mio ennesimo per sempre.
Sai, abbiamo sempre preso in giro quelle coppie da film, quelle che dopo il primo appuntamento riuscivano a giurarsi già amore eterno, quelle persone che riescono ad eclissare se stessi per altri.
Eccomi, Alex, ecco dentro di me tutto quell'amore smisurato che provo per te, ecco la mia unica ragione di vita.
Ti ho distrutto, Alex, ti ho fatto a pezzi. Tu eri già a pezzi e io ho contribuito a renderti ancora più a pezzi. Dovevo darti una possibilità e ti ho aiutato a percorrere la scelta sbagliata. Tony e Manny di una storia che oramai non è più la nostra.
Dovevo offrirti un'alternativa, una rinascita ed eccola.
Ho trovato mia madre sai, l'ho cercata in tutti questi mesi e non te l'ho mai detto. Non ho avuto il coraggio, avevo paura tu mi facessi fare un passo indietro perché avevi paura io andassi via da te. Guardami, Alex, io non sarò mai troppo lontano da te.
Sai, Alex, ho incontrato mia madre una sola volta. Dio quanto mi somiglia, sono la sua fotocopia. I suoi occhi grandi e azzurri come i miei da ragazzino, poi tornato a casa mi sono accorto di non avere più quegli occhi. La droga mi ha mangiato anche quelli e non mi ha lasciato neanche l'anima.
Non era vera tutta quella storia: lei, mio padre, lei che non mi voleva. Papà mi ha portato via prima del previsto e di lei non ha lasciato nessuna traccia dietro la mia strada. È felice, sai, era felice di vedermi e si è accorta del mio dolore semplicemente da come giravo il cucchiaino nel cappuccino. Lei è stata la porta di questo Paradiso, e tu sei la mia chiave.
Ho strappato tanti fogli prima di scrivere questo, e nel mentre un pezzo del mio cuore smetteva di battere. Tu sei il mio cuore, Alex.
Volevo non scrivere queste cose, perché ho davvero tanta paura di non dire abbastanza. Ho tanta paura di non lasciarti le risposte giuste e ho paura di lasciarti dietro troppe domande: siano noi la domanda, e siamo anche noi la grande risposta.
Ho pensato a tutto questo per giorni, poi sono diventati mesi e negli ultimi anni rimaneva questa la mia unica risposta. Ogni notte mi addormentavo con la paura di non rivederti il giorno dopo. Poi mi sono accorto che la mia non era paura di morire, ma quella di vedere morire te. E poi quando ti raccoglievo dal pavimento in mezzo al tuo vomito, quando cercavo di farti rimanere sveglio o semplicemente quanto ti mettevo la cocaina tra le mani mi rendevo conto che ero io il tuo cireneo. Solo che in mezzo a questo cimitero di croci, io sono colui che ti aiuta a infliggerti una grossa lama nel petto. Ti ho messo io su quella croce, ho scelto i chiodi più belli e resistenti e tu mi guardi da lì sopra e mi chiedi aiuto, ma io in mano non ho niente.
Vorrei dirti come gira il mondo, regalarti la legge di questo moto e la risposta che stai cercando. Non c'è una risposta, Alex, non esiste. Ti dovrei dire che la risposta è dentro di noi ma tu mi risponderesti "Non c'è niente dentro di me", ecco Alex, la risposta è quel niente.
Quel niente che hai fatto tuo, che hai lasciato albergare dentro di te e che ora fai fatica a far sloggiare. Quel niente che ti fa credere che tu sia solo questo, che ti rinchiude dentro te stesso e non riesce a regalarti vie d'uscita.
Tu sei il mio niente, Alex, e questo niente attorno a me fa un rumore devastante. Questo niente è tutto ciò che mi ha tenuto attaccato alla Vita con più forza. E questo niente mi fa andare via per riempirlo.
Sarò il tuo niente, eternamente al centro del tuo petto, in equilibrio.
Sarò colui che darà sostanza a questo niente.
Sarò tuo e dentro di te per sempre.
