3. La vendetta è un piatto da servire al mattino. Appena svegli.
La mia prima vittima, la mattina seguente, fu Christopher.
Ero già seduta al bancone della cucina, le mani avvolte attorno alla mia tazza di caffè caldo, mentre fuori dalla finestra appena aperta il sole iniziava lentamente a salire, illuminando le onde dell'oceano con riflessi dorati. L'aria sapeva di salsedine e dell'aroma confortante del caffè appena fatto. Mi stavo godevo quel momento di quiete quando lo sentii arrivare.
Chris entrò trascinando i piedi, i capelli scompigliati come se avesse combattuto contro un uragano nel sonno, la bocca aperta in uno sbadiglio così grande che per poco non gli inghiottiva la faccia intera. Gli occhi semiaperti, cerchiati di scuro, erano la prova inconfutabile che lui, Ben e Nick erano rientrati tardi la notte prima. Sospirai con finta compassione. L'effetto post-serata brava lo aveva colpito in pieno, e ora pagava le conseguenze.
Lui e suo fratello gemello avevano compiuto diciotto anni da poco. Se il diploma non era stato un problema, il vero scoglio era arrivato dopo: altre due rette universitarie da pagare. Gli zii erano stati chiari fin da subito. Nessuna estate di puro cazzeggio. E così, con una resistenza che ormai si era sgretolata sotto l'inflessibilità della logica adulta, Chris si era ritrovato a lavorare come animatore in un campeggio locale, circondato da orde di ragazzini urlanti. Lo capivo dalla smorfia impressa sul suo viso ancora assonnato: non era entusiasta di svegliarsi presto per quella che doveva sembrargli una tortura quotidiana. Ben, invece, aveva trovato un impiego molto più in linea con i suoi ritmi notturni: cameriere in un bar piuttosto conosciuto qui a Charleston, con un turno che iniziava molto più tardi. Decisamente più strategico.
La zia era già uscita per raggiungere una delle sue gallerie d'arte, lasciandomi con la promessa che nel pomeriggio avremmo passato un po' di tempo insieme. Lo zio, invece, era ancora in casa, ma per poco. Aveva avviato una scuola di surf molti anni addietro e, con il turismo che Charleston attirava grazie alle sue onde mozzafiato, il suo lavoro stava andando a gonfie vele. Sapevo che amava profondamente quello che faceva, e ogni volta che parlava delle sue lezioni traspariva tutto il suo entusiasmo.
Chris mi passò accanto con un movimento pigro e mi scompigliò i capelli, un gesto automatico che non mancava mai di infastidirmi – o almeno, a lui piaceva pensare che fosse così. Io mi limitai a sbuffare mentre lo osservavo avvicinarsi alla macchinetta del caffè e versarsi una tazza enorme, arrivando pericolosamente vicino da farla traboccare. Poi, con un'aria teatrale da condannato, si lasciò cadere sullo sgabello accanto al mio, quello più vicino alla grande finestra che dava sul giardino e sull'oceano.
Lo seguii con la coda dell'occhio mentre allungava una mano verso il barattolo dello zucchero che avevo lasciato alla sua portata di proposito. Cercai di mantenere un'espressione impassibile quando infilò il cucchiaino dentro e ne versò nel caffè almeno quattro zollette abbondanti, convinto di addolcirlo abbastanza da rendere la giornata meno amara.
Io, invece, sapevo la verità.
Trattenni un sorriso mentre aspettavo il momento in cui avrebbe dato il primo sorso.
Chris girava il cucchiaino nella tazza con una lentezza esasperante, lo sguardo ancora annebbiato dal sonno fisso su di me, come se stesse cercando di decifrare qualcosa. Le sopracciglia leggermente aggrottate tradivano un vago sospetto, ma la sua mente impastata dal torpore non gli permetteva ancora di collegare i pezzi.
Mi limitai a sorseggiare il mio caffè, fingendo di ignorare il modo in cui mi stava studiando. Sapevo che nel profondo qualcosa gli diceva che c'era sotto un inganno, ma la sua fiducia cieca nella routine mattutina – e la sua disperata dipendenza dalla caffeina – lo rendevano vulnerabile.
«Cos'hai da guardare?» domandai infine, con un tono innocente, portando la tazza alle labbra per nascondere il sorrisetto che premeva per uscire.
Chris sbadigliò di nuovo, stiracchiando le braccia sopra la testa prima di tornare a fissarmi con aria torpida. «Non lo so...» mugugnò. «Di solito quando sei così silenziosa è perché stai combinando qualcosa.»
«Chris, sono le sette del mattino» ribattei con un'alzata di spalle. «Non tutti sentono il bisogno di avviare un dibattito appena svegli.»
Lui sbuffò, passandosi una mano tra i capelli scompigliati prima di appoggiare i gomiti sul bancone e sospirare con pesantezza. Poi prese la tazza, la avvicinò al naso e si concesse un respiro profondo, assaporando l'aroma del caffè come se fosse il nettare degli dèi.
Io, nel frattempo, trattenevo a stento il fiato.
Fu in quel momento che lo zio Wes entrò in cucina, già pronto per la giornata con indosso la muta da surf ancora umida dal giorno prima e l'abbronzatura tipica sulla pelle. I capelli spettinati gli cadevano sulla fronte, e qualche goccia d'acqua gli scivolava lungo la mascella, segno che si era sciacquato il viso in tutta fretta prima di uscire. Con il passo rilassato di chi è abituato a vivere tra le onde, si avvicinò alla macchinetta del caffè, muovendosi con la naturalezza di chi segue un rituale quotidiano.
Lo vidi allungare la mano verso la caraffa.
Dovevo fermarlo.
Con discrezione, sollevai leggermente la mano e gli rivolsi un cenno impercettibile, scuotendo appena la testa. I nostri occhi si incrociarono per un breve istante: le sue sopracciglia si incresparono in una smorfia di confusione, poi l'intuizione gli illuminò lo sguardo. Si fermò, scrutandomi con un misto di curiosità e divertimento.
Il sorriso che gli sfiorò le labbra diceva tutto. Aveva capito che stavo orchestrando qualcosa ai danni di suo figlio.
Con un sorrisetto complice, sollevò le mani in segno di resa e si allontanò con un'alzata di spalle. «Va bene, va bene, posso farne a meno» mormorò con un tono divertito, lanciando una rapida occhiata a Chris, ancora ignaro, intento a girare il cucchiaino nella tazza come se fosse l'unica cosa a tenerlo in piedi in quel momento.
Poi, senza aggiungere altro, mi rivolse un lieve cenno del capo, una tacita buona fortuna, e si diresse verso la porta.
«Ci vediamo dopo, ragazzi» disse, prima di sparire fuori, lasciando dietro di sé solo l'odore di salsedine e il suono distante delle onde che lo chiamavano.
