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Capitolo 3. Meg's Pov

Finalmente avevamo caricato tutte le valigie in macchina. Direzione appartamento di Josh.
Prima di incamminarci, avevamo inviato un messaggio ad Ally e a Luke, per informarli dell'accaduto e del mostro trasferimento improvviso.
Il viaggio in auto fu silenzioso. Purtroppo, entrambe avevamo tanto da dire, ma eravamo altrettanto troppo codarde per affrontare i nostri problemi insieme. Al momento questo non mi preoccupava, dato che avremmo avuto interminabili giorni per discutere ed affrontare gli ostacoli che si sarebbero presentati.
Ogni metro percorso, mi riportava alla mente la sera precedente. Ogni centimetro d'asfalto, mi ricordava la corsa contro il tempo verso l'ospedale.
Il mio voler fuggire dai problemi, perennemente da sola, senza chiedere aiuto a nessuno, mi aveva solo fatto sprecare ogni istante che avrei potuto trascorrere amando Josh.
Ecco che un'altra lacrima amara, mi rigava il viso, mostrando al mondo esterno la mia debolezza. Roby che era intenta a pensare chissà cosa, si concentrò per un attimo su di me, dandomi forza con il suo sorriso e con la sua mano.
"Ce la farà", questo mi ripeteva da quando mi aveva vista in ospedale.
Sì! Ce l'avrebbe fatta e sarebbe tornato tutto come prima. Anzi questa volta sarebbe andata molto meglio. Avremmo ricominciato insieme.
Arrivate nel nostro nuovo rifugio, un nodo allo stomaco mi bloccò davanti all'ingresso. Tutto era esattamente come lo avevo lasciato la sera prima. Piatti appoggiati sul lavandino, il mio vestito e le scarpe sistemati sul divano. Solo la portafinestra, stranamente era stata chiusa. Qualcuno era stato lì prima di noi.
Nel momento in cui Roby accese la luce, potei notare un ragazzo seduto sopra uno sgabello che teneva il volto stretto tra le mani. Di sicuro doveva essere il coinquilino di Josh. Finalmente potevo conoscerlo.
Appena si accorse di noi, si alzò in piedi, facendo cadere la sua seduta a terra. Aveva gli occhi appannati e cerchiati. Probabilmente aveva saputo cosa era successo al suo amico.
Potevo capire benissimo cosa stava provando. I sensi di colpa che gli logoravano l'animo, mi erano alquanto familiari.

‹‹Ciao, io sono Kevin...sono mortificato, è colpa mia...come sta?››․ Potevo percepire la sua disperazione, nel pronunciare quelle parole.

Nonostante la mia comprensione, però provai solo odio e tristezza. Tanta tristezza.
Non riuscivo ad essere gentile con chi aveva partecipato a questo susseguirsi di eventi. La rabbia predominava nel mio animo, senza lasciare al mio cervello la lucidità sufficiente per non fargli commettere scemenze. Di mio mal grado, l'unica cosa che fui in grado di fare, fu correre verso di lui, piangendo come una disperata, per poi inveirgli contro. Urlavo solo parole senza senso, come "è tutta colpa tua!", "ti odio", "non dovevi chiamarlo" ...
Quanto potevo sembrare disperata? Ma, si sa', avrei fatto di tutto pur di riaverlo lì con me.

‹‹Fermati Meg, lascialo stare! Non è colpa sua...››․ Merda! L'avevo fatta piangere un'altra volta. Potevo essere così insensibile?

