Capitolo 23
{Coraline}
Non voglio ingannare il mio cuore, che stare tra le sue braccia non mi provoca niente.
E non riesco a pensare razionalmente, e neanche tento di farlo.
É come se mi avesse pressato un ferro rovente addosso, incidendomi il suo cobra.
Le fauci mi spaventano, ma inorridisco di più alla voglia prepotente di saggiare il veleno che porta al suo interno.
Il calore abbandona piano il mio corpo.
Le lenzuola si raffreddano, come fa il mio corpo.
Rabbrividisco, cercando disperatamente il bollore di prima, ma più mi rigiro, più non lo trovo. Più mugugno, e spalanco di botto le palpebre ancora annebbiate dal sonno.
La luce fioca della abat-jour mi infastidisce, e come volto la testa, scorgo la sua sagoma sul lenzuolo, ma non il suo corpo.
«Alex.» Lo chiamo debolmente, con la bocca ancora impastata, ma non c'è nessun cenno.
La paura torna a troncarmi dentro, e le immagini della serata trascorsa ripiombano catastrofiche.
Sussulto impaurita, divenendo una statua di sale, immobile.
Le punte dei piedi, toccano il pavimento gelido, e azzardo ad alzare lo sguardo nel buio profondo che riporta il soffitto in vetro.
Scendo mollemente dal rifugio, avvicinandomi a tentoni verso la porta che spalanco.
Scorgo solo una guardia in lontananza, e come si volta dall'altra parte, sgattaiolo furtivamente, come una ladra, verso le scale che portano al pian terreno.
«Un altro incontro notturno. Presto metteremo su un club di riunioni notturne, di questo passo.» La voce beffarda e odiosa di Patricia, blocca per un'istante il tragitto per trovare Alexander.
Mi volto spazientita verso di lei, che si porta a braccia conserte.
«Il biglietto era mio. Volevo scusarmi. Non ti ho vista in sala mensa, e mi riferivo a quello sul: ci vediamo stasera.» Confida il mistero del biglietto e della torta, dove rimango attimi attonita, per tornare alla mia posa sprezzante.
«Deduco quindi, che non sapevi nulla di ciò che mi é accaduto.» Ribatto gelida e pungente, mentre china il capo, annuendo debolmente.
«Ho sentito le voci di corridoio. Se stai cercando Alexander, l'ho visto scendere venti minuti fa.» Stende un sorriso, e non so se crederle. Tutto in lei emana un sentore di falsità. Costruita.
Ma per quello che mi può interessare, non ho voglia di replicare, e le rivolgo di nuovo le spalle, per continuare a scendere.
Il corridoio spoglio, dove prima alloggiavo come una reclusa, si para difronte ai miei occhi, che ricordano vividi anche cosa mi abbia fatto Alexander.
Cerco di scacciare il pensiero, poiché delle scale si affacciano alla fine del corridoio, e la mia stupida curiosità, vince sempre su ciò che é giusto o sbagliato fare.
Alzo lentamente le punte dei piedi ad ogni scalino, per non essere sentita, e non so neanche cosa ci sia.
Avverto vicino dei rumori di caldaia.
Un picchiettare sinistro di goccioline, dalle tubature che delimitano il corridoio.
Il pavimento umido e con delle pozze di acqua putrida, e il buio che viene squarciato ad intermittenza da luci tremule al neon, poste sopra al soffitto grigio. Le chiazze di muffa evidenti, insieme alla puzza stantia che corrode l'olfatto.
Porto subito il colletto della maglia, stretta in un pugno, verso il setto nasale, e mi avvicino ad una porta di ferro, socchiusa.
Tutto dentro, mi suggerisce di tornare su i miei passi, e l'acqua mi bagna le piante dei piedi.
Dovrei sul serio convincermi a frenare la mia malata voglia di sapere, cosa si cela oltre.
Avanzo cauta, finché delle voci non arrivano al mio udito.
Cerco di scorgere appena, chi ci sia.
Non riesco ad apprendere quello che si dicono, ma la voce che surclassa l'altra é quella di Alexander.
Riconoscerei il suo tono rauco e artico, tra altri mille, e mossa da un'autonomia propria, la mano stretta attorno al collo si allenta, per aprire lentamente di un altro piccolo spiraglio la porta.
Osservo delle scale di legno, e poi sporgendomi di più, un occhio di bue, puntato sul Serbo, legato solo alle caviglie, ad una sedia al centro di una stanza allestita a magazzino.
La suola delle scarpe in vernice, di Alex, risuona mefistofelico, nel silenzio plateale.
«Ora lancia la carta, Guzmán.» Non capisco ciò che voglia dire, ma osservo il Serbo, puntarsi una pistola alla tempia.
Osservo appena nell'oscurità il suo volto sfigurato dalla paura pietrificante.
Le gambe molleggiano sulla sedia, e la mano che stringe la pistola, trema fortemente.
Le mie pupille, risucchiano la figura che mi si para davanti.
La voce di Alexander, mi fa trasalire da quanto é austera. Una voce che non sembra neanche sua.
«Fallo, o sarò io a farlo per te.» Lo minaccia spietato, e il Serbo si cimenta in una cantilena piagnucolante.
Chi sei, Alexander in realtà?
Che mostro conservi nella tua anima?
Sei una bestia? Un cobra? O l'uomo che mi ha infondato calore e mostrato la sua umanità?
«S..s...si.» Osservo sempre più inorridita, la carta venir lanciata. Fa una lieve piroetta su se stessa. Il tempo sembra fermarsi, e sono paralizzata dalla scena, poiché quando la carta si adagia al suolo sconfitta, il Serbo preme il grilletto. Il colpo secco e metallico vibra per tutto il sotterraneo.
Guardo delle macchie, schizzate a terra, e prima che possa ritirarmi e fuggire via, sento un urlo agghiacciante trapanare l'udito e scuotermi.
Ma non ho tempo di realizzare da chi proviene, poiché il volto di Alex si gira fulmineo, e i suoi occhi pieni di spietata freddezza e impassibilità, insieme ad alcuni schizzi che gli sporcano il viso trasfigurato da odio, di sangue, capisco che l'urlo proveniva dalle mie labbra spalancate di terrore.
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