Finalmente Chris portò la tazza alle labbra e prese un lungo sorso.
Il tempo sembrò rallentare. Per un istante, il suo viso rimase impassibile. Poi, all'improvviso, gli occhi si spalancarono e l'intera espressione mutò in un'esplosione di puro orrore. Tossì violentemente, sputando il caffè nel lavandino con uno strillo soffocato.
«MA CHE CAZZO!»
Chris si piegò in avanti, stringendosi la gola come se avesse appena ingerito lava fusa. Il suo respiro diventò affannoso mentre spalancava la bocca, cercando disperatamente di alleviare la sensazione di bruciore che si stava diffondendo come un incendio nella sua gola.
Io, nel frattempo, scoppiai a ridere, incapace di trattenermi. Mi lasciai cadere contro lo schienale della sedia, piegandomi in due mentre il suono delle mie risate riempiva la cucina.
«COSA DIAVOLO HAI MESSO QUI DENTRO?!» urlò, la voce roca e strozzata, mentre si lanciava verso il rubinetto e apriva l'acqua a tutta forza. Si chinò e iniziò a sciacquarsi la bocca ripetutamente, sputando tra un'imprecazione e l'altra.
«Oh, solo un po' di peperoncino come promesso» risposi con noncuranza, asciugandomi le lacrime dagli occhi per il troppo ridere.
Chris si girò di scatto verso di me, con gli occhi iniettati di sangue e le labbra leggermente gonfie per il piccante. «Mi hai avvelenato!» esclamò, ansimando.
Alzai il dito medio con un sorrisetto soddisfatto. «Uno su tre.»
Lui mi fissò per un attimo, ancora con il petto che si alzava e si abbassava per lo shock. Poi, come se un dubbio improvviso gli fosse balenato in testa, si voltò di scatto verso il barattolo dello zucchero.
Lo afferrò con foga, lo aprì e ficcò un dito dentro, portandoselo subito alla bocca.
E fu in quel momento che capì.
Chris rimase immobile per un secondo. Poi il disgusto si dipinse chiaramente sulla sua faccia mentre sputava nuovamente tutto nel lavandino, tossendo con ancora più foga di prima.
«Sal-?!» Si interruppe per un colpo di tosse. «HAI MESSO IL SALE NELLO ZUCCHERO?!»
Scossi la testa con fierezza, incrociando le braccia. «Ovviamente no, idiota. Ho solo cambiato le etichette. Non potevo limitarmi al peperoncino.»
Chris si passò entrambe le mani sul viso, come se cercasse di cancellare l'orrore di quell'esperienza. Poi scosse la testa, ancora incredulo. «Tu sei malata» borbottò con voce roca.
«No», replicai con un sorrisetto. «Sono solo creativa. Magari lo terrai a mente la prossima volta che vi verrà in mente di mettere le mani sulle mie cose.»
Lui mi lanciò un'occhiata assassina, poi sbuffò e controllò l'orologio. Quando si rese conto che era in ritardo, imprese un'ultima lotta contro il sapore infernale che gli era rimasto in bocca, prendendo un bicchiere d'acqua e scolandolo tutto d'un fiato.
«Dannazione, devo andare» disse infine, gettando un'ultima occhiata disperata alla caraffa del caffè avvelenato. «E dovrò affrontare la giornata insieme a quei ragazzini con la bocca in fiamme e il sapore di mare in gola. Ti odio.»
«Lo so.» Gli sorrisi dolcemente, agitando le dita in un saluto. «Buon divertimento con i piccoli demoni.»
Chris si avviò verso la porta, ma prima di uscire si voltò un'ultima volta. Il suo sguardo era ancora carico di indignazione, ma le sue labbra si piegarono in un mezzo sorriso.
«Devo ammetterlo» disse con un sospiro rassegnato. «Vendetta ben eseguita.»
«Non ci si improvvisa geni del crimine» risposi con un'alzata di spalle. «È stato un piacere.»
Chris rise piano, poi scosse la testa e uscì, lasciandomi sola in cucina, ancora soddisfatta della mia piccola e primavittoria.
Il sole di metà mattina scaldava la mia pelle in modo piacevole mentre ero distesa sulla sdraio a bordo piscina, con un libro tra le mani e un sorrisetto compiaciuto che mi aleggiava sulle labbra. Il fruscio leggero delle pagine era l'unico suono che mi accompagnava, insieme al canto sommesso delle cicale e al dolce sciabordio dell'oceano in lontananza. Il profumo di cloro si mescolava alla brezza salmastra che proveniva dalla spiaggia, rendendo il momento ancora più perfetto.
Erano quasi le undici.
L'ora giusta.
Abbassai leggermente il libro e lanciai un'occhiata alla casa, osservando con attenzione la porta d'ingresso. Un brivido di eccitazione mi percorse la schiena mentre attendevo il gran finale della mia seconda vendetta. Dopo che Chris era uscito per andare a lavorare, mi ero intrufolata nel garage con la precisione e la furtività di un agente segreto. Avevo impiegato quasi un'ora, ma il risultato era un capolavoro degno di un artista. La macchina di Ben era ora completamente ricoperta di carta stagnola, ogni centimetro della carrozzeria avvolto in uno strato argenteo che scintillava sotto il sole cocente. Il cofano sembrava un'enorme palla da discoteca, gli specchietti e le maniglie erano completamente spariti sotto l'involucro riflettente, e persino le ruote erano state avvolte con una meticolosità quasi maniacale.
Ma il vero colpo da maestro era all'interno.
Mentre rovistavo nella soffitta quella stessa mattina, avevo trovato alcune vecchie scatole piene di coriandoli di carnevale, probabilmente dimenticate da anni. E quale miglior modo per usarli se non rovesciarli tutti nell'abitacolo della macchina di Ben? Avevo svuotato interi sacchi colorati su sedili, tappetini, cruscotto, persino nelle fessure dell'aria condizionata. Qualsiasi cosa avesse fatto, sarebbe stato impossibile liberarsene del tutto.
Ora non restava che aspettare.
Poco dopo, sentii la porta di casa aprirsi e chiudersi con un tonfo deciso. Senza alzare troppo la testa, sollevai lo sguardo dal libro, giusto in tempo per vedere Ben scendere i gradini del portico con la sua solita camminata rilassata. Indossava jeans chiari e una maglietta nera aderente, le maniche arrotolate fino ai gomiti. I suoi capelli, molto più lunghi di quelli di Chris, erano ancora un po' scompigliati dal sonno, e il modo in cui si passò una mano tra le ciocche mentre sbadigliava mi fece sorridere.
Era identico a suo fratello, almeno fisicamente. Stessa altezza, stessi lineamenti, stesse espressioni. Ma c'era da sempre qualcosa di più spavaldo in lui, un'aria più rilassata, quasi sfacciata, che rendeva semplice distinguerlo.
Lo seguii con lo sguardo mentre raggiungeva la sua macchina.