Mi dicevi sempre che io ho troppo amore da regalare, poi mi dicevi che ero anche un po' codardo perché non mi lasciavo andare. E io ti rispondevo "Non ho il coraggio di dirle ti amo, non voglio dare voce a questi sentimenti. E se perdessero significato?"
Ti amo, Alex.
Lasciaci andare.
Sei stato tu il mio tempo migliore, i miei respiri, la mia voglia di vivere e di soffrire.
Sei stato tu la mia vita.
Sei tu la mia ragione.
Sei con me in questo viaggio e dentro questa fine, e tu sei il nostro nuovo inizio.
Quando hai voglia di perderti, ricordati che io sono la tua perdizione.
Quando ti sentirai solo, ricordati che io sono il tuo silenzio assordante.
Quando hai paura di non essere amato, ricordati che io sono diventato amore puro.
Quando hai paura di amare, ricordati che il tuo cuore può contenere amore anche per altri che non sono più io.
Sei il mio tutto, per tutta la vita e anche oltre questo enorme tutto.
Tuo unico, solo e per sempre Ranny
————
Chiudo con cura la lettera, asciugo le lacrime e con forza atrofizzo il mio cuore per sempre.
Non ho mai sperato nel per sempre, non sono tipo da favole, né da lieto fine. Lo scorrere del tempo mi ha sempre fatto paura, come quando gocciolina con gocciolina riempi un vaso e prima o poi trabocca. Io non vorrei mai vedere la fase finale.
In poche righe qui dentro c'era un'eternità che
mi riportava a galla. E riportava a galla anche tutta la paura di una solitudine, di un buio che avrei assaporato da solo magari, e di anni di capelli bianchi senza lui affianco.
Dentro questo inchiostro blu di una Bic lasciata distrattamente aperta sulla scrivania trovavo un bivio.
Quando scegli qualcosa inevitabilmente rinunci ad altro.
Una vita senza Ranny o con Ranny?
La vita o la morte?
La droga o la sanità mentale?
E sull'ultima domanda non sono poi così sicuro di ottenere una cosa rinunciando all'altra.
Rose si fa strada in camera mia, entra in punta di piedi e piano. Non vuole fare rumore e vuole rispettare il silenzio di casa mia, chiude con delicatezza la porta alle sue spalle. Io mi siedo sul ciglio del mio letto e la osservo mentre con gli occhi ruota su ogni particolare della mia stanza.
La mia stanza è spoglia, minimale. L'intero spazio della camera è occupato dal mio letto matrimoniale attaccato al muro, una scrivania disordinata e un mobile per la televisione che non accendo mai. Il soffitto spiovente finisce con un enorme armadio.
Accanto alla scrivania un balcone che affaccia sulla parte posteriore di casa mia. Un giardino non curato come la mia anima: piena di erbacce e malelingue.
Sulle pareti pile di mensole piene di libri e CD. In un angolo nascosto la porta del mio bagno.
«È confortevole» sorride, si imbarazza. Sono stata più volte in casa sua ma non mi sono mai degnato di privarla della sua privacy. Non sono mai entrato in camera sua, neanche per sbaglio e non mi sono mai permesso di sbirciare facendo finta di cercare il bagno.
Ho paura di entrare nel suo mondo, non mi sento degno di poter abitare o camminare sulla sua Terra.
Si apre a fatica, a volte parla troppo e mette troppe parole in fila che le soffocano in gola. Altre volte è silenziosa, pensierosa, immersa in chissà quale universo che non mi fa conoscere.
Sono geloso di questo. Mi sento privato di qualcosa che vorrei con tutte le mie forze, ma non riesco a forzare la porta per entrare.
Lei invece nel mio mondo si pone con tutta la sua delicatezza, gira attorno, sorride. Poi posa gli occhi sulla chitarra nell'angolo,
«Suoni?»
«A volte».
Si avvicina e tocca le corde, prima piano e si stupisce di quel piccolo suono, poi tocca più fili e io sento una musica dentro di me inondarmi il cuore.
