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09: Crescendo (parte I)

    Sbatté la fronte contro il muro. Una. Due. Tre volte. Uno dei pannelli sintetizzanti si crepò. Un rivolo rosso attraversò il solco tra le sopracciglia. Le sue mani si strinsero con più forza sulle tempie. Sembrava volesse sfondarsi il cranio da solo. Magari avesse potuto. Si sarebbe aperto la testa e avrebbe estratto quelle maledette voci.

    Erano sempre più forti. Sempre più insistenti. Ormai gli rimbombavano nel cervello. Aveva dentro un rumore assordante, contrapposto al silenzio del mondo. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, come se volesse equilibrare l'interno e l'esterno. Come se questo potesse bilanciare la pressione e impedirgli di esplodere.

    «Dannate!» gridò. «Zitte! State zitte!»

    Il suo androide personale, che fino ad allora stava spolverando i pochi mobili, si allarmò. Un normale umano avrebbe sussultato, ma la macchina si limitò a voltarsi e ad avvicinarglisi. Lui si lasciò scivolare in ginocchio. Si piegò in due, come un giunco spezzato. La riproduzione di sua madre si chinò a osservarlo. Nessuna espressione traspariva dal suo volto artificiale. Poteva anche assomigliarle, ma non sarebbe mai stato lei. Lo vide protendere la mano verso di lui. Una immediata repulsione lo spinse a ritrarsi.

    Con un ringhio di rabbia, spinse via l'androide: «Non mi toccare!»

    «Lei sta soffrendo di una qualche forma di malessere, signore» recitò la macchina. «È necessario che l'accompagni alla sede ospedaliera immediatamente. Io non sono fornito di adeguati algoritmi di diagnostica.»

    «Sono le voci, stupido aggeggio!» esplose il Programmatore.

    Mentre cercava di alzarsi, l'androide corrugò la fronte. I suoi bulbi oculari scattarono da un lato all'altro più volte, mentre il calcolatore cercava di elaborare l'input. YUNE si ritirò su, in piedi, a fatica, aggrappandosi con le dita ai pannelli sintetizzanti. Si precipitò al tavolo della parete opposta. Spostò gli oggetti con una spazzata di braccio. L'urgenza di zittire le concatenazioni armoniche lo incalzava. Sentiva di poter impazzire da un momento all'altro. A volte sperava di essere ancora sano di mente, altre, invece, era convinto che non ci fosse più speranza.

    Recuperò un iniettore ancora intatto e si lanciò nella stanza per lo scarico dei rifiuti. Da quando IAN era entrato in coma, aveva nascosto la droga in quel bugigattolo. Sperava che, se fosse stata lontana dai suoi occhi, sarebbe riuscito a limitarne l'uso. La verità era che ne aveva disperatamente bisogno. Non ne era la vista a fargliela desiderare. Era il dolore. L'insopportabile e atroce litania che gli occupava la mente.

    L'androide smise di elaborare: «Non rilevo suoni esterni» commentò, girandosi verso di lui. «Lei necessita di analisi neurologiche complete» aggiunse.

    «Non avevi detto che non sei equipaggiato di adeguati algoritmi di diagnostica?» replicò YUNE, col respiro corto. «Non prescrivere esami che non sono di tua competenza.»

    La macchina si piantò di nuovo al pavimento, tornando a elaborare. Il Programmatore recuperò la boccetta di droga da una mensola e uscì dalla stanza di scarico. Si sedette sulla sedia ad antigravità e aprì il contenitore della siringa automatica. Fu sul punto di riempirla, quando si bloccò. Osservò lo scintillio sinistro del liquido nella boccetta. Si rigirò il contenitore nella mano. Tremava. Tutto il suo corpo era un fremito, tale che non si sarebbe potuto dire se era dovuto all'astinenza o al dolore.

    IAN era in coma. Quel pensiero era l'unica riflessione di senso compiuto che fosse in grado di soppiantare le voci. Se non fosse stato sotto l'effetto della droga, quella volta, forse non sarebbe accaduto. La repulsione lo attanagliò di nuovo. Sembrava che non riuscisse a sopportare nulla di quella vita. Il cibo lo disgustava. Le macchine gli facevano orrore. Le voci lo torturavano. La droga lo mortificava.