Tre... due... uno...
«PORCA TROIA!»
Il suo urlo squarciò la pace della mattina come un tuono improvviso.
Trattenni una risata e abbassai lentamente il libro, fingendo sorpresa mentre lo vedevo impietrito davanti alla sua auto completamente incartata nella stagnola. La sua espressione era a metà tra l'incredulità e il puro orrore, gli occhi sgranati mentre ruotava la testa in cerca di un colpevole.
Poi, con un'espressione ancora più esasperata, tirò la maniglia della portiera e aprì l'auto.
Fu in quel momento che accadde la magia.
Un'esplosione di coriandoli lo travolse in pieno, come una pioggia di colori che sembrava non finire mai. Partirono dal sedile, dal cruscotto, persino dall'aria condizionata, creando un turbine caotico di minuscoli frammenti di carta che gli si incollarono ai capelli, ai vestiti, al viso.
Rimase fermo per un lunghissimo secondo, con la bocca semiaperta e le braccia sollevate, come se il suo cervello stesse cercando disperatamente di elaborare ciò che era appena successo.
Poi tossì.
Sputò un paio di coriandoli.
E lentamente abbassò lo sguardo verso il disastro che lo circondava.
A quel punto non ce la feci più.
Un'ondata di risate mi travolse e mi lasciai andare completamente, ridendo così forte da dover appoggiare il libro sul petto per non farlo cadere.
«ANNE!» ruggì lui, facendo qualche passo indietro mentre cercava inutilmente di scrollarsi i coriandoli di dosso.
Mi sollevai leggermente sulla sdraio, incrociando le braccia dietro la testa con un sorrisetto soddisfatto. «Oh, buongiorno, Ben. Tutto bene?»
Mi lanciò un'occhiata carica d'odio. «Ti rendi conto di quello che hai fatto?»
«Oh sì» risposi con un sorriso ancora più largo. «Ed è bellissimo.»
«La mia macchina sembra... sembra... un dannato cartoccio di patatine!» indicò la carrozzeria scintillante con un gesto esasperato. «E l'interno... santo cielo, Anne! Sembra che ci sia esploso un unicorno dentro!»
Scrollai le spalle, fingendo noncuranza. «Sai, dicono che porti fortuna.»
Si passò una mano tra i capelli, facendo volare altri coriandoli che rimasero sospesi per un momento nella luce del sole. Poi sospirò profondamente, il che mi fece intuire che stava cercando disperatamente di trovare un po' di pazienza dentro di sé.
Alla fine, scosse la testa con una smorfia rassegnata.
«Sai una cosa?» disse, incrociando le braccia sul petto. «Lo ammetto, è stato un colpo ben giocato.»
Sollevai un sopracciglio. «Lo dici sul serio?»
«No.» Indicò la macchina con un gesto vago. «Ora però tu mi aiuti a pulire.»
Mi alzai lentamente dalla sdraio, mi stiracchiai con indolenza sotto il sole e poi, con un sorriso malizioso, mostrai anche a lui il dito medio. «Due su tre.»
Ben mi fissò per qualche secondo, probabilmente cercando di decidere se fosse il caso di strangolarmi subito o rimandare la vendetta a un momento più opportuno. Poi sospirò ancora, scompigliandosi i capelli ormai ricoperti di coriandoli.
«Sei un incubo» borbottò, scuotendo la testa. «E me la pagherai cara.»
«Vedremo.»
Si girò verso la macchina, borbottando tra sé e sé mentre cercava di liberare almeno il parabrezza dalla stagnola.
Lo osservai per un altro istante, godendomi il suo sconforto, poi tornai a sdraiarmi con un sorriso soddisfatto.
Due su tre.
Ora non restava che il gran finale.
L'odore di sugo appena preparato si mescolava a quello del pane caldo, creando un'atmosfera accogliente nella cucina illuminata dalla luce del sole. Seduta al bancone con il mento appoggiato sulla mano, osservavo mia zia mentre tagliava meticolosamente i pomodori, il grembiule legato in vita e i capelli raccolti in un elegante chignon spettinato. Era tornata da poco ed era già immersa nella preparazione del pranzo, muovendosi con la grazia e la precisione di chi aveva passato una vita tra fornelli e tele da pittura.
«Quindi Ben ha davvero accettato la sua sconfitta?» chiese, gettando i pomodori nella padella con un sorrisetto divertito.
Mi strinsi nelle spalle, facendo scorrere le dita lungo il bordo del bicchiere d'acqua davanti a me. «Più o meno. Diciamo che è ancora troppo impegnato a raccogliere coriandoli per pensare a una vendetta.»
Mia zia scosse la testa ridendo. «Non so chi sia peggio tra voi. Siete come quattro bambini in guerra.»
«Oh, fidati, non è finita» dissi con noncuranza, mentre un brivido di attesa mi percorreva la schiena. Avevo già messo in atto due vendette magistrali, ma la terza... quella sarebbe stata il colpo di grazia.
E proprio in quel momento, come se il destino avesse voluto premiarmi per la mia perfetta tempistica, un urlo lacerante risuonò dal piano di sopra, così forte che i muri della casa sembrarono vibrare.
«AAARGH! COSA DIAVOLO-?!»
La zia si bloccò di colpo, il coltello ancora sospeso a mezz'aria sopra il tagliere. I suoi occhi si spalancarono e il colore sembrò drenare dal suo viso mentre il grido si trasformava in un fiume di imprecazioni disperate.
«Oh mio Dio» sussurrò, posando il coltello sul bancone con un gesto rigido. «Nick!» chiamò, girandosi di scatto verso le scale. «Va tutto bene?!»
Io, nel frattempo, mi morsi il labbro per trattenere la risata che minacciava di esplodere. Appoggiai una mano sul braccio di mia zia, cercando di rassicurarla.
«Tranquilla, zia, non sta morendo.»
Lei mi guardò con sospetto. «Anne, cos'hai fatto?»
Non ebbi il tempo di rispondere, perché in quel momento un rombo di passi fece tremare il pavimento e Nick apparve in cima alle scale, i capelli ancora bagnati e un'espressione di puro orrore sul viso.
Ma il dettaglio più importante?
I suoi capelli non erano più neri.
Erano completamente blu.
E non un blu qualsiasi, ma un blu intenso, elettrico, quasi fluorescente, che contrastava in modo assurdo con il colore naturale delle sue sopracciglia. Il colore si era esteso fino alla pelle del viso e del collo, creando delle sfumature azzurrastre che lo facevano sembrare un cosplayer di qualche creatura marina.
Nick scese le scale di corsa, quasi inciampando negli ultimi gradini, e si fermò di fronte a noi con il respiro affannoso, gli occhi fuori dalle orbite.
«Che diavolo mi hai fatto?!» ruggì, agitando una ciocca sgocciolante davanti ai miei occhi.