«Sei brava» la prendo in giro e lei arrossisce,
«Non ero in grado nemmeno di suonare il flauto alle scuole medie» dice, poi torna indietro nel tempo, «Non ho passato nemmeno il test per suonare lo xilofono»
«Non ti hanno mai capita» le dico, e in mezzo a queste parole c'è molta più verità di quanto io possa farle credere.
Vorrei che mi raccontasse altro: la sua materia preferita magari, il professore che non tollerava alle 8 di mattina o la compagna di banco che voleva copiare i suoi compiti in classe.
Vorrei sapere quante persone l'hanno sfiorata e le hanno fatta del male trasformandola ora in una ragazzina impaurita e spaesata in angolo che riesce a stupirsi di un suono stridente di una chitarra impolverata.
«Chi ti ha spezzata il cuore?» vorrebbe non rispondere, trovare una scusa e regalarmi un fiume di parole senza senso in cui so solo perdermi e mai trovarla,
«Un po' gli altri e un po' Dio»
«Chi sono gli altri?»
«Chi è il tuo Dio?»
Mi blocco, le faccio notare il mio disappunto muovendo la testa più volte «Perché non ti fidi di me?» mi viene incontro e si siede all'altro capo del letto, «Io mi fido di te» accavalla le gambe e appoggia la sua schiena al muro. Vorrebbe andare più lontano e raggiungere l'altro capo della stanza.«È di me che non mi fido» aggiunge, e io le chiedo il perché in incredulo,«Mi attacco facilmente alle persone, mi apro, lascio pezzi di me che io non sapevo tenere dentro al loro posto, mi rifugio e prontamente quando tutto finisce io sono vuota completamente»
«Anche il tuo silenzio lascia qualcosa dentro di me, questi occhi che ruotano ovunque tranne che su di me stanno lasciando pezzi ovunque in questa stanza e i tuoi fiumi di parole stanno allagando anche me»
«Tu vuoi questo?»
«Io voglio te»
«Io sono questa»
«Tu sei molto di più di questo».
La lascio nel suo incrollabile silenzio, per pochi intensi secondi mi guarda dritto negli occhi.
«Ero una ragazzina vivace, mia madre diceva sempre che ero una trottola, un terremoto. Poi col tempo le persone mi hanno un po' arrugginita.
Mi sono innamorata la prima volta alle scuole elementari, se quello poteva essere chiamato amore, e poi l'ho portato dentro per un bel poco di tempo. Mi sono eclissata per lui, sono stata la sua ombra per molto tempo e colei che gli asciugava le lacrime. Lui invece non vedeva mai le mie o forse non mi vedeva mai.
Mi sono nascosta dietro i miei kg di troppo per moltissimi anni dalla scuole medie fino le superiori, dentro il mio dolore e i miei incubi. E forse col tempo mi sono accorta che la persona che mi ha realmente spezzato il cuore è me stessa. Ho permesso più volte al mio cuore di essere ferito, perché credevo di non meritare altro. Sai come si dice? Accettiamo l'amore che crediamo di meritare. E io credevo di meritare quel dolore e nient'altro.
Anche la vita mi ha spezzata il cuore. Mi ha fatto conoscere persone, poi per cause diverse mi hanno abbandonato, alcune ho deciso di abbandonarle io. Ma non avrò mai la causa che vuoi tu.»
«Questo è passato, e dentro questo presente cosa c'è?»
«Cicatrici interne ed esterne, cerotti che non hanno retto e altri che hanno chiuso ferite che ancora fanno male»
«A volte un cerotto non basta»
Mi dà ragione con un'altra ondata di silenzio, e poi mi riversa la domanda.
E adesso cosa dovrei dire?
«Io non credo di essere mai stato diverso da questo. Sono sempre stato un tumulto di niente e apatia. Sono molto coerente, con me stesso un po' di meno. Sono stato la lama e la mano che teneva il coltello dalla parte del manico»
il suo sguardo mi distrae e si posa sulla lettera che custodisco gelosamente sulla mia mensola, «Quella cos'è?»
«La ferita e il cerotto».
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