    Il pensiero di non essere stato lì, per proteggere l'unico amico che avesse mai avuto, lo riduceva a uno straccio. Si vergognava di se stesso, della persona che era diventato. Non un uomo, no. Non era altro che un verme. Un tempo, adorava diventare così. Amava l'idea che la droga lo rendesse una blatta strisciante, nient'altro che un insetto piccolo e privo di qualsiasi intelletto. Adesso, invece... come poteva non rimproverarsi? Come poteva avere stima di sé, quando non era stato capace di aiutare IAN?

    La sua mano fu scossa da uno spasmo. Un gemito di disperazione gli sfuggì dalle labbra. Si portò le dita tra i capelli, tirandoli con tanta forza che avrebbe giurato di poterseli strappare via. Le voci. Le voci non smettevano. Erano sempre più forti. Gli sembrava di non poter sfuggire in nessun altro modo. La droga... no! Non lo avrebbe fatto di nuovo. Non si sarebbe ridotto ancora una volta al livello di un verme strisciante!

    Lanciò la boccetta contro il muro. Il contenitore s'infranse, lasciando che il veleno si spandesse sulla scrivania. L'androide gli si avvicinò, mentre lui avviluppava la testa tra le braccia e posava la fronte sul ripiano dello scrittoio. Dolore. Gli sembrava che il cervello potesse sfondargli il cranio da un momento all'altro. Avrebbe aperto gli occhi e avrebbe visto il suo tessuto celebrale sparso sui pannelli sintetizzanti.

    La mano dell'androide si posò delicatamente sulla sua spalla. Ormai non aveva le forze per scacciarlo. Anche se quel tocco gelido lo disgustava, il male era troppo forte per poter reagire. Non riusciva a muoversi, a parlare. Non riusciva a pensare. Era un tormento senza fine. Il tempo esisteva ancora? Se sì, quando avrebbe fatto cessare quella tortura?

    Assordato dalle concatenazioni armoniche, neanche si rese conto che il calcolatore dell'abitazione stava segnalando l'arrivo di un ospite. La notifica fu accolta dall'androide privato, che si allontanò da lui, per avviarsi alla porta. Un istantaneo senso di sollievo lo invase: non lo stava più toccando. Era comunque una gioia misera, soffocata dalle voci.

    Prima di aprire, la macchina ebbe la premura di sintetizzare le pareti che nascondevano la sua collezione di piante. Aveva aggiunto dei protocolli alla sua programmazione base. La modifica dell'androide personale era consentita, fino a certi livelli, per cui non aveva trovato resistenze nel settare alcune azioni di routine. I sintetizzatori generarono il muro in poche pause. Subito dopo, l'androide schiuse la porta.

    «Desidera?» domandò.

    A YUNE non interessava sapere di chi si trattasse. Dall'esterno, ogni stimolo gli giungeva ovattato, lontano migliaia di staffe. Per quanto gli riguardava, sarebbe anche potuto crollare il condominio, ma lui non se ne sarebbe neanche accorto. Per un po', gli parve che, escludendo le voci, fuori dal suo corpo tutto tacesse. Desiderò potersi perdere in quel silenzio. Si odiò per aver rovinato l'ultima boccetta di droga a sua disposizione.

    Poi, un tocco caldo lo strappò dagli abissi.

    Dita delicate, che gli stringevano un braccio. Erano diverse da quelle dell'androide. Erano più morbide, più attente. Persino il tepore era differente.

    Qualcuno lo chiamò: «YUNE...» il Programmatore gemette, stringendosi le tempie: le voci parevano urlare la loro concatenazione, come se non volessero lasciarlo andare.

    «Che gli succede?» quel tono gli era familiare.

    «Non lo so» rispose l'androide. «Ipotizzo un malessere di qualche genere. Non sono programmato per una diagnosi esatta.»

    «Deve essere portato alla sede ospedaliera!»

    «Gliel'ho detto, ma non vuole che lo accompagni.»

    «Tacete!» esplose il Programmatore. «Altre voci nella mia testa! Non è questo che mi serve! Dannazione!»

