2. Tre idioti sulle scale
La porta si richiuse alle mie spalle con un lieve cigolio, e mi sentii come se stessi entrando in una dimensione diversa, dove tutto ciò che avevo lasciato indietro un anno prima mi aspettava, immutato e rassicurante. Un profumo familiare mi avvolse all'istante: lavanda, calda e delicata, mescolata al sottile sentore di vernice ad olio. Inspirai a fondo, lasciando che quell'aroma penetrasse nei miei polmoni, come se potesse scacciare via la pesantezza che mi portavo dietro da mesi.
Le pareti, dipinte di un azzurro pastello che ricordava il cielo al mattino, erano intervallate da pannelli bianchi che riflettevano la luce soffusa proveniente dalle finestre. Ogni dettaglio sembrava fatto per trasmettere calma, come se la casa fosse stata pensata per accoglierti e dirti che lì, in quel luogo, tutto andava bene. La luce dorata del pomeriggio filtrava attraverso le tende leggere, creando riflessi morbidi sul parquet lucido. Il pavimento scricchiolava leggermente sotto i miei passi, un suono che ricordavo perfettamente, e che mi dava la sensazione di non essere mai andata via.
Mi fermai, lasciando che i miei occhi percorressero lentamente l'ambiente. Notai subito i nuovi quadri. La casa, che era sempre stata piena di arte, ora sembrava quasi una galleria, con tele di ogni dimensione che adornavano le pareti. Mi avvicinai istintivamente al primo quadro che catturò la mia attenzione, e il cuore mi balzò in gola. Ero io. Ritratta di profilo, con un sorriso spontaneo, come se in quel momento non esistessero preoccupazioni. Aveva catturato una parte di me che non ricordavo più, una versione di me che sembrava appartenere a un tempo lontano.
Poco più in là, vidi altri volti familiari. Le pennellate delicate restituivano espressioni intense, sguardi colmi di vita, momenti rubati e impressi sulla tela con una cura che solo zia Joy poteva avere.
Ogni quadro sembrava raccontare una storia, e in ogni storia c'era una parte di noi, della nostra famiglia.
Mossi un passo avanti, quasi esitante, come temendo di disturbare la magia che aleggiava nella stanza. Gli oggetti sparsi qua e là, le piccole cose che ricordavo così bene – la ciotola di ceramica smaltata che avevo dipinto da bambina, il vecchio vaso di vetro con la lavanda fresca, i libri accatastati su un tavolino traballante – erano esattamente come li avevo lasciati. Eppure, tutto aveva qualcosa di nuovo, come se la casa fosse cresciuta e cambiata con me.
Arrivai al salotto, e un'ondata di calore mi attraversò. Il divano verde, con il suo plaid nuovo a righe bianche e gialle, sembrava più invitante che mai. Il tappeto a motivi floreali, consumato al centro ma ancora brillante ai bordi, raccontava di anni di passi, di risate, di momenti condivisi. E la luce, quella luce calda che sembrava avvolgere tutto, rendeva ogni dettaglio più vivo, più intenso.
Ero di nuovo a casa. Una casa che mi aveva sempre fatta sentire al sicuro, amata, protetta. Qui non c'era spazio per le ombre che avevo portato con me. Qui potevo respirare.
Mi persi in quei pensieri, lasciandomi avvolgere da quella sensazione di pace che non provavo da tanto, tantissimo tempo. Stavo quasi per muovermi verso il divano, per lasciarmi cadere e semplicemente assaporare quel momento, quando un suono spezzò l'incantesimo.
Un colpo di tosse. Discreto, quasi sommesso, ma abbastanza per attirare la mia attenzione. Sobbalzai leggermente e mi voltai di scatto verso destra, verso le scale. I gradini di legno si allungavano nell'ombra, e lì, nell'angolo dove la luce non arrivava, tre figure erano immobili, silenziosi, come se mi stessero aspettando. Appoggiati alla ringhiera come se fosse un trono improvvisato, avevano quell'aria di sufficienza che riusciva sempre a irritarmi. Se ne stavano lì, con le mani in tasca o incrociate al petto, come se fossero i protagonisti di un film d'azione messo in pausa. Il mondo intero sembrava ai loro piedi, almeno nella loro immaginazione, e i loro sorrisetti strafottenti facevano salire in me l'irrefrenabile impulso di tirar loro qualcosa.
Nicholas era, ovviamente, il leader del trio. Il più grande dei tre, ma più piccolo di sei mesi rispetto a me, compensava la differenza d'età con l'atteggiamento di chi crede di avere un vantaggio di anni luce. I suoi capelli scuri erano perennemente disordinati, non per mancanza di cure ma perché era semplicemente così: ribelle nel midollo. Quegli occhi profondi, quasi neri, mi fissavano con una scintilla di sfida, come se ogni nostra interazione fosse una gara che aveva intenzione di vincere. Anche il modo in cui se ne stava in piedi, leggermente inclinato di lato con il mento appena sollevato, urlava arroganza. Nicholas non parlava mai troppo, preferiva lanciare battute o insinuazioni, e il peggio era che lo faceva sempre con quel maledetto sorriso che sembrava dirti che aveva capito tutto di te.
Accanto a lui, i gemelli completavano il quadro. Benjamin e Christopher, i due biondi dagli occhi azzurri che sembravano usciti da una cartolina nordica, erano, almeno a prima vista, il lato più tranquillo e ragionevole della famiglia. Ma era un errore sottovalutarli. Benjamin aveva i capelli più lunghi, legati in un elastico che gli conferiva un'aria vagamente bohemien, come un artista che vive nel suo mondo. Tuttavia, la piega delle sue labbra tradiva un complice divertimento: stava chiaramente partecipando al teatrino di Nick. Christopher, invece, con il suo taglio più ordinato, era la copia leggermente più contenuta. Appariva calmo, riflessivo, il gemello "razionale". Ma bastava osservare il sopracciglio inarcato e il mezzo sorriso che condivideva con gli altri due per capire che la loro era un'alleanza perfetta.
Tre idioti sulle scale. E la cosa peggiore era che ci sapevano fare. Erano sincronizzati, come se avessero passato anni a studiarsi a vicenda. Nicholas al centro, dominante come sempre, con Benjamin alla sua sinistra e Christopher alla destra, quasi come un esercito pronto a lanciarsi in battaglia. Non c'era bisogno che parlassero: la loro postura e le loro espressioni erano già abbastanza eloquenti.
Non mi piaceva ammetterlo, ma insieme erano... potenti. Non per l'aspetto – anche se avevano ereditato i migliori tratti di entrambi i genitori, con Nicholas che assomigliava allo zio e i gemelli che sembravano usciti da una versione idealizzata di mia zia – ma per l'energia che sprigionavano quando stavano insieme. Come se fossero invincibili.
Nicholas inclinò appena il capo, e i suoi occhi incontrarono i miei. Un lampo di sfida attraversò il suo sguardo, e il suo sorriso si allargò di un millimetro, un movimento quasi impercettibile che però mi fece stringere i pugni. Lo conoscevo abbastanza bene da capire che aveva già in mente qualcosa. I gemelli lo seguirono come un'ombra, sollevando entrambi il sopracciglio in un gesto speculare, come se stessero aspettando che dicesse la prima parola.
Tre idioti sulle scale. Tre perfetti idioti mascherati da bravi ragazzi. E io ero certa che stessero tramando qualcosa. Ma, come sempre, non avrebbero avuto vita facile, non con me.
