Capitolo 7
{Coraline}
Sono due settimane che non vedo più Alexander.
Ripeto il suo nome nella mente. Nell'oscurità che avvolge la stanza.
Lo assaporo sulla lingua.
Quella X che fa poggiare la punta sul palato superiore, come a rafforzare la potenza che emana.
Una freccia scoccata con violenza.
Mi fa brulicare lo stomaco.
Ho contato il tempo. Ogni singolo minuto.
Anche i secondi.
Ma non é più venuto a farmi visita.
Mi sono arresa ad accettare il cibo. Sentivo il corpo indebolirsi e ne avevo bisogno.
Ma allora perché é più forte il bisogno di vederlo?
Che cosa ti frulla in testa, Coraline?
Sei nelle sue mani.
In una sorta di prigionia.
Non hai vie di fuga.
Alla mercé del suo sadismo.
Ormai non ho più niente a bloccare polsi e caviglie, ma mentalmente lo sono.
So bene che se ci provassi, morire per mano dei suoi uomini, o peggio sua.
I polpastrelli tremano intorno al bicchiere di vetro che porto sulle labbra arse, quando il cigolio sinistro, che ormai ho imparato a riconoscere, della porta, mi fa sobbalzare.
Il bicchiere scivola dalle mie dita divenute fuse come un tocchetto di burro, cadendo rovinosamente a terra con un tonfo cristallizzato come le schegge che si frantumano in mille piccole parti, quanto la mia psiche.
«Coraline?» I miei occhi da prima puntati su i vetri taglienti, si spostano verso la voce melodica, che proviene dalla mia destra.
É una donna. La vedo colpita dal fascio di luce proveniente da fuori, come un occhio di bue puntato su di lei.
É indubbiamente bellissima. I capelli rossi ciliegia. Gli occhi verdi a contornare un viso da copertina, come il corpo affusolato in vita e più prosperoso su seno e fianchi.
Indossa un abito bianco, dove l'orlo le arriva poco sopra le ginocchia, e dei tacchi a spillo a renderla più slanciata.
«Sei, Coraline?» Ripete armonica il mio nome, e solo ora che sbatto più volte le ciglia, mi rendo conto che ero rimasta a fissarla con un'espressione stupita. Basita. Inaspettata.
Rivolgo la mia attenzione su i suoi occhi dalla parvenza gentilì, e mi domando perché ci sia lei e non "Golia" detto Dominick a vegliare sulla povera anima pia.
«Sono, io.» Ribatto spavalda e secca, per riprendermi subito.
«Perché? Qualcuno mi desidera?» Sono anche sfacciata e pungolante nel tono di sfottò che adotto, mentre Jessica Rabbit mi fissa con un sopracciglio inalzato e una mano poggiata sul fianco.
«Devi venire con me.» Soggiunge come un comando, e un sentore di chi l'abbia dato, ce l'ho ben chiaro.
Una risata amarognola, fluisce dalle mie labbra, con una scioltezza innata.
«Fammi indovinare...Alexander.» Non ho certo bisogno di precisare il cognome, lui é il capo.
Mi fissa con oltraggio nelle iridi che si scuriscono.
Ho per caso detto un'eresia?
Cavolo, potrei essere punita.
Fanculo!
«Per tutti noi, lui é il Signor Vlokov. E ora vieni.» avanza decisa verso di me, mentre abbasso un po' lo scudo difensore.
Scendo mestamente dal materasso, stando attenta ai vetri.
«Aiutami a scappare.» Sono dietro alla sua schiena, quando bisbiglio a bassa voce questa preghiera.
«Ti prego.» Aggiungo angosciata. Ma tutto ciò che ricevo é una sua occhiata tra comprensiva e risoluta che significa che purtroppo per voleri a me e sicuramente anche a lei sconosciuti, questo desiderio non sarà esaudito.
Mi lascio condurre oltre la porta, e il bianco pulito delle pareti fa risaltare i completi neri dei molteplici uomini appostati ad ogni angolo, come a fare barriera.
«Sai almeno perché sono qui...» Aspetto il suo nome, e magari sapere il perché.