A quel punto non ce la feci più.
Scoppiai a ridere, piegandomi in avanti con una mano sulla pancia, mentre la zia portava una mano alla bocca, tra l'incredulo e il divertito.
«Oh mio Dio» mormorò lei, studiando suo figlio come se fosse un'opera d'arte moderna. «Sei... sei blu.»
Nick spalancò le braccia, il viso contorto in una smorfia di frustrazione. «DAVVERO?! NON ME NE ERO ACCORTO!»
«Calmati, Puffo arrabbiato» dissi tra le risate, cercando di recuperare fiato.
Nick mi fulminò con lo sguardo. «Cos'hai fatto al mio shampoo?!»
«Oh, solo un piccolo esperimento di colorimetria» risposi con innocenza, facendo oscillare le gambe sotto lo sgabello. «Sai, la zia usa delle vernici meravigliose per dipingere... e io ho pensato: perché non testare una nuova tecnica di body painting?»
Nick sembrava sul punto di esplodere. Indicò la sua testa con un gesto frenetico. «Questa è vernice?!»
«Esatto.»
«Ma non è lavabile?!»
Mi fermai un attimo, inclinando la testa. «Mh, dipende dalla quantità.»
Mia zia si passò una mano sul viso per nascondere un sorriso, mentre Nick impallidiva sotto lo strato bluastro che gli copriva la pelle.
«ANNE!» urlò di nuovo, con un tono tra il disperato e l'omicida.
Io sollevai le mani in segno di resa. «Dai, dai, calmati. Non è permanente. Più o meno.»
Nick fece un respiro profondo, cercando palesemente di non perdere completamente il controllo. «Dimmi che c'è un modo per toglierlo.»
Feci finta di pensarci, tamburellando le dita sul bancone. «Be', potresti provare a strofinare con aceto e bicarbonato...»
Lui inarcò un sopracciglio.
«...o semplicemente accettare il tuo nuovo look e diventare la mascotte ufficiale della famiglia.»
Nick chiuse gli occhi per un lungo secondo, probabilmente contando mentalmente fino a dieci per non strozzarmi. Poi si girò verso sua madre con una supplica silenziosa.
Lei si limitò a scuotere la testa, divertita. «Direi che questa volta te lo sei meritato.»
Nick spalancò la bocca. «Tu stai dalla sua parte?!»
«Non sto dalla parte di nessuno» rispose lei con un sorriso. «Ma ammetto che è stata una trovata piuttosto creativa.»
Nick gemette, passandosi di nuovo le mani tra i capelli ormai intrisi di vernice. Alcune gocce azzurre gli colarono lungo il collo, rendendolo ancora più simile a un alieno appena uscito da un fumetto.
Io, nel frattempo, mi appoggiai allo schienale con aria soddisfatta, sollevando tre dita.
«Tre su tre» dichiarai con fierezza.
Nick mi fissò con un'intensità tale da farmi quasi temere per la mia vita. Poi puntò un dito accusatorio contro di me.
«Non finisce qui» promise, la voce bassa e minacciosa.
Io gli rivolsi un sorriso radioso. «Non vedo l'ora.»
E con questo, la guerra era ufficialmente dichiarata.
Seduta a tavola la stessa sera, ero stufa di sentirmi osservata.
Non era solo una mia impressione: i miei cugini mi fissavano con un odio talmente intenso che, se avessero avuto il potere di incenerirmi con lo sguardo, a quest'ora sarei stata ridotta in cenere sopra la mia sedia. Era quasi divertente, se non fosse stato per l'aria di vendetta che aleggiava nell'aria.
Spiluccavo la cena da almeno quindici minuti, senza trovare il coraggio di infilzare un boccone con la forchetta. Non perché non avessi fame - lo stomaco brontolava leggermente da un po'- ma perché dopo lo scherzo di stamattina a Chris, non potevo escludere che qualcuno avesse deciso di farmela pagare. E conoscendo i miei cugini, quel qualcuno poteva essere chiunque seduto a quel tavolo.
In teoria, la cena l'aveva preparata mia zia. In pratica, dopo lo scherzo con il peperoncino a Chris quella mattina, non escludevo che avesse deciso di farmela pagare a modo suo. Magari senza esagerare, giusto un tocco di spezie in più per vedere se mi riducevo come la mia prima vittima. L'idiota numero uno, Chris, aveva ancora un leggero rossore sulle guance e le labbra più gonfie del solito. Anche se tentava di mantenere un'espressione impassibile, non potevo fare a meno di notare il modo in cui ogni tanto inumidiva le labbra, come se bruciassero ancora. Era stato uno spettacolo vederlo correre in cucina con la bocca in fiamme, e la sua espressione quando aveva scoperto che avevo pure scambiato lo zucchero con il sale era stata un capolavoro.
L'idiota numero due, Ben, aveva passato l'ora prima di cena con l'aspirapolvere in mano, ripulendo tutti i coriandoli che gli erano piovuti addosso nella trappola che gli avevo teso. Aveva insistito per ripulire tutto da solo, probabilmente per non dover rispondere a domande scomode degli zii, ma anche per convincermi di non essere più in pericolo. Cosa che, ovviamente, non era vera.
E poi c'era Nick. L'idiota numero tre.
Non aveva ancora toccato cibo. Era seduto con le braccia incrociate e uno sguardo carico di astio, che sembrava promettere vendetta nel modo più doloroso possibile. I suoi capelli erano ancora di un blu acceso, mentre la sua pelle assumeva certe sfumature azzurrine che, sotto la luce della sala da pranzo, lo facevano sembrare un personaggio di un cartone animato. Un effetto esilarante per me, ma sicuramente umiliante per lui.
Peccato che il colore stesse già sbiadendo grazie ai rimedi di mia zia.
Gli zii, intanto, continuavano a lanciarsi occhiate preoccupate. Era evidente che fossero combattuti tra l'intervenire e il lasciare che ce la sbrigassimo da soli. Alla fine, però, sembravano aver deciso per la seconda opzione, nella speranza che nessuno perdesse un occhio prima del dessert.
Io, intanto, mi stavo annoiando.
Ero qui da appena ventiquattr'ore e già desideravo tornare a casa mia. Non che fossi entusiasta di stare qui, ma il livello di tensione in quella casa era tale da rendere ogni pasto una potenziale zona di guerra. Mi serviva almeno un altro giorno per scoprire quali trappole stavano preparando e trovare un modo per colpirli prima.
Con un sospiro rassegnato, decisi di rischiare e allungai la forchetta per prendere un boccone dal piatto.
Fu in quel momento che Chris si sporse leggermente in avanti, piantandomi gli occhi addosso con un sorriso soddisfatto.
«Se fossi in te, non lo farei.»
Mi irrigidii, poi mi fermai a mezz'aria, stringendo gli occhi. «E perché mai?»