Alle mie spalle, lo zio sospirò platealmente, con una teatralità che mi strappò un sorriso. Lo osservai mentre incrociava le braccia al petto e inclinava la testa, fissando i suoi tre figli con un'aria severa che cercava, senza troppo successo, di mascherare un pizzico di divertimento. Ero sempre stata la sua preferita, nonostante non fossi figlia sua. Forse perché ero l'unica femmina in mezzo a tre maschi ingestibili e arroganti, e lui aveva sempre avuto una naturale inclinazione a difendermi da loro. Tuttavia, con il tempo avevo imparato a farlo da sola, pagando a caro prezzo questa capacità.
Nonostante tutto, volevo bene ai miei cugini. Da piccoli erano un uragano di disastri, e ora che erano cresciuti, quei tratti si erano trasformati in un'irriverenza che non riuscivano proprio a domare.
«Allora, scendete o devo venire io a tirarvi giù uno per uno?» annunciò mio zio con quel tono calmo e fermo che sapeva farsi rispettare senza bisogno di urlare.
Dalla cucina fece capolino la zia Joy, grembiule ancora addosso e un mestolo stretto in mano come se fosse una spada. Con uno sguardo che sembrava in grado di incenerire, il suo famoso "sguardo da sergente" – un tratto che aveva in comune con mio padre – si rivolse ai figli.
«Se non siete qui entro due secondi, potete scordarvi l'uscita di stasera. E domani vi sveglio all'alba per aiutarmi in giardino.»
Chris e Ben si scambiarono uno sguardo rassegnato, ma divertito. Sapevano bene che la madre non faceva mai promesse a vuoto.
«Va bene, va bene, stiamo arrivando» borbottò Chris con un lungo sospiro teatrale, un talento di famiglia, a quanto pare.
La zia sollevò un sopracciglio, incrociando le braccia e inclinando la testa in una perfetta imitazione dello zio. «Avete due gambe lunghe, usatele. E muovetevi!»
Non potei trattenere una risata mentre osservavo quella scena familiare. Era una piccola guerra quotidiana, ma era anche il cuore della casa: caotico, rumoroso, e pieno d'affetto.
Alla fine, i tre fratelli si mossero, scendendo i gradini con l'aria di chi stava marciando verso una condanna ingiusta. Nick era in testa, come al solito, il suo passo lento e misurato quasi teatrale, come se volesse ricordare a tutti che era lui a dettare i tempi. I suoi occhi scuri scintillavano di quella tipica arroganza che gli apparteneva da sempre, mescolata a una calma glaciale che gli dava un'aria pericolosa. Dietro di lui, Chris e Ben camminavano fianco a fianco, con il solito atteggiamento da "bulli del quartiere" che probabilmente intimidiva metà della popolazione femminile, ma che con me non aveva mai funzionato.
Ben fu il primo ad aprire bocca. Si fermò proprio davanti a me, con le mani infilate nelle tasche dei jeans e un sorriso storto che sembrava studiato per far innervosire chiunque. «Eccoci qua, Annie. Tutto bene? O dobbiamo preoccuparci che un altro anno senza di noi ti abbia lasciato con un vuoto esistenziale?»
Mi sforzai di non ridere. Ben aveva quel talento innato per rendersi simpatico e insopportabile nello stesso momento, ma ormai conoscevo troppo bene i suoi trucchi. Incrociai le braccia al petto, alzando un sopracciglio. «Oh, sì, Ben. Non dormo da mesi pensando a quanto mi manchi il tuo senso dell'umorismo da quarta elementare.»
Chris si avvicinò subito dopo, appoggiandosi alla ringhiera con un gesto esageratamente teatrale, come se la sola fatica di scendere le scale fosse stata insostenibile. «Ah, quindi hai sentito la nostra mancanza» commentò con un sorrisetto, ignorando volutamente il sarcasmo nella mia risposta. «Immagino che passare un anno tra spiagge e feste a Miami non sia stato abbastanza per dimenticarti di noi poveri mortali.»
Alzai gli occhi al cielo, ma non potei fare a meno di sorridere. Chris era il più giocoso dei tre, sempre pronto a lanciare frecciatine ma senza mai prendersi troppo sul serio. «In effetti» replicai con tono tranquillo, «Miami è un posto fantastico. Sole, mare, persone che non ti fanno venire voglia di lanciarti dalla finestra... Sai com'è.»
La risata di Ben risuonò forte, e lui si diede una pacca sulla spalla, divertito. «Touché. La nostra cuginetta ha imparato a usare le parole come armi. Nick, forse dovresti preoccuparti.»
Fu allora che Nick intervenne. Si era fermato qualche passo indietro, osservando la scena con il solito sguardo distaccato, come se fosse troppo al di sopra di tutto per partecipare. Ma quando parlò, il tono della sua voce era tagliente e carico di ironia. «Quindi, la reginetta di Miami si è degnata di farci visita. Ti hanno stancato le spiagge e i cocktail, o sei stata costretta con la forza a fare questa discesa agli inferi?» Per un attimo, lo zio si schiarì la voce, chiaramente pronto a intervenire e mettere fine alle provocazioni, ma lo fermai con un cenno della testa. Non avevo bisogno di un salvatore. Quella battaglia era mia.
Mi girai verso Nick, incrociando il suo sguardo con fermezza. «Hai ragione, è stata una decisione sofferta» replicai con calma, incrociando le braccia e guardandolo dritto negli occhi. «Ma sai, pensavo che un po' di tempo con voi potesse ricordarmi come ci si sente a essere circondata da egocentrici arroganti.»
Chris e Ben scoppiarono a ridere, dandosi spintoni come due bambini. «Questa è buona» disse Chris, ridacchiando. «Ben, credo che stia parlando di te.»
«Oh no, stavolta parlava di te, fratellino» ribatté Ben con una smorfia.
Nick, invece, non rise. Si limitò a socchiudere gli occhi, osservandomi con un'intensità che mi mise leggermente a disagio, anche se non lo avrei mai ammesso. Alla fine, si lasciò scappare un sorriso appena accennato, un gesto così sottile che avrei potuto quasi pensare di essermelo immaginato. Poi fece un piccolo cenno del capo, come a dire che avevo passato la prova.
«Interessante» mormorò, facendo un passo avanti. «Forse questa vacanza sarà meno noiosa di quanto pensavo.»
«Oh, non sarà noiosa per me» ribattei, inclinando la testa e mantenendo il contatto visivo. «Non c'è niente di più divertente che metterti al tuo posto.»
Prima che Nick potesse ribattere, la zia Joy fece la sua comparsa al mio fianco. Aveva le braccia incrociate e un'espressione così severa che sembrava in grado di mettere in riga chiunque, figuriamoci i suoi tre figli. Il suo sguardo passò da uno all'altro come una lama affilata, e anche il più arrogante dei tre sembrò vacillare per un istante sotto il peso della sua autorità.
«Nick, Chris, Ben» iniziò con una calma che risultava più intimidatoria di un urlo, «se non smettete immediatamente di provocare vostra cugina, mi sentirete urlare così tanto che perderete l'udito prima ancora di prendere il prossimo respiro.»
I tre si bloccarono all'istante, come bambini colti sul fatto mentre combinavano qualcosa di proibito. Chris incrociò le braccia con fare difensivo, Ben fece una smorfia a metà tra il divertito e il rassegnato, e Nick alzò gli occhi al cielo con una lentezza esasperante, quasi volesse dimostrare di non aver paura di lei, anche se il lieve irrigidimento delle spalle lo tradiva.
Io osservai la scena trattenendo a stento un sorrisetto. Mi faceva piacere che qualcuno finalmente mettesse quei tre al loro posto, ma cercai di mantenere un'espressione neutra per non alimentare ulteriormente la tensione.
«Va bene, mamma» borbottò Ben per primo, alzando le mani in segno di resa con un mezzo sorriso che cercava di smorzare la situazione. «Non c'è bisogno di farne un dramma.»
