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Capitolo 2




***

Questa anima che scuoto,

scende un po' di odio e vuoto.

Guè Pequeno, Ti ricordi?

***

Mi sono saziato con stronzate e con gli anni mi sono bastate. Mi sono bevuto quella bugia e adesso me la lascio colare dentro gli occhi. Il dolore è come un'ape che costruisce il regno, feconda ogni giorno dentro i fiori della mia giovinezza. Non ho mai fermato mio padre, figuriamoci il dolore.

Vorrei frantumare il mondo dentro i suoi occhi per farle capire che esisto.

Adesso mi auguro la vita, stasera ho il coraggio di chiudere il diario e di guardarmi allo specchio.

Mi fa ancora male quel dolore, Ranny. Non ti ho aiutato così come tu non hai aiutato me, ed è folle pensare che ancora mi aggrappo a quel poco che ci resta. Che ci resta? Non ci siamo più e non so nemmeno il senso di queste parole. Il tuo dolore non ha mai meritato niente, nemmeno il mio.

Ti ho visto Ranny. Ti sei seduto accanto a me, mi hai sussurrato delle cose. Mi sono girato dall'altra parte e ti ho lasciato stare. Mi sentivo pazzo, e continuavo a vederti. Mi sono seduto sul letto e tu hai continuato a camminare, disegnavi cerchi a terra con i piedi. Eri agitato. Mi sono sentito male, Ranny. Non potevo sfiorarti e per un attimo pensavo di vivere. Perché accanto a te vorrei solo vivere. La morte è lontana dalle mie braccia e tu continui a girare dandomi le spalle.  Ti ho chiamato, Ranny. Ho sussurrato il tuo nome, ho urlato. E poi mamma ha aperto la porta, mi ha chiesto che succedeva e ho visto la sua sagoma proiettata a terra.

Sei andato via e ho pianto.  Mia mamma ha chiuso la porta e non ha consolato il mio dolore.

E così mi sono steso a terra e tu sei venuto vicino a me. Così ho pensato che volevi mostrarti solo a me, che gli altri non meritavano niente.  Ranny, mi sono ammalato della tua assenza e adesso non ho la cura.  Tu continui a sussurrare e io ti ascolto, mi dici parole Ranny che non ricordo il giorno dopo. Mi asciughi le lacrime che non ricordo di versare.

E improvvisamente vai via quando suona la sveglia e io mi sento un po' più solo.

Daniel attraversa la mia stanza, costruisce piccoli cerchi che stordiscono la mia quiete, «Dovresti prendere una posizione», sbruffo «Sono seduto infatti» l'ironia scava questa solitudine.

Mi alzo e stringo i pugni «Non ti ho mai visto così per una ragazza» lui ride e io dentro mi inondo di tristezza.

Mi sento una nullità, un granello di sabbia sopra una distesa infinita di granelli.

Mi sento un bicchiere in bilico pronto a frantumarsi.

Mi sento una foglia, accartocciata a terra.

Mi sento un albero troncato. 

Mi sento in mezzo al mare senza saper nuotare.

In mezzo ai tacchi a spillo, agli stivali alti, noto nel tavolo in fondo un paio di Converse. Tremo come quella foglia, adesso sono quell'albero: troncatemi. Giro attorno a un tavolo e mi siedo al bancone «Ma sei coglione o cosa? Alza il culo» mi sento una pacca rumorosa sulla spalla e il bruciore si sublima dentro di me. Il mio cuore in fiamme stava creando ceneri e crateri, l'esplosivo bruciava la carne e i ventricoli cominciano a battere rumorosamente. Mi sento il cuore in gola.

«Non avrebbe motivo di.. insomma, sono io» balbetto, «Ti ammazzo, muoviti» avevo fatto l'abitudine a questi insulti per spronarmi. Alzo gli occhi al cielo, se non mi va bene vuol dire che non sono portato per questo.

Mi avvicino lentamente, è sola e osserva le sue amiche che avevano abbandonato le loro borsette, le teneva strette ai suoi occhi. «Posso?» si gira di scatto e per un attimo non fa cadere le cioccolata dal tavolino, «Non volevo spaventarti» sussurro, balbetto. Sono più agitato delle sue mani tremanti. Mima un sì con la testa e si sposta lentamente per farmi spazio, stringe le gambe e aggiusta la gonna. Allontana la sua cioccolata e copre il suo imbarazzo con i capelli, si aggiusta e aspetta che io dica qualcosa. «Non ti va di ballare?» certo che no, quelle scarpe bianche ne sono la prova. E poi lo sai, la osservi da mesi. «Non sono quel tipo di ragazza» dice fra i denti, poi ride, abbassa la testa, si sposta i capelli dietro l'orecchio. Glielo vorrei dire che l'ho sognata stanotte e che quel viso dovrebbe vederlo il mondo. «Che intendi per quel tipo di ragazza?», mi indica una ragazza in pista. Mi indica i tacchi a spillo che odia, e la minigonna piena di paillette, quel cocktail in mano e i capelli in aria. Poi sorride di nuovo, e sento che vorrebbe andarsene.

«Se vuoi ballare hai sbagliato ragazza» mi guarda, fa una smorfia. Vorrei portarla fuori e dirle che quei capelli li adoro, che vorrei accarezzarla. «No, non sono qui per ballare» e si nasconde di nuovo. Gioca col suo imbarazzo e io vorrei baciare quei denti. «Voglio sapere il tuo nome» vorrei sapere il nome dei miei desideri e delle mie pulsioni infantili.

