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Capitolo 14

***
E non so se chiamato paradosso o compromesso,
il fatto che ho salvato tutti tranne che me stesso.
— Supereroe, Emis Killa
***

Era una giornata normale.
Era una mattina normale.
Ma le mattine normali non le ricordi, non ti restano sulla pelle.
Le mattine normali ti scivolano addosso come acqua, ti lavano, ti asciughi.
Le mattine normali le dimentichi.

«Andiamo» sussurra mia madre, andiamo all'Inferno. Andiamo nel tuo Inferno. Non doveva dire nient'altro, non serviva. Quando senti il dolore, quando ti senti vuoto, allora capisci. Le gambe mi abbandonano, mi sento crollare. Svengo, muoio anche io qui, su questo sudicio pavimento di una camera normale, di un Inferno che odio. Ma chi ama l'Inferno?

Le mani si gonfiano, scoppio. I pezzi di me coloreranno la stanza, il mio sangue dipingerà questo pavimento, i miei occhi si attaccheranno alla finestra del mondo.

Mi si appanna la vista, è la volta buona: muoio. Soffoco anche io in questo mondo, soffoco assieme alle urla mute che salgono dalla gola e mi muoiono dentro. Piango, piango lacrime inesistenti, piango sangue. Piango la mia vita. Piango il mio futuro, da solo, piango la mia esistenza vuota.

Mi alzo, mi rialzo con tutti i miei pezzi.
Mi sento rotto.
Mi sento vuoto.
Non mi sento.
Non esisto.
Non esisto più.

Il dolore mi mangia, il sangue nelle mie vene mi fa male. Sbatte forte e mi fa urlare.

Urlo, urlo forte, prendo a pugni l'armadio. Continuo ad urlare, non mi fermo, non piango.

Butto giù la mia camera, lo specchio dell'Inferno.

Mi alzo, ricado, continuo ad urlare.

Le urla si spezzano a metà gola, mi lacerano lo stomaco. Mi lacerano l'anima.

Mi sento a pezzi.
Sono sempre più rotto.
Mi sento un vegetale.
Non esisto.

Ma mi rialzo, ancora, e ancora. Mi alzo, mi vesto, vado in bagno e lavo la mia lurida faccia.

Mi stringo i polsi, magari muoio. Affogo dentro questo lavabo sporco di saliva, affogo. Ora, mi buco le vene e muoio anche io. Sono pronto, non ho più una ragione. Ma non lo faccio. Mi asciugo la faccia, e prendo il telefono. Mi arrivano tre chiamate, non rispondo.

Non è il nome giusto.
Respiro, a tratti.
Ma respiro.
Cammino, a fatica, ma cammino.

Arrivo giù, ho la forza di fare le scale, posso farcela.

Sono io, ce la posso fare.

Arrivo in garage, entro in macchina, resisto.
Stringo i denti, resisto. Esisto.

Non mi chiedono nulla, mia madre non parla. Non respiro.

Guardo da finestrino quella natura che si muove, attorno a me, senza sentimenti. Gli alberi non provano dolore, gli alberi non parlano, gli alberi non amano. Voglio essere un albero. Troncatemi.

Respiro, apro il finestrino e respiro. Lasciatemi in mezzo alla strada, vi prego.

Lasciatemi.
Non reagisco.
Ma respiro.

Il mio telefono suona, non lo sento. Non voglio sentirlo, odio quella musica. Odio tutto. Odio il mondo. Odio la mia vita. Quella musica mi entra dritta nei timpani, diventerà sordo, entra nel mio cervello e scoppia, stavamo bene quella sera, quella musica ci faceva stare bene. Divento sordo, i miei mi vedranno sanguinare, non faranno nulla. Niente. Morirò ascoltando quella nostra musica.

Sarò un corpo morto anche io, in una bara bianca. Sarò un'anima peccatrice, ma sarò anima.

Premo il verde del telefono. Non parlo, Daniel parla, «Dove sei?» non rispondo. Non riesco a parlare. Tremo, la mia mano trema, il mio corpo sussulta. Incubo, è solo un incubo. Svegliatemi.