La zia Joy si limitò a sollevare un sopracciglio, come se la sua pazienza stesse per esaurirsi. «Perfetto. Vai in cucina, ci sono dei piatti da lavare.»
Ben sospirò, infilò le mani in tasca e si avviò verso la cucina con un'andatura volutamente pigra, lanciandomi un'occhiata teatrale mentre passava accanto a me. «Sissignora» mormorò con voce annoiata, cercando chiaramente di suscitare una reazione da parte mia.
Io mi limitai a scrollare le spalle con un sorrisetto ironico, guardandolo sparire oltre la porta.
La zia Joy seguì il gemello con lo sguardo, poi si rivolse a Chris. «Quanto a te, c'è da spazzare il marciapiede e portare fuori la spazzatura. Non voglio vedere nemmeno un granello di polvere.»
Chris sbuffò appena, ma alla fine fece un cenno con la testa. «Va bene, va bene, sto andando.» Si avviò verso l'uscita con passi pesanti, chiaramente seccato, ma prima di uscire si voltò e mi lanciò un'occhiata complice, accompagnata da un sorriso storto che sembrava dire: Ti sei salvata per ora, ma non è finita qui.
Rimasi immobile, le braccia incrociate, e gli restituii uno sguardo altrettanto deciso, facendo capire che non mi sarei fatta intimidire.
Infine, la zia inclinò il capo verso Nick, che nel frattempo si era messo ad osservare il padre come se cercasse una via di fuga.
«Devo finire di studiare» protestò con tono innocente, cercando palesemente di sfuggire alle sue responsabilità.
La zia non si lasciò ingannare neanche per un secondo. «Lo farai non appena avrai lavato le stanze al piano di sopra. Non preoccuparti, tesoro, se non hai tempo di studiare adesso, puoi sempre farlo stasera invece che uscire.»
Nick strinse la mascella, il nervosismo visibile in ogni linea del suo corpo. «Dai, mamma, non farmi questo.»
«Ognuno di voi ha dei compiti, Nicholas, e tu lo sai bene.»
«Ma...»
«Nick» intervenne lo zio con un tono che non ammetteva repliche, «se avessi iniziato cinque minuti fa, a quest'ora saresti già sui libri.»
Nick si passò una mano sul viso, visibilmente frustrato, e alla fine borbottò: «D'accordo.»
Prima di andarsene, però, si voltò verso di me e mi lanciò un ultimo sguardo, pieno di sfida.
Non abbassai lo sguardo. Al contrario, gli restituii un'occhiata altrettanto determinata, il mento appena sollevato, lasciando trasparire che ero pronta a qualsiasi cosa avesse in mente.
Nick piegò leggermente la testa, quasi come a riconoscere il mio coraggio, poi si girò e sparì lungo il corridoio.
La zia Joy sospirò, rilassandosi leggermente. «Questi ragazzi... non cambieranno mai» disse, scuotendo la testa con una piccola risata, prima di sparire anche lei seguita dallo zio.
Rimasi da sola nel corridoio per un momento, lasciandomi scivolare contro il muro con un misto di sollievo e divertimento. Certo, avevo tenuto testa a quei tre, ma ero sicura che fosse solo l'inizio. Conoscendoli, avrebbero trovato presto un modo per farmela pagare.
Poco dopo, con la testa che iniziava a martellarmi per il bisogno di nicotina, mi diressi verso la cucina, seguendo il rumore di piatti che venivano spostati e le voci di zia Joy e zio Wes che parlavano tra loro. Appena varcata la soglia, li trovai vicini al bancone: lei con le mani sui fianchi e l'aria di chi stava per esaurire le energie, lui appoggiato con nonchalance al piano dell'isola, il suo sguardo sereno ma penetrante fisso su di lei. Alle loro spalle, Ben era intento a sistemare stoviglie nella credenza, con un'espressione di sottile esasperazione, probabilmente già rassegnato al dialogo che stava per scaturire.
«Non so davvero come facciamo a sopravvivere con quei tre» sbottò zia, scuotendo la testa mentre un accenno di sorriso le sollevava gli angoli della bocca. C'era stanchezza, certo, ma anche quella luce che non la abbandonava mai, nemmeno nei momenti peggiori. «Nick sembra avere una missione personale: farmi venire un esaurimento nervoso.»
Dietro di lei, Ben simulò un colpo di tosse, alzando un sopracciglio. «Non dirglielo, mamma, o vedrai che non farà che aumentare il suo ego.»
Lei gli lanciò un'occhiata che avrebbe potuto fulminare un'intera folla, ma lui continuò imperterrito a sistemare i bicchieri, fingendo di ignorarla.
«Ammettilo» intervenne zio con un tono caldo e un sorriso che sembrava quasi accarezzarla, «in fondo ti piace tenerli in riga. È come un gioco.»
Lei alzò gli occhi al cielo, le mani sempre sui fianchi. «Un gioco? Oh sì, certo, perché discutere con tre adolescenti testardi e ribelli è esattamente ciò che sogno di fare ogni giorno.»
Lui rise piano, il suono profondo e contagioso. Poi si avvicinò a lei, allungando una mano per sfiorarle il braccio, un gesto così semplice e intimo che sembrava colmare la stanza. «Beh, forse averne tre non era nei nostri piani iniziali, ma ormai li abbiamo tra i piedi ancora per un po'.»
«Ehi!» protestò Ben con finta indignazione, facendo tintinnare i bicchieri per attirare la loro attenzione. «Pronto? Guardate che sono proprio qui, alle vostre spalle, e vi sento!»
Zia Joy ignorò il figlio e tornò a fissare il marito, il sorriso più pronunciato ma gli occhi stanchi. «E tu invece ti comporti da poliziotto buono. Ogni volta che provo a imporre un minimo di disciplina, arrivi con quel tuo sorrisetto e li salvi.»
Zio Wes sollevò le mani in un gesto di resa teatrale, ma i suoi occhi non lasciavano quelli di lei. «Sai che sono sempre dalla tua parte, Bunny.»
«Oh, certo» replicò lei, facendo un passo verso di lui, il tono mezzo scherzoso, mezzo esasperato. «Non pensare che non me ne accorga: sei bravissimo a fingere di essere d'accordo con me, ma sotto sotto li appoggi sempre.»
E fu in quel momento che tutto cambiò. Lui la guardò con un'intensità che sembrava annullare il resto del mondo, come se non esistessero né figli né rumori di piatti né ospiti alle porte. Gli angoli del suo sorriso si addolcirono, e con una lentezza che sembrava quasi una dichiarazione, sollevò entrambe le mani per prenderle il viso. «Forse. O forse mi piace guardarti mentre combatti contro di loro. Sei irresistibile quando sei arrabbiata.»
Ben emise un suono che assomigliava a un conato di vomito, ma né zio Wes né zia Joy lo notarono. Lui si chinò verso di lei e la baciò.
E non fu un bacio qualunque. Era lento, pieno di complicità e di anni condivisi, un gesto che raccontava tutto quello che le parole non potevano dire. Sembravano due innamorati al primo appuntamento, con la differenza che il loro amore era radicato in qualcosa di molto più profondo, un legame che il tempo non aveva fatto altro che rafforzare. I pollici di lui accarezzavano dolcemente le guance di lei, mentre zia Joy si rilassava contro di lui, le mani che salivano a stringergli le spalle come se non volesse mai lasciarlo andare. Come se lui fosse il suo tutto, il pilastro che la teneva in piedi.
Ben si voltò verso di me, alzando le mani al cielo con un'espressione esasperata. «Siamo per caso diventati invisibili?»
Io trattenni a stento una risata, ma non distolsi lo sguardo da loro. C'era qualcosa di magnetico, quasi sacro nel modo in cui si guardavano. Quando finalmente si staccarono, il viso di zio Wes si apriva in un sorriso malizioso, mentre quello di zia Joy arrossiva leggermente ma non distoglieva gli occhi dai suoi.