Lui si appoggiò allo schienale della sedia, incrociando le braccia e allargando un sorriso che non prometteva nulla di buono.
«Diciamo solo che potresti scoprire di avere un'inaspettata intolleranza al piccante.»
Merda.
Nick sbuffò, scuotendo la testa. «Dovresti saperlo, ormai. Nessuno esce mai indenne da una guerra con noi.»
Gli lanciai uno sguardo scettico, cercando di mascherare la preoccupazione che mi stava salendo. Quindi ci avevano davvero messo qualcosa? Il pensiero che il mio piatto fosse stato sabotato mi fece esitare. Se avessi lasciato stare, avrebbero pensato di aver vinto. Se invece avessi mangiato e fosse stato davvero condito con qualcosa di infernale, mi sarei ritrovata nella stessa situazione di Chris stamattina.
E nessuna delle due opzioni mi andava a genio.
«Tranquilli» dissi con un sorriso che speravo apparisse sicuro, appoggiando lentamente la forchetta nel piatto, «non ho intenzione di abbassare la guardia.»
«Bene» replicò Chris, con un sorrisetto. «Perché questa è solo l'inizio.»
Ben annuì, divertito. «Dovresti aspettarti un'intera settimana di sorprese.»
«Oh, ne sono sicura.» Feci scivolare il piatto più in là, incrociando le braccia. «E ora ditemi, geni del crimine, chi di voi ha cucinato?»
Ci fu un attimo di silenzio. Un brevissimo, impercettibile momento di esitazione in cui i miei cugini si scambiarono uno sguardo.
Poi Nick, con estrema calma, disse: «Nostra madre.»
Questa volta fui io a restare in silenzio. E non perché non credessi a quella risposta, ma perché se davvero era stata mia zia a cucinare, allora la possibilità che il mio piatto fosse stato manomesso si riduceva drasticamente.
Ma c'era ancora un dettaglio da chiarire.
«E chi ha servito i piatti?»
Silenzio.
Ben si voltò a guardare Chris. Chris si voltò a guardare Nick. Nick sorrise.
Ah.
Ricambiai il sorriso, inclinando la testa. «Quindi siete stati voi.»
«Non possiamo né confermare né smentire» ribatté Chris, con un sorrisetto colpevole.
Alzai un sopracciglio. «Volete sapere una cosa?»
«Cosa?»
Mi alzai con estrema calma, prendendo il mio piatto tra le mani. Con una lentezza esasperante, mi avvicinai al lato opposto del tavolo e, prima che potessero reagire, lo posai con un tonfo proprio davanti a Chris.
«Buon appetito.»
Lui rimase a fissare il piatto come se fosse esplosivo. Ben soffocò una risata, mentre Nick scosse la testa.
«Se pensate di vincere» dissi con un sorriso trionfante, «vi sbagliate di grosso.»
Gli zii avevano osservato la scena in silenzio fino a quel momento, ma era evidente che la loro pazienza fosse agli sgoccioli. Mia zia Joy posò con un tonfo il bicchiere d'acqua sul tavolo e si schiarì la voce, attirando l'attenzione di tutti.
«Ora basta!» esclamò, lanciandoci uno sguardo tagliente. «Siete ridicoli! Vi rendete conto di come vi state comportando?»
Mio zio Wes annuì, incrociando le braccia. «Sembra di stare in un asilo» aggiunse con tono esasperato. «E voi quattro siete i bambini più insopportabili che abbia mai visto.»
Chris fece per ribattere, ma lo zio lo bloccò con un solo sguardo. «Nessuna scusa. Nessuna giustificazione. Avete passato l'intera giornata a farvi dispetti come dei mocciosi, e adesso pure durante la cena! Non se ne può più.»
«Ma zio-» provai a dire, sperando almeno di potermi difendere, ma lui sollevò una mano, fermandomi con un gesto secco.
«Niente ma, Anne. Capisco che questi tre non siano facili da gestire, ma anche tu hai passato il segno.»
Quelle parole mi colpirono più di quanto avrei voluto. Non era la sgridata in sé a darmi fastidio - ero abituata a riceverne, soprattutto dai miei genitori - ma il fatto che venisse da lui. Mio zio era sempre stato il mio punto di riferimento, la persona con cui potevo ridere e confidarmi, quello che mi difendeva quando gli altri adulti erano troppo rigidi. Sentire la sua voce dura e severa, senza il solito tono complice, mi fece bruciare lo stomaco più di qualsiasi altra cosa.
Mi ritrassi sulla sedia, incrociando le braccia in un gesto ostinato, ma dentro di me sentivo una stretta fastidiosa. Mi sforzai di non abbassare lo sguardo, anche se la tentazione era forte.
Lui mi fissò ancora per qualche secondo, poi si voltò verso gli altri. «E lo stesso vale per voi tre» aggiunse, indicando Chris, Nick e Ben con un gesto esasperato. «Siete stati insopportabili per tutta la giornata. È ora di finirla.»
Chris sbuffò, ma non replicò. Nick continuava a fulminarmi con lo sguardo, e Ben si limitò a far scorrere la forchetta nel piatto, come se sperasse di diventare invisibile.
«Quindi ecco come stanno le cose» riprese la zia, appoggiandosi ai gomiti sul tavolo. «Finita la cena, vi voglio vedere tutti e quattro collaborare per sistemare la cucina. E se sento un solo litigio, un solo battibecco, domani mattina vi alzate all'alba per pulire il garage.»
Chris, Nick e Ben si scambiarono uno sguardo allarmato. Conoscevamo tutti fin troppo bene lo stato in cui versava il garage degli zii: scatoloni ovunque, polvere accumulata negli angoli, ragnatele che sembravano uscite da un film dell'orrore.
«Tutto chiaro?» incalzò mio zio.
Ci fu un coro di mormorii poco convinti, ma evidentemente per loro non era abbastanza.
«Vostro padre vi ha chiesto: tutto chiaro?» ripeté la zia con un tono che non ammetteva repliche.
«Sì», rispondemmo all'unisono, anche se con poco entusiasmo.
Mia zia annuì soddisfatta. «Bene. Adesso mangiate e comportatevi da persone civili.» Poi mi lanciò uno sguardo. «Mangia, Anne, il tuo piatto non ha nulla che non va. Ho controllato io stessa.»
Proprio in quel momento, sentii vibrare il mio telefono in tasca. Lo ignorai, pensando fosse qualche notifica inutile, ma poi squillò di nuovo.
Lo presi e guardai il display. Tornai a respirare.
Papà.
Mi alzai di scatto, quasi facendo cadere la sedia, e mi affrettai a scusarmi con gli zii. «Mi dispiace, è papà» mormorai, dirigendomi verso il portico senza aspettare una risposta.
L'aria fresca della sera mi colpì appena uscii, e presi un respiro profondo prima di premere il tasto verde sullo schermo.