Mi scende una lacrima, non la sento. La mia guancia si bagna, brucia, il sale mi brucia la pelle. Voglio fumare, fumare la vita, i miei ricordi. La mancanza mi divora. Eccola la fossa dei leoni, eccoli i ricordi, eccoli che mi divorano. Mangeranno i pezzi di me, senza pudore, senza ritegno, come cafoni morderanno fino all'ultimo strappo. Non mi lasceranno tregua, e Ranny riderà, continuerà a ridere, sarà quello il ricordo più crudele, più carnivoro, quello che mi farà l'anima a brandelli: il suo sorriso.

Ranny.
Sarà la droga e l'antidoto dei miei anni di merda. Del mio futuro da cocainomane mancato.

La voce nel telefono continua a parlare, soffoca dietro una cornetta, parla. Parla senza senso, non l'ascolto, non ci riesco. Muoio dentro la mia mano, come quella voce rotta nel telefono.

Tremo, continuo a tremare.

Sto morendo, o sto sognando?
Sto sognando, adesso qualcuno mi verrà a svegliare a dirmi che sono una gran testa di cazzo, che dormo sempre.
Ma nessuno lo fa, «Scendiamo, siamo arrivati» ecco cosa ricevo, il biglietto dell'Inferno.

Un edificio bianco, e verde. Un edificio di merda.
Chiudo la portiera, non cammino. Non ho la forza.
Mia mamma si gira, trattiene le lacrime. Il mio sguardo vuoto la guarda, fissa. Guarda dentro quegli occhi marroni, guardo dentro la mia somiglianza. Continuo a fissare il vuoto dentro due occhi marroni, il vuoto della vecchiaia e del dolore che la corrode, il vuoto di una maternità anticipata e riuscita male.

Respiro, sono fermo e respiro.
Cammino, cammino piano. Sento il mio corpo sempre più pesante, più inutile.
Era lì il dolore.
L'epicentro del terremoto.

C'era la mia vita che tremava, scossa da una morte silenziosa.
Come un sussurro.
Il tuo ultimo sussurro, Ranny.

Un sussurro spezzato nella notte. Contro un albero muto, che non ti ha nemmeno abbracciato. Non ha asciugato quelle lacrime dolorose.

Non ha rapito il tuo dolore, Ranny.

Così ti sei chiuso dentro di te, dentro il tuo guscio di dolore e sei esploso.
Senza supplicare preghiere di nessuno.
Senza chiamare nessun Dio.
Senza chiamare me.
Mi hai troncato, Ranny.
Mi hai spezzato.
E i tuoi ricordi mi tappano la bocca per non urlare.

Non ti avrei salvato.

Non ho potuto mangiare il tuo dolore. Ero troppo sazio del mio.

Ma, giuro sul bene che ti voglio, che sarei esploso insieme a te. Avrei vomitato anche il tuo dolore, Ranny.

Avrei mangiato anche i resti della nostra vita.

Avrei voluto regalarti luce.

Quella speranza che si affievoliva la notte dentro la tua mente.

Quella camera era deserta, non c'era famiglia. Non c'era nessun Dio che potesse salvarti.

Il deserto si era impossessato di te, stavi seccando. Seccavi mentre cercavo di annaffiarti con le mie stesse lacrime.

Il dolore non può innaffiare un dolore.
Lo rende solo più grande. Più pesante.
Quel guscio fragile non avrebbe mai potuto reggere.

Aspettavi solo il momento.

Ranny, non riesco a camminare. Continuo a rimanere fermo sulla porta e non posso piangere.
Mi sento morire.
E la cosa più straziante è che non morirò.

***

Questo è un capitolo un po' vecchio, è un grido di dolore. La scrittura è diversa, ma spero arrivi dritta al petto come uno spasmo di dolore.

Il mood degli ultimi giorni non mi aiuta a scrivere e questo era il momento adatto per tirare fuori queste poche parole.

Scusate la lunga attesa.

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