Lei ridacchiò piano, dandogli un colpetto leggero sul petto. «Sei proprio insopportabile, lo sai?»
Lui inclinò la testa, sfoggiando un sorriso che, ne ero certa, lo aveva reso irresistibile quando era più giovane. «Eppure mi ami comunque.»
«Cosa c'è di così divertente?» chiesi, la voce più sarcastica di quanto avessi previsto, mentre restavo ferma sulla soglia del soggiorno. Cercai di mantenere il controllo, ma il calore che mi saliva al viso tradiva il mio lieve imbarazzo.
Zia Joy e zio Wes si voltarono di scatto, interrotti nel mezzo della loro risata sommessa. Lei si aggiustò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, le guance appena arrossate, mentre lui si limitò a rivolgermi un sorriso tranquillo, quasi protettivo.
«Oh, tesoro, scusa se ti abbiamo trascurata!» esclamò zia, con la solita prontezza che usava quando cercava di salvare una situazione imbarazzante. Si avvicinò al bancone della cucina e sollevò la teiera con un gesto teatrale. «Vieni, siediti con noi. Ti preparo una tazza di tè, così ti rilassi un po'.»
Alle sue spalle, mio cugino Ben fece un gesto esasperato, spalancando le braccia come se fosse stato il grande escluso della giornata. «Ah, perfetto! Perché chiaramente io sono invisibile, giusto? Nessuno che si preoccupa di me e della mia salute mentale, grazie mille!»
Zia Joy lo fulminò con uno sguardo che non lasciava spazio a repliche, anche se un sorriso divertito le increspò le labbra. «I piatti, Ben. Ora. E se non li lavi, ti giuro che non vedrai la luce del sole per tutto il prossimo mese.»
Ben aprì la bocca per rispondere, ma poi ci ripensò e borbottò qualcosa tra sé, lanciandomi un'occhiata complice. Io, intanto, mi sforzai di sorridere per cortesia. «Passo, zia, grazie. Sono stanca... penso che andrò a stendermi un po'.»
Lei abbassò la teiera sul bancone e mi fissò con quegli occhi che sapevano leggermi dentro fin da quando ero bambina. Un'ombra di preoccupazione le attraversò il volto, ma annuì. «Va bene, Anne. Ma prima voglio dirti una cosa.»
Mi fermai, con una mano già sulla maniglia della porta, e la guardai curiosa.
«Finché starai qui, avrai dei compiti, proprio come i tuoi cugini» disse con quel suo tono che combinava dolcezza e fermezza. «Ti vogliamo bene, ma questa casa funziona così: niente trattamenti speciali.»
Alle sue spalle, Ben si girò verso di me con un sorrisetto soddisfatto, mimando un gesto di vittoria. Ignorandolo, annuii debolmente. «Capito, zia. Nessun problema.»
Zio Wes mi si avvicinò con la solita calma e afferrò una delle mie valigie. «Vieni, ti accompagno di sopra.»
Lo seguii lungo le scale, cercando di ignorare il rumore delle stoviglie che Ben spostava di malavoglia nel lavandino. La camera degli ospiti era esattamente come la ricordavo: le stesse pareti color panna, le mensole piene dei miei vecchi libri, il letto con la coperta a motivi floreali che aveva accompagnato tante notti estive della mia infanzia. Perfino l'odore era lo stesso, un misto di lavanda e qualcosa di più dolce, forse vaniglia.
«Sembra che la stanza ti abbia aspettata» osservò zio Wes, posando la valigia accanto al letto.
Mi guardai intorno, le dita sfiorando distrattamente il bordo della scrivania. «Sì, è come me la ricordavo» mormorai, più a me stessa che a lui.
Lui mi osservò per un lungo momento prima di parlare. «Più tardi ti va di scendere?» mi chiese, appoggiandosi con noncuranza alla porta. «Pensavo di fare un barbecue a bordo piscina. So che ti piaceva quando eri più piccola.»
Gli rivolsi un mezzo sorriso, lasciandomi cadere sul bordo del letto. «Va bene. Ma solo se cucini tu. Non mi fido di quei tre con quegli strumenti affilati tra le mani.»
Lui rise piano, ma c'era qualcosa nei suoi occhi che non combaciava con il tono leggero della conversazione. Si schiarì la gola, incrociando le braccia sul petto. «Anne...» iniziò, la voce più seria ora. «So che non è facile per te stare qui. Ma voglio che tu sappia che questa è casa tua, sempre. Non importa cosa succede là fuori o quanto tempo passi lontano. Noi siamo qui.»
Il suo sorriso era gentile, ma i suoi occhi raccontavano un'altra storia. Una storia di preoccupazione, forse di paura. Mi sentii colpevole, come sempre. L'estate scorsa me ne ero andata senza dire quasi niente, lasciandoli con troppe domande e nessuna risposta. E ora ero tornata, ma solo perché non avevo alternative.
Abbassai lo sguardo, tormentando l'orlo della maglietta tra le dita. «Mi dispiace» mormorai.
Ed era vero. Mi dispiaceva per loro. Ma dentro di me sapevo che il mio unico obiettivo era andarmene di nuovo, il prima possibile. Non appartenevo a questa casa, a queste persone che continuavano ad accogliermi a braccia aperte nonostante tutto e, soprattutto, non appartenevo a Charleston.
Zio Wes annuì lentamente, come se avesse intuito i miei pensieri. «Va bene, tesoro. Riposati un po'. Ma, se hai bisogno di parlare... io sono qui, okay?»
Mi sfiorò la spalla con un gesto affettuoso e uscì, chiudendo la porta dietro di sé.
Appena rimasi sola, mi lasciai ricadere sul letto, il corpo sprofondato tra le lenzuola fresche. Inspirai profondamente, ma l'aria sembrava non bastare a riempire i polmoni. Estrassi dalla borsa un pacchetto di sigarette e lo guardai per un lungo istante, come se stessi valutando se fosse il caso di lasciarmi andare a quella brutta abitudine. Ma la tentazione era troppo forte.
Con mani quasi tremanti, accesi una sigaretta, inspirando il fumo con avidità. Il sollievo fu immediato, un lento rilassamento che si diffuse in tutto il corpo.
Mi alzai e aprii la finestra, lasciando entrare l'aria fresca del pomeriggio.
Il giardino si stendeva davanti a me, luminoso e silenzioso, illuminato da un sole caldo che si rifletteva sulla veranda. Il vento muoveva piano le fronde degli alberi, e per un attimo mi parve di essere l'unica persona in tutta la città. Guardai il fumo della sigaretta dissolversi nell'aria, chiedendomi quanto tempo sarebbe passato prima che quella casa iniziasse a soffocarmi davvero.
Non sapevo esattamente quando mi fossi addormentata. L'ultima cosa che ricordavo era il peso della stanchezza che mi trascinava giù, gli occhi che si chiudevano da soli mentre il corpo si arrendeva alla lunga giornata. Ma quando li riaprii, la stanza era immersa in una penombra dorata, illuminata solo dai riflessi caldi del tramonto che filtravano attraverso le tende. Il cielo fuori sembrava in fiamme, un misto di arancione e rosa che si spegneva lentamente nel blu della notte imminente.
Mi sentivo stordita, come se fossi rimasta in un sonno troppo profondo o troppo leggero per essere davvero riposante. Sbattei le palpebre più volte, cercando di scacciare la nebbia dalla mente, poi mi tirai su a sedere con un lieve gemito. Le articolazioni erano pesanti, intorpidite, e i vestiti che indossavo erano ancora quelli con cui ero arrivata, stropicciati e scomodi sulla pelle. Almeno la testa aveva smesso di martellarmi, il che era già un progresso.