«Pensavo che volessi il numero di qualche mia amica» ride nervosamente e si morde il labbro, «O questa è la seconda domanda?» poi tira su le spalle, «Perché dovrei volere il numero di una tua amica?» domando incredulo, «Fate un po' tutti così con me» e si nasconde di nuovo, e non lo sa che quel viso mi assomiglia al mio sogno più bello.

«Rose» si volta e si riprende la cioccolata. Morde la cannuccia nervosamente e sfiora il collo con le mani. «Non vuoi il numero della bionda vero?» rido di gusto e lei mi segue, faccio un no con la testa. «E tu?» sorseggia quella cioccolata e tiene stretto il bicchiere al petto.

«Alex – eccola la voce della mia sconfitta – In realtà Alexander, ma tutti mi chiamano Alex»

«Come Alessandro Magno un po' inglese»

«E anche un po' meno combattivo» abbasso gli occhi e le chiedo se vuole bere qualcosa con me. Le dico che voglio offrirle una cioccolata, lei mi risponde che non riesce neanche a finire quella.

«Ti accompagno al bancone se vuoi» rompe il mio imbarazzo, «E le borse?» la scherzo, «Chi se le prende secondo te?» e ribatte così, «Possiamo uscire se non ti piace qui dentro» i suoi occhi si illuminano e si alza.

Adesso lo so, era lei quella con l'arma in mano e lo scudo. La più forte tra di noi è sempre stata lei. Era lei il mio Alessandro Magno.

«Non mi farai del male vero?» mi scherza e adesso lo so, avrebbe pianto e avrebbe versato sangue amaro. Ma lei ancora non lo sapeva.

«No, non ti farò del male» è una bugia, Rose. Ti prego vai via, torna a casa. Indossa il tuo pigiama e le tue insicurezze e non guardami più.

«Posso vedere il tatuaggio?»

«Che ne sai del mio tatuaggio?»

Sorride dolcemente e adesso posso davvero morire, adesso amore so cos'eri per me, «Ti ho osservato un paio di volte» menti.

Tiro fuori un braccio dalla giacca di pelle e alzo la camicia, lei sfiora la mia pelle, percorre le forme dei miei disegni e io rabbrividisco. «È stupendo» come i tuoi occhi. «Anche l'altro braccio è così» è l'unica che non si tira indietro, è l'unica che non mi da del pazzo.

Adesso lo so, sei l'amore della mia vita.

La nostra nube viene rotta da una voce «Rose? Noi torniamo, andiamo? Ti aspettiamo alla macchina» quei tacchi a spillo adesso sono nella sue mani, la odio. Fa su con il pollice, aggiusto la mia camicia, «Ti accompagno?»

«Come vuoi» dice e i suoi occhi cambiano espressione. Mi sento una lama dritta nel petto, t'avrei salvato.

«Ci rivediamo?» ho lanciato la bomba e lei si lascia sgretolare facilmente, «Cercami» ed entra in macchina.

Gli occhi dell'insicurezza adesso sono attaccati al mio cuore e osservano il marciume all'interno.

Entro dentro e recupero i miei pezzi, non sono più i miei pezzi. Sono i pezzi di Rose, e sono esattamente i due occhi che mi hanno trafitto questa sera.

«Com'è andata? Mi sembra bene» George si avvicina, aggiusta i capelli e andiamo fuori a fumare l'ultimo pezzo di questa serata.

«Lei è esattamente l'armonia e il caos di questo mondo»

Entro furtivamente in casa, ho fame. Vorrei mangiare le mie paure e vorrei fare l'amore con i mostri sotto al letto. Rubo una scatola di cereali e la voce di mia madre sazia il silenzio «È tardi, Alex» lo dice ogni sera, «Lo so, non ho guardato il telefono. Non devi aspettarmi per forza» e questa è la mia risposta di sempre. «Non riuscivo a dormire» mente.

Entro in camera mia, tolgo i vestiti e per la prima volta amo il mostro dentro lo specchio.

L'altra notte ho sognato una vecchia stanza, piena di giocattoli e pezzi di vetro rotto. Era bianca e purificante, e io chiedevo aiuto mentre urlavo. Ma la maggior parte dei sogni è un film muto senza sottotitoli e io fremevo in mezzo al mio stesso cadavere. Non avevo voce, e mi divoravo dal dolore. Che poi, questi atti di cannibalismo notturni saranno dovuti ai miei film mentali troppo frequenti.

Dovrei smetterla, spegnetemi la testa.  Eppure la notte non si dorme mai, hai sempre paura del mostro che in realtà è dentro di te. Da cosa ti proteggi? Neanche una sudicia coperta sudata ti aiuta dai tuoi mostri, in realtà non ti puoi aiutare. Che poi penso a quanto siamo stupidi noi umani, cerchiamo sempre una salvezza per autoconvincimento perché in questo mondo non ci sappiamo stare. Siamo tristi e peccatori. Siamo soli dentro questo abisso di falsità. Che mangi? Di che ti nutri? Pezzi di carne sbranati da chissà quale umana gente, chissà che innocente sorriso.

La vita scorre in questo letto di anni troppo stretto, e io mi sento soffocare mentre aspiro i miei 26 anni portati male. Morirò di cancro tanto, ve lo dico io. Un'umanità logorata da una malattia di merda. Cancro al seno, alla prostata, cancro al cervello, che importa. La vita è un progetto politico mafioso già scritto, e noi abbiamo dettato leggi sbagliate.

Oh vita mia, quanto dolore dobbiamo contemplare.

Stanotte, Ranny, mi addormento con una sola frase in testa: cercami.

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