Kevin rimase immobile a fissarmi, senza fare niente. Mi lasciò lo spazio necessario per far sì che mi calmarsi. Quando iniziai a calmarmi e a respirare nuovamente, mi attirò verso di se abbracciandomi. Poco dopo ci raggiunse anche Roby. Ci abbracciammo tutti e tre, abbandonandoci al nostro dolore. Ognuno di noi, aveva cose da rimproverarsi.
Quando finalmente riuscimmo a calmarci, Kevin ci spiegò che avrebbe provveduto a pagare l'affitto anche per i prossimi mesi, ma che preferiva trasferirsi dalla sua fidanzata. Non se la sentiva di rimanere in un posto che gli avrebbe procurato solo sofferenza. Anche se Roby non aveva niente contro di lui, il ragazzo continuava a provare rimorso per l'accaduto.
Questo capitava a fagiolo, come si suol dire. Avevamo giusto bisogno di due camere, in modo tale da non dover dividere quella di Josh. Così, dopo averlo salutato, occupammo le rispettive stanze. È inutile dire che io scelsi quella colma di bei ricordi.
Finalmente potevo abbandonare il mio corpo sotto il getto dell'acqua calda. Ogni singola goccia che fuoriusciva dal soffione, accarezzava la mia pelle, facendola sussultare. Sembravano essere trascorsi dei giorni da quando mi concedevo un po' di riposo, invece, erano solo trascorse poco più di ventiquattro ore.
Volendo catalogare la mia vita, potevo dire che negli ultimi due giorni avevo vissuto più emozioni che negli ultimi anni. Avevo litigato con la persona più importante del mio cuore; fatto l'amore con lui, dopo essermi presentata inzuppata d'acqua a casa sua; pianto ininterrottamente, sempre per lui, per la paura di perderlo in sala intensiva e infine pregato sempre sul quel letto, che era ancora caldo.
Che dire? Sapevo come recuperare il tempo perduto. Persino il soffitto sembrava essere un calmante più efficace di ogni medicina. Mi dava modo di riflettere e di abbandonarmi alla mia fragilità. Probabilmente, in questi mesi, anche Josh si era disteso sul letto a fissarlo. Chissà quali strani pensieri aveva avuto. Non riuscivo proprio ad immaginarmeli. Speravo solo, di non essere una delle tante che aveva portato in quella camera del tempo. Non potevo immaginare le mani di altre ragazze che accarezzavano il suo viso, i suoi addominali o, chissà cos'altro. Questo pensiero, però, ebbe breve durata. Praticamente, vivevamo in simbiosi, pur non essendo ufficialmente una coppia.
Dal silenzio che percepivo in casa, potevo intuire che anche Roby, si fosse rilassata un pochino. Non potevo asserire che Orfeo ci fosse venuto a trovare, ma di certo il nostro corpo sembrava essere sotto l'effetto della morfina. Ma si sa, la pace non dura in eterno, a meno che non si tratti della pace eterna. In quel caso, alzavo le mani, non si poteva di certo dire il contrario.

Prima il telefono di Roby, poi un suo urlo e infine il panico! Corsi nell'altra stanza, cercando disperatamente gli occhi della mia amica, in cerca di una spiegazione. Eccoli! Carichi di lacrime. Mentre ansimava, cercando di recuperare quell'equilibrio utile per parafrasare quanto udito.

‹‹Dobbiamo andare subito in ospedale...Josh...è grave!››

Un panno opaco si creò dinanzi ai miei occhi, ma non potevo abbandonarmi al dolore. Dovevo essere forte. Spettava me guidare fino al nosocomio. Roby era troppo debole e distrutta. Io, invece, ero già morta.
Si poteva sparare sulla croce rossa? Penso proprio di no.
Ci mettemmo meno di dieci minuti per prepararci, raccogliere i nostri cellulari, precedentemente ricaricati e salire sulla vettura.
Ci dividevano non molti chilometri dall'ospedale, eppure, sembrava che non arrivassimo mai. Odiavo quella fascia oraria del giorno, proprio perché i lavoratori facevano ritorno nelle loro dimore, dopo una giornata carica di stress. Purtroppo per loro, per quanto li ammirassi, ero abbastanza carica di tensione anche io, quindi, continuavo ad imprecare, per ognuno di loro che osava tagliarmi la strada.
Naturalmente, non potevo avere la fortuna di trovare un parcheggio. Guardai la mia amica, in cerca di sostegno, quando decisi di parcheggiarla per strada e correre nel reparto di terapia intensiva.
L'ascensore era troppo lento e poco affollato, mentre il mio cuore sembrava volesse fuoriuscirmi dal petto. Non sapevo cosa mi sarebbe aspettato una volta varcata la porta d'ingresso. Erano trascorsi venti minuti dalla telefonata dei signori Kent e non avevamo più avuto loro notizie.
D'un tratto, la paura e lo sconforto che percepii alla vista della mamma dei mei amici, distrutta dalle lacrime, in ginocchio, prese il sopravvento.

‹‹Dov'è? Come sta? Parlami!››․ Le urla di Roby superarono persino i singhiozzi provocati dalla donna.
Era impossibile ricevere una risposta, visto le sue condizioni. Così, mi voltai verso il capofamiglia.

‹‹Lo stanno rianimando...››

Giurai di aver udito un richiamo provenire da una porta opaca, alla nostra destra. Mi sentii attratta da qualcosa che era più grande di me. Corsi in quella direzione con le poche forze che mi erano rimaste e quando fui giunta li davanti, la porta si aprì mostrandomi il petto di Josh, sollevato dalle scariche del defibrillatore. Quella fu l'unica scena che mi fu concessa, prima di essere afferrata da una guardia che cercava di allontanarmi da quella vista.
Non riuscivo a crederci. Non poteva abbandonarmi. Non DOVEVA!

‹‹Josh... non lasciarmi!››․

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