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Capitolo 15

Questa notte non porta consiglio
no, non ha niente da dirmi.
Per la testa mi saltano i grilli,
ricordi che scalciano dai ripostigli.

Borotalco, Franco126

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Mi manca l'aria, una stretta al petto mi soffoca e comincio a lottare contro me stesso per respirare. Sto avendo l'ennesimo attacco di panico degli ultimi mesi. Sbarro gli occhi e il buio della notte mi inghiottisce, le mie mani non riescono a trovare l'interruttore della luce. Mi alzo di scatto e comincio a premere forte sul petto, il mio cuore muto avrei voluto strapparlo e buttarlo dalla finestra.

Pochi millesimi di secondi, pochi per uccidermi ma abbastanza per desiderare di soffocare dentro le lenzuola. Tra le mura della mia camera, la voce del mio analista che mi urla di aggrapparmi a qualcosa per rimanere a galla.

«Mastica qualcosa di morbido. Urlaci dentro» le sue parole cominciano a diventare vere davanti ai miei occhi e afferro il cuscino, mordo forte e sotto i miei denti sento la flanella stridere, quel rumore comincia a confondersi con le mie urla.

Esausto, vinto da me stesso, comincio a pensare a Rose. Vedo i suoi occhi, il buio prende le sembianze del suo continuo imbarazzo, i suoi modi goffi di camminare. Le mie urla vengono coperte dal suono della sua risata, il suo flusso di parole comincia a fare a gare col mio respiro rotto dentro un cuscino sudato.

Un respiro, due, tre, un po' di pausa, e il mio respiro comincia a diventare regolare. La stanza si ferma, le mie mani riconoscono la morbidezza e la freddezza delle lenzuola. Riesco ad accendere la luce, e dentro questa camera, il silenzio prende possesso di me e mi lascio andare ad un pianto muto.

Non sento più niente.

Mi alzo dal letto, leggo l'ora sul cellulare: le tre del mattino passate. Anche questa notte entra nella lista delle mie notti insonni. Apro il cassetto del comodino e afferro il pacchetto di sigarette, apro il balcone e mi siedo a terra. Comincio a fumare mentre osservo il mondo muto davanti a me. Niente, non c'è rumore e non c'è anima. Fuori e dentro di me tutto è spento e vuoto, mentre nel fuoco di questa sigaretta vedo l'unica salvezza.

Anni fa, avrei conficcato un ago di siringa dentro le mie braccia, mi sarei avvelenato con le mie stesse mani. Oggi, seduto su questo sudicio pavimento, mi passa solo la stramba idea di buttarmi oltre questa ringhiera. Non farei rumore, scenderei piano come questa umidità.

L'autodistruzione era l'unico piano che stilavo prima di dormire, col tempo ho attraversato e preso diverse strade per raggiungere il mio obiettivo. Ora è questa sensazione che mi tiene in vita, questa stretta allo stomaco ogni volta che la vedo, e i miei occhi che cercano solo i suoi. In mezzo a questo niente, lei riuscirebbe a riempire ogni cosa dando valore anche a questo cielo nuvoloso e spento.

Non possono rimanere a galla due persone con un unico salvagente. Per salvare me stesso, avrei fatto affondare lei, ma questo ancora non lo sapevo.

«Hai trovato finalmente una via di fuga» in verità, l'unica via di fuga è questo lettino diventato più comodo del divano di casa mia, «Io non sarò la sua via di fuga però» stamattina le mie occhiaie toccano terra e si confondo con la cravatta del mio analista.

«Cosa stavate sognando?»

«Non lo ricordo»

E invece, dentro la mia testa, Ranny urla aiuto sul ciglio di un dirupo. Sono muto nel mio stesso sogno e non riesco a raggiungerlo, le mie gambe di marmo sono piantate con forza a terra, gli occhi di Ranny cominciano a sanguinare e il mio fiato si spezza. Gli ho voluto bene, ma non abbastanza da tenerlo in vita. In un attimo, perde l'equilibrio e cade nel vuoto. Il mio vuoto.

In mezzo a questo silenzio, il mio analista incassa la mia bugia, ma non ci crede più.

«Non potevate salvarlo»

«Non posso salvare nemmeno me stesso» in mezzo al cumulo degli errori, io sono il mio Dio, i miei discepoli sono le vittime di questa storia.

Posa il suo taccuino sul tavolino davanti alla sua poltrona, si alza di scatto e afferra un pacchetto di cioccolatini. Apre il pacchetto e ne afferra uno, lo divora in un attimo. Poi ne prende un altro, e me lo porge. Mi costringe ad alzare la testa, metto a fuoco e faccio cenno di no.

Divora anche il mio. Vorrei che adesso mangiasse anche il mio cuore nero incastrato in questo petto.

Si avvicina alla sua scrivania, apre il cassetto, posa i cioccolatini e chiude a chiave.