Sospirai, passandomi una mano sul viso prima di allungarmi verso il comodino. Lo schermo del telefono si illuminò all'istante, costringendomi a socchiudere gli occhi per il contrasto con il buio della stanza. Papà mi aveva scritto.
"Arrivato a Savannah sano e salvo."
Senza nemmeno accorgermene, presi un respiro profondo, come se avessi trattenuto l'aria fino a quel momento. Gli risposi con un semplice pollice alzato, poi passai al messaggio di mamma.
"Come stai, tesoro? Tra qualche giorno torno a casa."
Le scrissi una risposta veloce, cercando di ignorare il senso di vuoto che mi prendeva sempre quando ero lontana da loro. Avevo ventuno anni, non ero più una bambina, eppure a volte era difficile non sentirmi così.
Aprii distrattamente le notizie, scorrendo gli aggiornamenti su Thalia e su ciò che aveva lasciato dietro di sé a Miami. Più leggevo, più la tensione mi si arrampicava lungo la schiena. Foto di strade allagate, edifici distrutti, persone disperate. La realtà colpiva più forte attraverso lo schermo, e un nodo mi serrò la gola. Ingoiai a fatica, poi chiusi l'app e lasciai il telefono accanto a me.
Un suono attutito proveniente da fuori attirò la mia attenzione. Mi alzai, scivolando giù dal letto senza far rumore, e attraversai la stanza a piedi nudi fino alla finestra. Scostai la tenda, lasciando entrare un po' di luce dorata.
Giù nel giardino, vicino alla piscina, vidi mio zio che trafficava accanto a un enorme barbecue. Mia zia era seduta su una chaise longue al suo fianco, una birra in mano, le gambe incrociate e un sorriso rilassato sulle labbra mentre scherzava con lui. Sembravano due adolescenti alla loro prima cotta, e mi ritrovai a sorridere involontariamente.
Poco più in là, Ben e Chris si prendevano a spinte in piscina, ridendo e schizzandosi acqua addosso come due bambini. Si stavano sfidando in una gara di tuffi, anche se a vederli sembrava più un tentativo di annegarsi a vicenda.
Scossi la testa, divertita, poi lasciai andare la tenda e mi voltai per tornare sul letto.
E fu in quel momento che lo vidi.
Un'ombra nella penombra della stanza.
Il mio cuore fece un balzo nel petto, le mani si strinsero in automatico a pugno mentre la mia mente andava nel panico per un solo, lungo secondo. Poi i miei occhi si abituarono al buio, e il profilo di Nicholas prese forma.
Era lì, seduto sulla poltrona accanto alla porta con l'aria spaventosamente rilassata, una gamba accavallata sull'altra, il gomito appoggiato al bracciolo e la svapo tra le dita. Un filo di fumo si disperdeva pigro nell'aria.
«Ma sei impazzito?!» sbottai, portandomi una mano al petto mentre il cuore cercava di riprendersi dal micro-infarto. «Che diavolo ci fai qui?»
Lui sollevò lo sguardo su di me con una lentezza esasperante, come se la mia presenza fosse solo un fastidio marginale nella sua esistenza. Un angolo della sua bocca si sollevò in un accenno di sorriso arrogante.
«Ben svegliata, cuginetta.»
«Non mi hai risposto.» Strinsi gli occhi, incrociando le braccia al petto. «Da quanto tempo sei qui?»
Nicholas si prese tutto il tempo del mondo per inalare un altro tiro dalla sua svapo prima di rispondere.
«Abbastanza da sentire i tuoi versi strani mentre dormivi.»
Un'ondata di calore mi salì alla faccia. «Io non faccio versi strani nel sonno.»
Lui inclinò appena la testa, fingendo di riflettere. «No, hai ragione. Sembravano più... rumori da orso in letargo.»
Stringevo i denti così forte che se avessi potuto lo avrei lanciato fuori dalla finestra con la forza del pensiero.
«Non hai risposto alla domanda.»
Nicholas si alzò dalla poltrona con la solita eleganza rilassata, camminò nella mia direzione per poi gettare un ultimo sguardo alla finestra prima di puntare gli occhi scuri su di me.
«Dieci minuti, forse meno.»
Lo squadrai con diffidenza. «E io dovrei crederci?»
Lui fece un sorriso divertito, avvicinandosi appena. «Mi piace pensare che mi conosci abbastanza da sapere che se fossi stato qui per ore ti avrei almeno colorato la faccia.»
Lo fissai, incerta. La risposta ovvia era no, non lo conoscevo così bene da fidarmi ciecamente. Ma lo conoscevo abbastanza da sapere che, per quanto arrogante e insopportabile fosse, non era mai stato davvero stronzo con me.
Non del tutto, almeno.
«Strano, non ti facevo così premuroso.»
Lui fece spallucce, accennando un sorriso di sufficienza. «Che vuoi farci? Sono pieno di sorprese.»
«Sì, come un virus intestinale.»
Nicholas rise, scuotendo la testa. «Mi sei mancata, peste.»
E per un attimo, nella sua voce non c'era più traccia di ironia. Solo un leggero affetto nascosto sotto il sarcasmo.
Non risposi subito. Poi sollevai un sopracciglio. «Tu per niente.»
Lui ridacchiò, e passandomi accanto mi diede un colpetto leggero sulla testa, come se fossi ancora una bambina. «Andiamo, prima che i vecchi laggiù si accorgano che siamo spariti e vengano a stanarci.»
Arricciai il naso e lanciai un'occhiata alla sua svapo. «Me la fai provare? Ho quasi finito le sigarette e se apro la finestra gli zii vedranno il fumo.»
Nick si fermò a un passo dalla porta, poi si girò lentamente verso di me con un sorriso enorme sulle labbra. «Ancora con questa brutta abitudine? Non sei riuscita a smettere?»
Alzai gli occhi al cielo. «Tu sì, invece?»
«Non sono io quello che aveva giurato di farlo.»
Roteai di nuovo gli occhi. «Allora? Me la fai provare o no?»
Nick incrociò le braccia al petto con lentezza esasperante. «E cosa mi dai in cambio?»
«Era ovvio che avresti chiesto qualcosa. Non fai mai nulla per gentilezza.»
Lui sorrise di nuovo, inclinando appena la testa. «La gentilezza non è mai stato il mio forte.»
Sentii un'ondata di irritazione salirmi su per la gola. «Lavo i piatti per un mese.»
Lui trattenne una risata. «Troppo poco.»
Sbuffai. «Due mesi.»
«E fai anche i compiti che spettano a me.»
«Vaffanculo, Nick, no.»
«Allora scordatelo.» Scosse le spalle con aria indifferente e tornò a voltarsi verso la porta.
Lo fissai con il sopracciglio sollevato, mentre la frustrazione mi montava dentro. «Sei un pezzo di merda, lo sai?»
Nick si girò appena, con un sorrisetto compiaciuto. «Mi piace pensarmi più come un abile negoziatore.»
«Forse sei più come uno stronzo manipolatore.»
«Chiamala come vuoi.» Fece oscillare la svapo tra le dita, senza la minima fretta, come se sapesse già di aver vinto.
Strinsi le labbra. Non avrei ceduto. Non a lui. Non con le sue condizioni del cazzo.
Mi avvicinai e, senza distogliere lo sguardo dal suo, allungai una mano verso l'alto tentando di prendergliela, ma Nick fu più veloce: la sollevò ancora più in aria, fuori dalla mia portata.
«Davvero, Anne?» rise, scuotendo la testa. «Sei disperata fino a questo punto?»
Mi fermai un attimo. Aveva ragione? Forse. Ma piuttosto che dargliela vinta, piuttosto che pagare quel prezzo assurdo, avrei preferito rinunciare.