    «Voci?» ripeté l'ospite. «Quali voci? Di cosa sta parlando?»

    «Delira» sentenziò l'androide.

    «Le voci!» YUNE sbatté i pugni sulla scrivania, alzandosi di scatto.

    Attorno a lui, ogni cosa era confusa. Una figura familiare gli si avvicinò. Era più bassa e formosa dell'androide. Era... una donna? Capelli corti, una macchia nera indistinta, e un volto già noto. Con le mani alle tempie, l'uomo strinse gli occhi. Cercò di mettere più a fuoco la figura dell'ospite, di concentrarsi su di lei, non sulle voci.

    Occhi color nocciola e mascella un po' troppo delineata, per una donna. D'un tratto la riconobbe. Scosse la testa, mentre le voci diventavano dirompenti. Urlò di dolore, piegandosi in due. SIRAH lo afferrò per le spalle, allarmata. Gli chiese qualcosa, ma lui non la sentì.

    «Fatele smettere!» implorò; gli sembrava di star per svenire. «Questi suoni sono così atroci! Non li sopporto più! Smettetela!» crollò di nuovo in ginocchio, trascinando SIRAH con sé. «Smettetela. Smettetela. Smettetela» cantilenò, dondolandosi.

    Lacrime amare iniziarono a correre sulle sue guance. Il suo corpo reagiva da solo, ormai preda di un male che nessuno poteva capire. Il dolore alla testa era così forte che non riusciva ad aprire gli occhi, non riusciva a capire dove si trovasse o cosa stesse succedendo. Tremava, nonostante percepisse vagamente un calore confortevole. Gli sembrava di essere avvolto da delle braccia sottili e che un corpo morbido lo accogliesse sul proprio grembo.

    Quel tepore umano era estraneo alla maggior parte degli abitanti della Cupola. Gli ricordava gli abbracci di sua madre, così dolci e affettuosi. Sotto quella volta di materiale autorigenerante, eretta a protezione dell'umanità superstite, non c'era posto per l'amore. Ognuno pensava a sé, alla propria sopravvivenza. Il bisogno di calore era completamente dimenticato. Eppure era così bello.

    Cercò di aprire gli occhi. Le palpebre erano di una pesantezza inaudita. Tra le lacrime, distinse a malapena l'androide. Stava scambiando alcune parole con SIRAH, ma lui non poteva sentirle. Ormai non udiva altro che le voci e le loro strazianti concatenazioni. Sarebbero state dei suoni meravigliosi, se solo non lo avessero assillato. Se solo non avessero assordato la sua mente, impedendogli di ragionare.

    Vide la macchina avviarsi per il corridoio. SIRAH cercò di farlo alzare, ma lui non reagì. Così lei si arrese, con un sospiro inudibile, e gli rimase inginocchiata accanto. Il tempo trascorse senza che il Programmatore lo percepisse. Le voci non accennavano a tacere. Neanche la presenza delle piante, dall'altra parte del muro, lo aiutava. Fissava un pannello sintetizzante di fronte a sé, quasi senza sbattere le palpebre. Temeva che, se l'avesse fatto, non sarebbe più riuscito ad aprire gli occhi.

    La macchina tornò dopo quella che parve un'eternità. Accompagnata da degli androidi ospedalieri. Sgranando gli occhi, YUNE cercò di ritrarsi, di allontanarsi. I ricordi della morte dei suoi genitori lo trafissero come scosse elettriche. Le voci, solo per un istante, parvero meno presenti, ma unicamente perché soffocate dal terrore.

    «No! No!» urlò, mentre SIRAH cercava di trattenerlo e tranquillizzarlo. «Non m'infetterete come avete fatto con loro! Bastardi!»


  continua nella parte successiva...  


|| Il Nascondiglio dell'Autrice ||

Che dire? XD Questo capitolo inizia col botto!

No, non mi riferisco al fatto che ho pubblicato puntuale xD

Anzi, sì, mi riferisco a quello ma non solo xD

Ora il povero YUNE dovrà spiegare parecchie cose

a quella ficcanaso di SIRAH u.u potete scommetterci!

Commentate! TT^TT Sono drogata di commenti.

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