«Pronto?» dissi con un filo di voce.
Dall'altra parte ci fu un attimo di silenzio, poi la voce di mio padre risuonò chiara.
«Anne.»
Un brivido mi percorse la schiena. C'era qualcosa nel suo tono che mi mise subito in allerta. Non era arrabbiato, né particolarmente freddo... ma neanche affettuoso. Sembrava distante, quasi esitante.
Stringendo il telefono con più forza, mi appoggiai alla ringhiera del portico. «Che succede?»
Lui sospirò. «Dobbiamo parlare.»
Quando tornai a tavola, il mio umore era decisamente peggiorato. Sentivo il cuore martellarmi nel petto e una sensazione di vuoto nella pancia, che non aveva nulla a che fare con la fame. I miei zii capirono subito che qualcosa non andava: bastò uno sguardo al mio viso teso, alle mie spalle irrigidite, alle mie mani che si stringevano nervosamente sul bordo della sedia.
«Anne, tutto bene?» chiese mia zia, inclinando leggermente la testa.
Aprii la bocca per rispondere, ma mi sentii attraversare da una nausea improvvisa, come un pugno nello stomaco. Deglutii a fatica e poi, con un respiro profondo, dissi loro quello che mi aveva appena comunicato papà.
«Un pezzo della nostra casa a Miami non è più agibile.» La mia voce uscì piatta, quasi distaccata, come se non stessi parlando di qualcosa che mi riguardava. «L'uragano Thalia ha fatto più danni del previsto e adesso lui e mamma partiranno nei prossimi giorni per valutare l'entità del disastro.»
Un silenzio pesante calò sulla tavola. Sentii il tintinnio di una forchetta posata contro il piatto e lo sguardo preoccupato dei miei zii su di me.
«Oh merda...» Mio zio parve sconvolto dalla notizia.
Ma non bastava. Perché quella non era nemmeno la parte peggiore.
«Il che significa che, con ogni probabilità, dovrò rimanere qui per tutta l'estate.»
Lo dissi in tono secco, quasi tagliente, come se pronunciandolo potessi rendere la cosa meno reale. Ma dentro di me si accese una scintilla di rabbia impotente. La mia smorfia si fece ancora più marcata quando realizzai il vero peso di quelle parole: due mesi interi a Charleston. Due mesi bloccata in questo paesino soffocante, con gente che a malapena conoscevo, e peggio ancora, con i miei cugini che mi avrebbero reso la vita impossibile. Due mesi di ripicche, di vendette, di scherzi che sarebbero stati portati avanti fino allo sfinimento.
Mi sentii persa. Spaesata.
Questa, dopotutto, era anche casa mia. C'ero cresciuta, ci avevo passato tante estati. Ma non era mai stata la mia veracasa. Io rivolevo indietro la mia vita. Le mie spiagge, i miei amici, i miei locali. L'estate che avevo immaginato sarebbe stata piena di feste al tramonto, di serate passate con le persone che conoscevo da sempre, di giornate di sole sulla sabbia bollente. E magari - solo magari - di qualche momento passato accanto a quel ragazzo che a Miami mi aveva rubato il cuore. Ethan.
Invece, ero bloccata qui.
Sentii un groppo in gola che non voleva andare via.
«Mi dispiace davvero tanto, tesoro» disse mia zia, cercando di confortarmi. «So quanto tenessi a passare l'estate a Miami.»
Annuii senza dire niente. Le parole di conforto non servivano. Non avrebbero ricostruito la mia casa, non avrebbero cambiato il fatto che ero intrappolata qui, con l'unica prospettiva di sopravvivere ai miei cugini e alla loro sete di vendetta.
E poi c'era la casa.
L'idea che una parte di essa fosse stata distrutta mi spezzava il cuore. Ogni parete, ogni stanza conteneva un pezzo della mia infanzia, di quello che ero stata e di quello che ero diventata. Il salotto dove mamma e papà mi leggevano le storie prima di dormire, la mia camera con i poster appesi ovunque, la cucina dove rubavo i biscotti ancora caldi dal forno... Com'era possibile che un uragano avesse spazzato via tutto?
Chiusi gli occhi per un istante, cercando di non pensare troppo. Ma più cercavo di ignorare la sensazione di impotenza, più mi sentivo soffocare.
«Non posso nemmeno partire con loro» aggiunsi, più per sfogarmi che altro. «Papà dice che Miami non è ancora del tutto sicura e che sarebbe troppo rischioso per me.»
Ero furiosa. Perché non potevo decidere da sola? Perché dovevo solo accettare passivamente quello che gli adulti avevano deciso per me? Volevo solo sbattere la testa contro il muro per la frustrazione.
Ma a che sarebbe servito?
Alla fine, tutto quello che potevo fare era accettare l'inevitabile. Mi aspettavano due mesi a Charleston. Due mesi con i miei cugini, due mesi di sguardi in cagnesco e battaglie continue.
Forse, se ero fortunata, l'uragano non mi avrebbe risparmiato e sarebbe venuto a prendermi direttamente qui.
Mia zia si portò una mano al petto, come se le fosse appena mancato un battito. Poi si voltò verso mio zio, scambiando con lui un'occhiata carica di preoccupazione.
«Vado a chiamare Aiden» gli disse alla fine, con un filo di voce.
Si alzò dalla sedia senza aggiungere altro e uscì dalla stanza, sparendo nel corridoio. Sapevo che avrebbe parlato con lui a lungo, che avrebbe cercato di rassicurarlo come faceva sempre, e che probabilmente avrebbe insistito per sapere ogni dettaglio che mio padre ancora non mi aveva rivelato.
Rimasi a tavola con i miei cugini e mio zio. Il silenzio si allungò per alcuni secondi, pesante come una cappa sopra di noi.
Poi Ben sbuffò, incrociando le braccia sul petto.
«Quindi ora sei bloccata qui tutta l'estate?» domandò, come se non avesse già sentito chiaramente la risposta.
Chris emise un gemito esasperato e si lasciò cadere contro lo schienale della sedia.
«Fantastico» commentò con sarcasmo. «Come se non bastasse quello che hai combinato oggi.»
Nick non disse nulla, ma si limitò a guardarmi con il solito sguardo torvo, le braccia ancora incrociate e i capelli ancora blu. Gli occhi gli lanciavano saette, come se tutto questo fosse in qualche modo colpa mia.
Mi strinsi nelle spalle, senza la forza di rispondere. Non avevo energia per ribattere, per litigare, per lanciare frecciatine come al solito. Ero troppo scossa per preoccuparmi delle loro lamentele.
Mio zio sospirò, massaggiandosi le tempie con le dita.
«D'accordo, basta così» disse con un tono di voce stanco, ma fermo. Poi puntò lo sguardo su Ben e Chris. «Portate vostra cugina con voi stasera.»
Entrambi lo fissarono come se avesse appena detto la cosa più assurda del mondo.