«Patricia, e no. Vlokov mi ha solo ordinato di venire a prenderti e portarti con me. Da oggi avrai una camera tua, con il bagno personale, e un lavoro.» Che cazzo sta dicendo? Un lavoro? Una camera? É uno scherzo?
Sembra addirittura stizzita e invidiosa che io abbia tali privilegi da come cammina a culo stretto, che vorrei capire che problemi hanno tutti.
«Non ci penso proprio.» Mi dibatto con la voce ferma, proprio come arresto i miei passi in mezzo al corridoio spoglio di ogni cosa.
Sento un suo sospiro pesante, fendere l'aria profumata da degli incensi disposti su rialzatine in vetro.
«Coraline, ti do un consiglio.» Si volta seria dalla mia parte. Nessuna nota stonata. Avverto come il suo avvertimento che devo ficcarmelo in testa.
«obbedisci se vuoi vivere.»
Capisco che le risposte che cerco le avrò solo quando vorrà lui.
Vuole vedermi ridotta in sabbia.
Ma non sa che sono come acqua che la indurisce.
Devo solo evitare di sfracellarmi.
Una rampa di scale anche esse in vetro e sospese, conducono ad un ulteriore piano sopra.
Sono già tre rampe di scale, e credo che presto morirò per arresto cardiaco.
I polmoni sono gonfi d'aria, e il fiato viene a meno, come le forze.
«Muoviti.» Certo facile per lei, con il suo ancheggio sinuoso.
Noto alcuni uomini fissarmi, seppur restano con le mani in avanti conserte.
So bene che non sono ridotta nel migliore dei modi.
Puzzerò come un branco di pecore in una prateria.
Sarò nera come il catrame.
E i capelli unti come olio d'oliva.
Per non parlare della mise all'ultimo grido: maglietta informe e unta, brasiliana di pizzo.
Finché non si ferma davanti ad una porta bianca con intarsi nel legno, ed estrae una chiave per inserirla nella toppa.
Resto a pochi passi da lei, finché un cigolio più tenue e dolce, non mi accoglie all'interno.
Le pareti beige con arabesque in foglie d'oro, fanno da scena ad un letto a baldacchino con la struttura d'ottone come una camera ottocentesca.
I comò bianchi con gli stessi intarsi della porta.
Lo scrivano, e una toeletta con uno specchio che arriva fino al soffitto.
Ma ciò che più mi fa specie, é il vetro che fa da soffitto.
Provo a mettere a fuoco, ma ciò che vedo é solo nero. Buio pesto.
«E il bagno, é qua.» Apre una seconda porta, di cui non me ne frega niente. Sembra una cavolo di interior design. E questo odore di potpourris mi fa storcere il naso.
«La cabina armadio. Fatti una doccia e cambiati. Poi raggiungimi al terzo piano. Questo é il quarto.» M'informa con gentilezza, prima di sentire i suoi tacchi riecheggiare e le porte chiudersi oltre le sue spalle.
«É uno scherzo.» Sbotto incredula lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, rivolta alla camera.
Parlo anche da sola.
Tra intelligenti ci capiamo.
Decido comunque di farmi una sacro santa doccia.
Il bagno é lussuoso.
Tutti mobili lucidi, più moderni rispetto all'arredamento della camera.
Un box doccia con vapori acquei profumati a più essenze, pareti color acquamarina, e una vasca con le zampe rifinite in oro.
Aziono il soffione, strappandomi quasi con violenza i pochi pezzi di stoffa che ricoprivano il mio corpo.
L'acqua tiepida, entra in contatto con il mio corpo e per un po' lascio che le perle limpide, portino via ogni pensiero. Preoccupazione. Lo sporco.
So bene che non é cosi, ma voglio crederlo.
Ma ciò che non vorrei mai vedere, é la figura che rimanda lo specchio appena apro le ante di vetro appannate, e mi copro con un telo di spugna.
Il mio volto. Le guance incavate, dove gli occhi sembrano uscire dalle orbite.
Se continuerò così farò del male solo a me stessa.