Raddrizzai la schiena e gli lanciai un'occhiata di sfida. «Sai che c'è? Tienitela.»
Lo sguardo di Nick si accese di sorpresa per un istante, poi il suo sorriso si allargò. «Wow. Chi l'avrebbe detto.»
Mi girai e andai dritta alla finestra. L'aprii e lasciai che l'aria fresca della sera entrasse nella stanza. Se non potevo fumare, almeno potevo respirare un po' meglio.
Dietro di me, sentii Nick ridacchiare mentre si infilava la svapo in tasca. «Sei proprio testarda, eh?»
Senza voltarmi, sollevai il dito medio. «E tu un cretino.»
La sua risata riecheggiò nella stanza mentre usciva.
Sospirai, cercando di scrollarmi di dosso il fastidio per quella conversazione, poi mi voltai verso la porta. Purtroppo, non avevo scelta: dovevo comunque seguirlo. Era ora di cena, e che mi piacesse o meno, avrei dovuto sedermi a tavola con lui.
Lo guardai uscire con la sua solita aria indolente, e non potei fare a meno di scuotere la testa con un sorriso appena accennato.
Nicholas era un cretino. Un presuntuoso. Ma, in fondo, era anche mio cugino. E se c'era una cosa che sapevo, era che nei momenti importanti c'era sempre stato.
Anche se ammetterlo gli avrebbe dato troppa soddisfazione. Infatti, non l'avrei mai fatto.
La cena si svolse in un'atmosfera vivace, ma non mancò di momenti di stress a causa dei tre idioti che, come di consueto, non si risparmiarono in battute e provocazioni. La loro abilità nel fare scherzi era innegabile, e sebbene a volte le loro parole riuscissero a infastidirmi, avevo imparato a rispondere con un sorriso forzato, cercando di restituire le loro frecciatine con altrettanta ironia. Nonostante le loro solite osservazioni sulla mia vita privata, i commenti riguardo ai miei studi universitari e le inevitabili domande sul mio ragazzo (o sull'assenza di uno), la serata trascorse senza troppe tensioni. Erano sempre pronti a farmi sentire come se dovessi difendere le mie scelte, ma avevo messo a fuoco il fatto che, in fondo, mi volevano bene a modo loro.
I miei zii, al contrario, avevano un approccio molto più sincero e attento. Si erano interessati genuinamente alla mia vita, ponendo domande sul mio percorso universitario e sulle scelte che avevo fatto. Mio zio Wes, con il suo tipico sorriso affabile, mi chiese come mi trovassi con gli studi in ingegneria. Gli raccontai delle sfide che affrontavo, ma anche della passione che provavo per quel mondo.
«Vuoi davvero diventare astronauta?» mi chiese, con un'espressione che mescolava incredulità e curiosità. Non potevo nascondere l'entusiasmo che mi pervadeva quando parlavo dell'universo; i miei occhi brillavano e la mia voce si animava. Non avevo bisogno di spiegare che il mio sogno non era quello di diventare avvocato, come molte ragazze della mia età avrebbero scelto, ma di volare tra le stelle.
«Sì» risposi con un sorriso genuino. «Voglio continuare a studiare ingegneria aerospaziale e, magari, diventare astronauta. Voglio vedere le stelle da vicino, non solo attraverso un telescopio.»
Mio zio mi guardò con un'espressione che sembrava quasi di ammirazione. «Sai, quando ero più giovane, pensavo che chiunque volesse fare qualcosa del genere fosse un po' pazzo. Ma ti capisco. Ti ammiro per la tua determinazione. Devi essere pronta a sacrificare tanto per raggiungere i tuoi obiettivi.»
Le sue parole mi toccarono profondamente. Non avevo mai voluto essere la ragazza che si accontenta di una vita qualunque, senza inseguire i sogni che la facevano battere il cuore.
Mia zia Joy, sempre sorridente, aggiunse: «Non preoccuparti, Anne. Quando la passione è così grande, alla fine ce la si fa sempre. Ne sono certa.»
La cena si concluse e i miei cugini, come animali da zoo scatenati, si alzarono dalla tavola per prepararsi ad uscire. Ben, con il suo sorriso smagliante e quell'aria sempre un po' arrogante, tentò di coinvolgermi nell'uscita, pur sapendo che non avrei mai accettato.
«Anne, vieni con noi? Stiamo per uscire a bere qualcosa, giusto il tempo di un drink» mi disse, lanciando un'occhiata complice ai suoi fratelli.
Sapevo benissimo cosa significasse "un drink" con loro. Non che avessi certezza di cosa facessero la sera, ma non intendevo farmi coinvolgere in nulla che riguardasse il loro mondo. Inoltre, in quel momento, avevo bisogno di restare sola con i miei pensieri.
«No, grazie, Ben. Non sono dell'umore» risposi, scuotendo la testa con un sorriso che cercava di sembrare convinto, ma che si rivelò più simile a una smorfia.
Ben alzò le spalle, lanciandomi un'occhiata veloce. «Come vuoi. Ma se cambi idea, noi siamo qui.» Questo era tanto per dire, dato che i suoi genitori lo stavano osservando con insistenza. Sapevo che, in fondo, non avrebbero voluto avere me tra i piedi. Dopo una rapida battuta tra Chris e Nick, se ne andarono.
Mi alzai per aiutare mia zia a sparecchiare. «Posso darti una mano?» le chiesi mentre lei sistemava i piatti vuoti. Non che avesse veramente bisogno di aiuto, ma mi piaceva trascorrere del tempo con lei, e quei piccoli momenti erano diventati sempre più preziosi negli ultimi anni.
«No, grazie, tesoro» rispose con un sorriso affettuoso. «Ma se vuoi, puoi andare a rilassarti un po' sulla sdraio in piscina.» Indicò la chaise longue con un cenno. «Stasera il cielo è così bello.» E alzando lo sguardo, la seguii, lasciandomi scappare un sorriso di approvazione. Il cielo era davvero un tappeto di stelle scintillanti, e senza rendermene conto, mi avviai verso la piscina, gli occhi ancora rivolti verso l'alto. Cercai la costellazione del mio segno zodiacale, puntando il dito e seguendo la scia di ogni piccola stella, in cerca di quella che desideravo.
Mi adagiai sulla chaise longue, che avevo notato prima dalla finestra, proprio sotto il cielo che illuminava tutto il cosmo. La vista mi fece sentire leggera, quasi sospesa. Le stelle brillavano intensamente e, per un attimo, dimenticai le preoccupazioni che affollavano la mia vita, concentrandomi solo sulla vastità che mi circondava, un senso di pace profonda.
Sentii dei passi dietro di me e, quando mi girai, vidi mio zio avvicinarsi con il suo solito sorriso caloroso. Si sedette su un'altra sdraio vicino alla mia e, insieme, guardammo il cielo. In quel momento, non avevo bisogno di parole. La sua presenza era sufficiente; quel silenzio condiviso rendeva ogni cosa più facile.
«Bello, vero?» mi chiese, scrutando le stelle sopra di noi con aria contemplativa.
«Sì» risposi, continuando a fissare il cielo. «Mi piace pensare a cosa c'è là fuori. A tutte le galassie, ai pianeti che non abbiamo ancora visto...»
Mio zio mi guardò con un sorriso che sembrava saper leggere tra le righe. «Penso che quando si ha una passione così grande, non si smette mai di cercare qualcosa. Ti ammiro, Anne. Non è facile avere il coraggio di inseguire i propri sogni, soprattutto quelli così ambiziosi.»
Rimasi in silenzio per un momento, riflettendo sulle sue parole. Non mi aspettavo quel tipo di apprezzamento, ma mi fece piacere sentirlo. «A volte mi sembra che sia tutto troppo grande, lo spazio» dissi, quasi sottovoce. «E che non sarò mai abbastanza per raggiungerlo.»