Poi mi raggiunge e mi mostra la chiave, «Qui dentro c'è il mio autocontrollo. Sono una persona golosa, mangerei un intero pacchetto di cioccolatini. Mi danno una carica pazzesca e mi mandano in estasi. Eppure, ho una certa età e non me lo posso permettere. Questa chiave mi salva, ma se mi alzo di nuovo e apro il cassetto perdo».

Ranny non è la mia chiave.

«Devo a Ranny la mia vita»

«Adesso voi la dovete a voi stesso»

«Chi ve lo dice che sono qui per questo?»

«E allora perché disintossicarsi?»

Piomba di nuovo il silenzio, comincio a giocherellare con le mie dita e non apro più bocca. Nella mia testa il tic-tac di un orologio immaginario scandisce il tempo che passa, lento, sempre più lento.

Il mio analista si siede di nuovo, apre il taccuino e lo sfoglia, chiude il mio cuore con una sola frase: «Era Ranny la vostra vera droga».

Quel sangue ora cola dai miei occhi.

Cosa succede quando sgami la droga a un tossico? La vergogna, il velo di Maya squarciato, il Nirvana mandato a farsi fottere. La rabbia, la disperazione, la tentazione di seppellire qualsiasi persona provi a salvarlo. È come rubare l'osso a un cane rabbioso.

Cosa succede quando provi a portagliela via? L'astinenza, la maledetta astinenza che ti penetra negli occhi e nelle viscere, il sangue che prega la dose e il cuore disabituato a pompare sangue puro che libera attacchi di panico come orgasmi.

Ranny mi ha portato via tutto, anche me stesso. I pezzi di me che ho lasciato incastrati dentro di lui si sono suicidati nella stessa notte. In mezzo a quel marciume, al sangue fresco che bacia l'asfalto, in mezzo alle foglie secche autunnali di una strada sterrata dimenticata da tutti.

Si è portato via ogni cosa e mi ha lasciato in un mare di debolezza, di disperazione e all'interno di un corpo che non trova più la sua anima.

Pensavo sarebbe stato l'ultimo a ferirmi, e invece è colui che dentro mi fa più male.

Sono un bravo giocoliere di parole, le mastico continuamente e ne sputo di cattive la maggior parte delle volte. Lei invece mi tappa la bocca, mi lascia inerme e non riesco a metterne una mezza in fila. Perdo il nesso logico, la ragione la notte e la mia mente si imbosca nei suoi infiniti dettagli che ancora ho lucidi davanti ai miei occhi.
La cerco di nuovo e la ritrovo nello stesso punto di qualche mattina fa. È diventata la mia abitudine mattutina, il bicchiere di spremuta che aggiunge vitamine al mio organismo.
Il suo viso è stanco e porta il peso della settimana infernale giunta al termine. Ha delle profonde occhiaie, la pelle segnata dall'aria malsana che respira e i suoi capelli lunghi nascondono ogni sua imperfezione.
Si avvicina e mi saluta come se fossi sempre stato qui, ogni mattina alle 12:30 per aspettarla.
Mi guarda come se fossi la sua lezione preferita che non vorrebbe saltare per nessuna ragione al mondo.
Mi offro volontario per portarle lo zaino, all'inizio è restia. Vorrebbe dimostrarmi che riesce a cavarsela da sola e qualche secondo dopo sono costretto a sorreggerla perché inciampa nei suoi stessi piedi.
Poi cede, mi porge l'enorme peso e fa un lungo sospiro di sollievo.
«Sono diventata una tappa fissa?» ci incamminiamo verso casa sua e nel mentre stuzzica il cane che dorme.
«Ero di passaggio» mento e mi metto a ridere, lei mi crede per qualche secondo e poi lascia vivere un sorriso a trentadue denti sul suo volto.
Comincia a farneticare sulla mattinata, osservo le sue mani muoversi frettolosamente e in modo continuo. Poi si lamenta anche di questo, del suo gesticolare nervoso che vorrebbe cambiare e si ritrova ad essere un vulcano in eruzione.

Mi racconta della sua giornata, non riesco a infilarmi in mezzo al suo fiume di parole. Ride, più volte e mi ringrazia. Poi arrossisce, si pente di essere così impulsiva e si scusa.

«Sei un terremoto» le dico, hai scosso ogni millimetro del mio corpo e in mezzo ai miei peccati diventi la mia Confessione.
Le dico che sono un tipo strano, a volte solitario, «sono il classico tipo incazzato col mondo».

«Io a volte mi perdo e difficilmente mi ritrovo»
«Vuoi essere il mio posto nel mondo?».

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Eccomi tornata con un capitolo totalmente nuovo.
Cosa vi aspettate da questi due? Io un sacco di cose e spero di farvele conoscere tutte.

Se avete voglia ho inserito una rubrica nuova dedicata al mio flusso di pensieri. Leggete silenziosamente, se vi va.

Grazie sempre.

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