E morire non rientra nei miei progetti.
Mi tocco il volto quasi a volermi accarezzare, per darmi manforte, prima di voltare le spalle anche al mio riflesso e andare verso l'immensa cabina armadio.
I cassetti pieni di tutto.
Dalla biancheria ai bijoux.
Peccato che anche questo lo prendo come uno scherzo di pessimo gusto.
Cerco. Butto tutto fuori dai cassetti con la frustrazione che monta nel mio corpo.
Solo perizomi succinti che coprono al massimo le labbra.
Alcuni addirittura con un buco o due buchi.
«Non ci posso credere.» Continuerò in eterno a parlare con me stessa, con la stessa disperazione che mi fa portare le dita tra i capelli e urlare.
«Fanculo, Vlokov.» Si, sentimi. Mi senti? Brutto pezzo di merda.
Infilo le prime cose che mi capitano a tiro tra mille abiti succinti, due pezzi succinti, e vestiti lunghi ed eleganti.
Se questo é il quarto piano, a che piano potrebbe essere l'ufficio del capo supremo?
Ovviamente al primo.
Esco come una furia dalla camera, per dirigermi a passi spedito verso le scale.
Almeno quelle sono liberi dagli energumeni.
Salgo ogni scalino, con le gambe che tremano di rabbia. L'ira che mi acceca le iridi nocciola.
E con tutta la repulsione che provo, arrivo all'ultimo piano in un corridoio stretto e lungo, dove davanti mi trovo una porta.
L'unica nel piano.
Per forza la sua.
Un uomo di guardia, noto che fissa il mio incedere, e il taglio dei suoi occhi scuri si assottiglia.
Crede di intimorirmi?
«Signorina, questo piano non é adibito alle ballerine.» Ah ma scansati, deficiente!
«Devo parlare con il signor Vlokov.» Sputo con lo stesso sdegno che mi dipinge il volto, il nome del mostro.
Noto la sua testa rasata, scuotersi in segno di diniego e le postura inflessibile.
«Senza appuntamenti, il signore non riceve.» Tuona con una voce grossolana, come a farmi recepire e notare il mio comportamento.
«Senta, devo parlare subito con quello stronz...»
La porta spalancata con irruenza, dove sobbalzo dal tonfo sordo della maniglia che sbatte contro il muro, mi fa dirottare le iridi, che sprizzano fuoco sul suo volto frastornato.
Osservo i suoi occhi nordici, vagare sfacciati, lungo il mio corpo avvolto in questo schifoso completo succinto, e vorrei ucciderlo a mani nude.
Mi aspetto una sfuriata, e invece noto un muscolo dello zigomo vibrare, e il secondo dopo le labbra carnose serrate, aprirsi in un sorriso che scoppia come una bomba in una risata che riecheggia tra le pareti del corridoio lungo e stretto.
Mi prende per il culo? Si sta facendo beffa di me?
Non contento getta anche la testa all'indietro, e il pomo d'Adamo vibra su quel collo che strangolerei.
Ma il mio stupido maledettissimo sguardo, da adirato, scivola senza il consenso del mio ancor più stupido cervello, verso il suo corpo.
La salivazione si azzera, e sento il respiro mozzarsi, nel vedere una piccola striscia di peli sbucare dalla patta dei jeans aperti.
Avverto il cuore emettere dei battiti come percussioni su un piatto della batteria, e il volto imporporassi sulle guance. Un calore estraneo si diffonde nel mio corpo, e un languore estraneo formicolare ovunque.
«Signor Vlokov, la signorin...» Lo scimpanzé tenta di dare una spiegazione sommessa al bell'imbusto, che lo ammonisce subito, senza farlo finire di parlare.
«Puoi andare Max. Ci penso io alla...» Si volta per guardarmi sprezzante, mentre rimango composta come una soldatessa sul fronte di guerra. Mento innalzato.
No, Signor Vlokov. Non ti temo. Non tremo.
«Signorina.» Calca come un dispregiativo quello parola che gli piega gli angoli delle labbra, notando l'armadio defilarsi con un cenno diligente della testa rasata.
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