Mio zio scosse la testa, ma il sorriso non abbandonò il suo volto. «Non pensarlo. L'universo è per chi ha il coraggio di sognare in grande. E tu ce l'hai, Anne. Se non fossi convinto che puoi farcela, non ti direi queste cose.»
Quelle parole mi infusero una nuova forza, una determinazione rinnovata. Non avrei mai smesso di lottare per il mio sogno, perché sapevo che, come aveva detto lui, l'universo appartiene a chi osa sognare. E io ero pronta a sfidarlo.
La notte era calma, avvolta in un silenzio quasi reverenziale, come se il mondo intero stesse trattenendo il respiro per ammirare la bellezza del firmamento. Il cielo, punteggiato di stelle, brillava come un tappeto di diamanti. Ognuna di esse sembrava raccontare una storia antica, un sogno dimenticato, un desiderio esaudito. Mi sentivo piccola e grande allo stesso tempo, immersa in quella vastità, mentre i miei occhi danzavano tra le costellazioni.
Accanto a me, lo zio sedeva in silenzio con lo sguardo rivolto all'insù, un bicchiere di whisky tra le dita - che aveva stranamente offerto anche a me ma che avevo rifiutato - e un'aria assorta, come se stesse cercando qualcosa tra quelle luci lontane. Lo conoscevo abbastanza da sapere che, quando fissava il cielo in quel modo, significava che aveva qualcosa in mente.
«Guarda quella stella lì» disse dopo un lungo silenzio, il suo indice si alzò verso l'oscurità. Il suo sguardo era colmo di quella saggezza che solo l'esperienza degli anni poteva conferire. Seguii il suo gesto, notando un punto luminoso che sembrava risplendere con una forza tutta sua.
«Quella è Sirio, la stella più luminosa del cielo notturno» spiegò. «Si dice che porti fortuna.»
Sorrisi orgogliosa, una sensazione di meraviglia e curiosità mi riempì il cuore. Amavo il fatto che lo zio si fosse preso la briga di interessarsi a quello che più mi piaceva, spiegandomi cose di cui ero già a conoscenza. Significava solo che mi voleva davvero bene, e che sarebbe sempre stato fiero delle mie scelte.
«E tu credi che le stelle possano portare fortuna?» domandai, sinceramente curiosa del suo punto di vista. Le parole che danzavano sulle mie labbra come se avessero vita propria.
«Credo che abbiano il loro modo di guidarci» rispose, con un tono sognante, quasi parlando a se stesso. «In fondo, non è così che ci siamo ritrovati anche noi, sotto questo stesso cielo?»
Non capii subito cosa intendesse, ma non feci in tempo a chiedere spiegazioni che la zia apparve sulla soglia di casa. Si era cambiata e ora indossava un vestito leggero che ondeggiava dolcemente con la brezza notturna, e i suoi capelli sciolti cadevano sulle spalle come seta. Aveva un sorriso sulle labbra, uno di quelli che parlavano più di mille parole, e il modo in cui si avvicinò allo zio fu così naturale che sembrava una danza.
Si chinò su di lui, poggiandogli le mani sulle spalle e baciandolo piano sulla guancia.
«Puoi restare qui fuori quanto vuoi, amore mio» mormorò con dolcezza, la sua voce un misto di tenerezza e provocazione, «ma non fare troppo tardi.» Lo sguardo che gli rivolse subito dopo era chiaro come il cielo stellato: lo aspettava, e lui lo sapeva bene.
Lo zio sorrise, lasciando scorrere le dita lungo il braccio di lei in un tocco leggero, quasi distratto, ma carico di un'intimità che parlava di anni di complicità. «Solo qualche minuto, Bunny» le promise, e nel suo tono c'era quella certezza silenziosa di chi sapeva che non avrebbe mai potuto resisterle troppo a lungo. Dopodiché, lo zio le afferrò il mento con due dita e la baciò dolcemente per un lungo momento.
Non mi sentii affatto in imbarazzo nel vedere quello scambio tra loro. La mia famiglia mi aveva cresciuta senza fare dell'amore e del desiderio un tabù. Avevo sempre pensato che fosse qualcosa di naturale, bello, una parte essenziale della vita. Semmai, quello che provai fu una curiosità nuova, quasi malinconica.
Mi venne in mente Ethan, il ragazzo di Miami di cui ero segretamente innamorata da anni.
Ci conoscevamo da quando eravamo piccoli, ma non avevo mai trovato il coraggio di chiedergli di uscire. Non ero mai stata codarda nella mia vita, ma quando si trattava di lui ogni insicurezza tornava a galla. Mi domandai se anche lo zio, da giovane, avesse provato la stessa incertezza, la stessa paura di rovinare qualcosa di bello.
Quando infine la zia salutò anche me e rientrò in casa lasciandoci soli, lo zio bevve un lungo sorso dal bicchiere, poi si voltò verso di me con un sopracciglio alzato e un sospiro più dolce del necessario.
«Vuoi parlarne?» chiese con dolcezza. «Di quello che sta succedendo tra i tuoi genitori.»
Abbassai lo sguardo sulle mie mani intrecciate. La verità era che non sapevo nemmeno da dove cominciare. Parlarne significava affrontare questo dolore, e affrontarlo significava accettarlo davvero. Perciò scossi appena la testa, perché non ero ancora pronta a farlo.
«Per adesso passo» dissi, provando a sorridere.
Lui annuì senza insistere. «Va bene. Ma se mai ne avessi bisogno, sono qui.»
Non risposi, ma in qualche modo quelle parole mi fecero sentire più leggera.
«Allora parliamo di qualcosa di più leggero» spezzò il silenzio poco dopo. «Dimmi cosa vuoi sapere senza girarci troppo intorno, conosco quel faccino curioso come le mie tasche.» Posò il bicchiere ormai vuoto a terra e si allungò sulla sdraio incrociando le braccia dietro la testa.
Esitai solo un istante. «Come hai conosciuto la zia Joy? Com'è successo che vi siete innamorati?»
Il suo sguardo si perse per un momento tra le stelle, come se cercasse le parole giuste tra i suoi ricordi. «Beh, quanto tempo hai a disposizione?»
«Fino a quando non mi viene sonno» risposi con un sorriso, mettendomi anche io comoda.
Lo zio ridacchiò, passandosi una mano tra i capelli ribelli. «Io, Joy e tuo padre ci conoscevamo da bambini. Le nostre famiglie erano molto unite, così passavamo intere estati insieme. Ricordo una sera come questa, eravamo tutti e tre nel giardino di casa sua e fingevamo di fare campeggio dentro una tenda improvvisata con lenzuola e asciugamani. Il cielo era pieno di stelle, e noi ci raccontavamo storie dell'orrore. Tua zia strillava ogni volta che Aiden faceva finta di sentire rumori sospetti, solo per spaventarla. Lei si aggrappava a me con tutte le sue forze, come se fossi l'unico che potesse proteggerla.»
Sorrisi. «Papà era un vero stronzo.»
Lo zio rise. «Oh, credimi, col tempo è migliorato. Con Joy è diventato appiccicoso ed estremamente protettivo. Da grande avrebbe messo le mani al collo a chiunque avesse provato a farle paura.»
Annuii, divertita. «Sì, è proprio da lui.»
Lui tornò a guardare il cielo, un velo di nostalgia nei suoi occhi. «Fu in quella notte che capii che tra di noi c'era qualcosa di speciale. La sua risata, il modo in cui guardava le stelle... sembrava brillare di luce propria.»
Mi avvicinai leggermente, affascinata. «E poi?»