«Cosa?!» protestò Ben. «Papà, non puoi essere serio!»
«Non possiamo portarci dietro Anne!» aggiunse Chris, puntandomi un dito contro. «Ha appena detto che preferirebbe morire piuttosto che stare con noi per tutta l'estate!»
Beh, tecnicamente l'avevo solo pensato.
Mio zio li guardò con aria severa. «Anne ha bisogno di distrarsi. Ha appena saputo che la sua casa ha subito danni gravi, che i suoi genitori devono partire e che rimarrà qui per due mesi. Pensate davvero che lamentarvi come bambini la aiuterà?»
Ben e Chris si scambiarono un'occhiata. Nessuno dei due voleva cedere, lo si vedeva chiaramente, ma sapevano anche che discutere con il loro padre era inutile. Quando prendeva una decisione, era quella e basta.
«Dai ragazzi» insistette lui. «Portatela fuori. Fatevi un giro, fate qualcosa insieme. È vostra cugina, santo cielo.»
Alla fine, Ben fu il primo a cedere.
«Va bene» borbottò, alzando gli occhi al cielo. «Ma se finisce nei guai, non è colpa nostra.»
Chris sbuffò, ma si arrese anche lui. «Okay, okay. Ma solo perché vogliamo bene allo zio Aiden.»
Mio zio annuì, soddisfatto, poi mi guardò. «E tu, Anne? Che ne dici?»
Sapevo che probabilmente avrei dovuto dire di no. Che in un momento come questo, forse la cosa migliore sarebbe stata starmene in camera, sotto le coperte, a far scorrere i pensieri finché non mi si fossero chiusi gli occhi per la stanchezza.
Ma la verità era che in quel momento non volevo pensare. E sapevo che, uscendo con loro, almeno avrei avuto la possibilità di bere qualcosa.
«Va bene» risposi, con un filo di voce. «Vengo.»
Nick sbuffò con impazienza, mentre mio zio mi accarezzò la guancia in un gesto fugace prima di andarsene e di raggiungere sua moglie, lasciandomi sola con i miei cugini.
«Io da qui non mi muovo finché questo schifo di blu non sarà sparito del tutto» annunciò Nick, scrutando i suoi capelli con disgusto e strofinando le dita sulle macchie azzurre ancora incollate alla pelle.
«Problemi tuoi» replicò Ben, alzandosi dalla sedia senza nemmeno degnarsi di guardarlo.
Nick gli lanciò un'occhiata gelida. «Cercate di non fare cazzate.» Poi puntò un dito nella mia direzione. «E tenetela d'occhio.»
Ben scoppiò a ridere, senza un briciolo di preoccupazione. «Ma dai, non ha cinque anni.»
Nick strinse la mascella. «È comunque sotto la nostra responsabilità. E vedete di stare lontani dalle gare.»
Sollevai lo sguardo, incuriosita. «Quali gare?» chiesi, ma lui mi ignorò completamente, mantenendo il suo broncio minaccioso rivolto a Ben.
«Cristo, ma sei serio?» sbottò Ben, incrociando le braccia. «Oltre a farle da babysitter, ora vuoi pure dirmi dove posso andare? Stasera iniziano le gare di ammissione, Nick!»
«Sì, ma non è un posto per lei» ribatté Nick con una freddezza tagliente. «Dannazione, Ben! Hai mai provato a usare il cervello?»
Ben sospirò, scocciato. «Fanculo.» E senza aggiungere altro, se ne andò.
Chris si alzò a sua volta e mi scrutò con aria critica, ma sulle sue labbra aleggiava un sorriso sornione.
«Spero tu sappia reggere l'alcol» disse con un tono leggero, quasi divertito.
Nick lo fulminò con lo sguardo. «Se dovesse succederle qualcosa, ve la vedrete voi con zio Aiden.»
Chris sollevò le mani in segno di resa. «Tranquillo, fratellone. Nessuno vuole morire male.» Poi mi fece un cenno con il mento. «Va' a prepararti.»
Rimasi ferma, il cuore che mi batteva più veloce per una sensazione che non sapevo definire. Fissai Nick con ostinazione. «Quali gare?» ripetei, più decisa.
Lui si voltò lentamente verso di me, gli occhi scuri come una tempesta in arrivo.
«Sta' lontana dai guai» disse, prima di uscire e lasciarmi da sola.
Rimasi immobile per un istante, poi scossi la testa, esasperata.
In quel momento, non mi importava di Nick, né delle sue minacce velate. L'unica cosa che volevo era spegnere i pensieri, almeno per qualche ora.
Non avevo idea di come fossi finita in quella situazione, né di come lo zio fosse riuscito a convincermi a uscire quella sera. Invece, i gemelli, avevano una capacità quasi ipnotica di persuadermi senza nemmeno aprire bocca, ed io, puntualmente, cadevo nella loro rete come una stupida. Quegli sguardi ammaliatori erano il mio punto debole. Li odiavo, i miei cugini. Li odiavo con tutto il cuore, specialmente ora che, dopo avermi trascinato in questo posto dimenticato da Dio, si erano volatilizzati, lasciandomi completamente sola.
Mi ritrovai in mezzo alla calca, intrappolata tra corpi che si muovevano troppo vicini, ad assistere ad una gara clandestina di auto, un evento che nemmeno mi interessava. Il rombo dei motori e le urla della gente mi assordavano, ma a irritarmi davvero era l'assenza del mio solito pacchetto di sigarette. Mi tastai con smania la gonna in jeans, cercandolo inutilmente. Ovviamente non c'era. Questo era sicuramente un colpo basso di Nicholas, il più grande dei tre fratelli e senza dubbio il più odioso.
Mio cugino, con quell'aria da ribelle e il carattere chiuso e introverso, era sempre stato la mia spina nel fianco sin da bambini. Il suo passatempo preferito era mettermi in imbarazzo o rendermi la vita un inferno. Diceva che era il suo modo di dimostrarmi affetto. Una grandissima stronzata, se chiedete a me. Eppure, quella sera, nonostante il suo stile di vita spericolato, si era opposto con una fermezza quasi paterna alla mia partecipazione. "Non è il suo posto," aveva detto ai gemelli.
E forse, per una volta, aveva ragione.
Ma dargliela vinta? Mai. Indossando la gonna più corta che avevo trovato nell'armadio – probabilmente roba di quando avevo quattordici anni – mi ero infilata in macchina con Ben e Chris, ignorando le minacce di Nicholas di raccontare tutto a mio padre. E ora ero qui, in questo caos infernale, cercando di non impazzire dopo la notizia che papà mi aveva dato quella sera. L'odore pungente di birra e alcol stagnava nell'aria, mescolandosi al fumo di sigarette e all'odore acre della gomma bruciata sull'asfalto. Intorno a me, ragazzi già mezzi ubriachi ridevano sguaiatamente, le loro voci impastate e invadenti, mentre ragazze in abiti ridotti si sporgevano sui cofani delle auto, ridacchiando con sguardi ammiccanti. Un gruppo di loro era accalcato vicino a una Mustang nera, i lunghi capelli sciolti che brillavano sotto le luci al neon.
Mi sentivo addosso troppi occhi. Occhi maschili, sfrontati, che indugiavano sulle mie gambe, sulla mia gonna troppo corta per un posto del genere. Il disagio mi strisciava sotto pelle come un insetto fastidioso, facendomi irrigidire. Incrociai le braccia al petto, cercando di ignorare gli sguardi che mi valutavano senza ritegno. Uno dei ragazzi, appoggiato a una Camaro, mi rivolse un sorriso storto, chiaramente convinto che lo avrei ricambiato.
Gli lanciai un'occhiata gelida, arricciando le labbra in una smorfia di disgusto. Ma quello non sembrò scoraggiarlo.
«Ti sei persa, bambolina?»
Strinsi la mascella, le dita chiuse a pugno lungo i fianchi. Il mio respiro uscì lento, controllato, mentre facevo un passo indietro, piantandogli addosso uno sguardo tagliente.
«Non chiamarmi così» ribattei con tono piatto, ma carico di avvertimento.
Lui rise, ma io non gli diedi nemmeno il tempo di aggiungere altro. Mi voltai, ignorandolo, e continuai a camminare tra la folla. Ogni tanto qualcuno mi urtava; l'alcol rendeva i loro movimenti lenti e scoordinati. La musica pompava dalle casse posizionate accanto a un'auto verde acceso, i bassi che vibravano nello stomaco.
Chi diavolo me l'aveva fatto fare? Ah sì, quei due idioti che mi avevano trascinata qui con la promessa di una serata tranquilla.
Dovevo trovarli. E dovevo farlo in fretta, prima di perdere la pazienza e iniziare a mandare tutti al diavolo.
Ma la serata prese una piega ancora più assurda quando TJ - un amico dei gemelli che avevo conosciuto per sbaglio l'anno prima - apparve all'improvviso. Il sorriso storto, illuminato dalle luci intermittenti della pista, mi fece rabbrividire. Non tanto per il suo aspetto, quanto per il modo in cui mi fissava, con quel ghigno che si allargava lentamente sulle labbra, studiandomi come se fossi già sua.
Un campanello d'allarme mi esplose in testa, e feci un passo indietro, cercando con lo sguardo Ben e Chris. Dove diavolo si erano cacciati? La folla attorno a me era troppo densa, troppo rumorosa, e dei miei cugini nessuna traccia. Il cuore mi martellava nel petto, e prima ancora che potessi dire qualcosa, sentii una stretta ferrea chiudersi attorno al mio polso.
TJ mi afferrò con troppa sicurezza e mi trascinò fuori dalla calca con una determinazione che non lasciava spazio a proteste.
«Ehi!» sbottai, strattonando il braccio per liberarmi. Ma il bastardo non mollava. Con una spinta decisa mi fece oltrepassare le transenne in modo maldestro, costringendomi a seguire il suo passo veloce.
«Vieni, piccola Evans» ordinò, la voce carica di un'autorità che mi fece ribollire il sangue. «Tu sei proprio il tipo di ragazza che cercavo.»
Piantai i piedi a terra, ma lui mi tirò con ancora più forza, facendomi inciampare per un attimo.
Che cazzo significava?
«Ma che cazzo...!» sbottai, dimenandomi per sfuggire alla sua presa. «Lasciami andare, stronzo!»
Lui rise, divertito, come se le mie proteste fossero solo un gioco. Il mio stomaco si attorcigliò, ma la rabbia prese il sopravvento sulla paura. Mi dimenai con più forza, colpendolo con il gomito nel fianco.
«Molla la presa, pezzo di merda!» ringhiai, ma era come lottare contro una cazzo di parete di cemento.
TJ continuò a camminare con passo deciso, ignorando i miei tentativi di resistenza, mentre la folla intorno a noi esplodeva in grida d'incitamento per la gara imminente. Nessuno sembrò fare caso a quello che stava succedendo. Nessuno sembrava preoccuparsi. Il che rendeva tutto ancora più inquietante.
Con il cuore in gola e il respiro affannato, scrutai freneticamente la folla, sperando di scorgere almeno uno dei miei cugini. Ma Ben e Chris erano spariti, inghiottiti da quel casino infernale. Merda.
TJ mi trascinò senza sforzo, senza nemmeno curarsi dei miei tentativi di divincolarmi. E quando finalmente ci fermammo, il mio respiro si bloccò. Era lì. L'auto più incredibile che avessi mai visto in vita mia. Bassa e slanciata, sembrava fatta per tagliare l'aria. La carrozzeria blu elettrico scintillava sotto i fari, riflettendo la luce come una lama. Sul cofano spiccavano prese d'aria che sembravano respirare potenza, e le ruote, con cerchioni neri lucidi e pneumatici larghi, le davano un'aria minacciosa, quasi predatoria.
Sgranai gli occhi lentamente attorno a quel capolavoro meccanico, ancora imprigionata nella stretta di TJ, incapace di distogliere lo sguardo. Sul retro, un enorme alettone sembrava promettere che quella macchina non avrebbe mai perso il controllo, nemmeno alla velocità della luce.
Il motore si accese con un ruggito che mi fece sussultare. Non era solo un suono: era una vibrazione che attraversava l'aria, insinuandosi sotto la pelle e dentro le ossa. Tremai d'eccitazione e paura. Una promessa di velocità, rischio e pura adrenalina. Sapevo che questa non era un'auto adatta alle strade comuni. Questa era una creatura nata per sfidare le regole, per gare dove tutto si gioca in pochi, interminabili secondi.
Poi i fari si accesero, due occhi accecanti che brillavano nella notte, ed io mi sentii inchiodata sul posto. Rabbrividii e il cuore mi arrivò in gola. Sapevo, dannazione se lo sapevo, che avrei trovato lui al volante. L'ultima persona con cui avrei voluto avere a che fare quella sera. Non gli avevo mai parlato, mai nemmeno sfiorato qualcosa che gli appartenesse, ma conoscevo bene la sua reputazione.
Era uno di quei ragazzi che non seguiva le regole – le creava. Era temuto e rispettato, ma io lo trovavo solo un ragazzino arrogante che si divertiva a giocare con il fuoco. Sentivo il suo sguardo bruciarmi addosso, una fiamma invisibile che mi penetrava sotto la pelle. Non so perché, ma le mani iniziarono a tremarmi. Quando finalmente i miei occhi si abituarono al bagliore dei fari e allo scintillio metallico della macchina, lo vidi.
Era al volante, il braccio tatuato appoggiato con noncuranza alla portiera aperta.
Ryan.
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