Un'ombra attraversò il suo sguardo, facendomi stringere il cuore. «Poi... i tuoi veri nonni morirono, e loro... scomparvero. Ci siamo persi di vista per dieci anni. Dieci lunghi anni in cui non sapevo nemmeno dove fossero. Ma le stelle...» fece un gesto vago verso il cielo. «Le stelle mi hanno sempre riportato a loro. Ogni volta che le guardavo, pensavo a Joy e a tuo padre. Ogni stella sembrava un segnale, un messaggio che mi diceva di non dimenticarli. E alla fine, dopo tutti quegli anni, ci siamo rincontrati proprio qui, nella città dove tutto era iniziato. E quando l'ho rivista... ho capito che non avevo mai smesso di amarla.»
«Come?» chiesi sottovoce.
Lui sorrise. «Era una notte come questa. Il cielo limpido, pieno di stelle. L'ho guardata e ho capito che nessun'altra, in tutti quegli anni, mi aveva mai fatto sentire quello che provavo per lei. Così gliel'ho detto... Forse all'inizio ho solo provato a farglielo capire, ma lei aveva eretto un muro solidissimo e mi aveva completamente tagliato fuori.»
«Così, dal nulla?»
«Più o meno» rise. «Abbiamo passato giorni a parlare per ore, ripercorrendo il passato, cercando di capirci. Alla fine, le ho detto tutto. Che l'avevo amata da sempre, che non volevo più perderla.»
Mi sentii il cuore battere più forte. «E lei?»
Lui ridacchiò. «Lei prima è scappata» rispose con un sorriso sognante.
Sgranai gli occhi. «Davvero?»
Annuii. «Sì. Ma poi è tornata a cercarmi e mi ha confessato di avermi sempre amato anche lei.»
Rimasi in silenzio, assaporando quella storia. Poi mi venne in mente un'altra domanda. «È vero che hai un diario di quel periodo? Papà mi ha accennato qualcosa.»
Lui annuì. «Sì. Su quel diario ho scritto tutto: quello che provavo per lei, i nostri momenti insieme, le attese, le speranze. È un pezzo di me.»
I miei occhi si illuminarono. «Posso leggerlo?»
Mi guardò per un attimo, poi sorrise. «Certo. È come un viaggio nel tempo, un tesoro di emozioni che ho custodito per anni.»
Sentii un calore inspiegabile nel petto. «Mi piacerebbe molto.»
Lui mi accarezzò piano la testa. «Domani te lo mostrerò.»
Rialzai lo sguardo al cielo, lasciando che le stelle si riflettessero nei miei occhi. Forse, quella sera, stavano mandando un segnale anche a me.
Restammo ancora un po' fuori, cullati dal silenzio della sera e dal fruscio del vento tra le foglie. Divagammo su argomenti più leggeri, ridendo delle storie imbarazzanti di mio padre e di zia Joy, di quando erano ragazzi e combinavano guai insieme. Lo zio raccontò di quella volta in cui mio padre si era tuffato in piscina con tutti i vestiti addosso solo per impressionare una ragazza – e aveva finito per beccarsi un raffreddore epico. O di quando la zia, nel bel mezzo di una vacanza in campeggio, si era convinta che ci fosse un orso fuori dalla tenda e aveva passato la notte intera aggrappata a lui, tremando dalla paura... per poi scoprire il mattino dopo che si trattava solo di un cespuglio mosso dal vento.
Ridevo quasi senza rendermene conto. E per un momento, l'aria della notte non sembrava più così pesante, il cielo sopra di noi meno opprimente.
Ma poi un brivido mi percorse le braccia e me le strinsi attorno al corpo. Lo zio se ne accorse subito.
«Meglio rientrare» disse, alzandosi e allungando una mano per aiutarmi.
Annuii e lo seguii dentro, sentendo che, almeno per quella notte, il peso sul petto era un po' meno soffocante. Forse, mi dissi mentre salivo le scale, questa vacanza forzata non sarebbe stata poi così male.
Poi aprii la porta della mia stanza e il mio momentaneo ottimismo si dissolse nel nulla.
La scena davanti a me sembrava il risultato di un'esplosione controllata, solo che qui non c'era stato nulla di controllato. Il letto era un disastro totale: le lenzuola erano state tirate via e aggrovigliate come una fune nautica, i cuscini sparpagliati in giro come se qualcuno li avesse usati per una lotta senza esclusione di colpi. Sembrava che una mandria di bufali ci avesse ballato sopra.
I miei vestiti, che fino a poche ore prima erano ben piegati nella mia valigia, ora erano ovunque. Sul pavimento, sulla sedia, addirittura appesi alla lampada da terra in una sorta di macabra installazione artistica. Uno dei miei jeans penzolava dal lampadario, come se fosse stato sacrificato durante un rituale tribale. Una delle mie magliette preferite era stata infilata a metà sotto il materasso, come se qualcuno avesse tentato di seppellirla in fretta e furia.
Il mio beauty case, che avevo accuratamente chiuso con tutte le mie cose dentro, era stato ribaltato senza pietà. Flaconi di crema rovesciati, cipria sparsa come neve sul tappeto, pennelli gettati in giro come se fossero stati usati per dipingere un quadro astratto. E poi c'era il rossetto. Il mio prezioso rossetto rosso, quello che usavo per le occasioni speciali, che ora non era più al suo posto.
E quando alzai lo sguardo, lo vidi. Sullo specchio, tracciato con mano evidentemente malferma ma con una dose inquietante di entusiasmo, c'era scritto a caratteri cubitali:
"BENTORNATA A CHARLESTON, SVAMPITA!"
Il rossetto colava leggermente ai bordi delle lettere, come se lo specchio stesso stesse piangendo per l'ingiustizia subita. Sotto la scritta, come se non bastasse, avevano aggiunto tre piccole faccine sorridenti e un cuoricino storto.
Ci misero solo tre secondi i miei neuroni a collegare i puntini e a individuare i colpevoli.
I miei adorabili cugini.
Inspirai profondamente. Contai fino a tre.
Uno.
Due.
Tre.
Non servì a un cazzo.
Il sangue mi ribollì nelle vene mentre stringevo i pugni. Oh, volevano la guerra? Perfetto. E che guerra fosse.
Mi diressi a passo deciso verso le loro stanze, già pregustando la soddisfazione di mettere tutto a soqquadro, di ribaltare i loro letti, svuotare i loro armadi, farli pentire amaramente di avermi dichiarato guerra il primo giorno.
Solo per scoprire che le avevano chiuse a chiave.
I piccoli bastardi l'avevano previsto.
Digrignai i denti. Okay. Va bene. Nessun problema. Se pensavano di farla franca, si sbagliavano di grosso.
Rientrai nella mia stanza, presi carta e penna e, con un sorriso maligno, iniziai a scrivere.
Sul primo biglietto: "Complimenti! Avete la maturità emotiva di un criceto sotto steroidi. Con la stessa intelligenza, aggiungerei."
Sul secondo: "Ho visto bradipi prendere decisioni più sagge di voi. E i bradipi non fanno un cazzo tutto il giorno."
Sul terzo: "Non vi ucciderò nel sonno. Non subito, almeno. Ma se domani il vostro dentifricio saprà di peperoncino, sappiate che ve lo siete meritati."
Con un sorrisetto soddisfatto, appiccicai i post-it sulle loro porte, assicurandomi di premere bene la colla. Dovevano vederli. Dovevano sapere che non l'avrebbero fatta franca.
Poi tornai nella mia stanza e osservai il disastro attorno a me. Sospirai, valutando per un attimo se sistemare o meno.
No.
Mi infilai sotto le coperte così com'era e chiusi gli occhi, un unico pensiero nella mente.
Domani mi sarei vendicata. E sarebbe stato epico.
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