Capitolo 20
$Alexander$
Ho intenzione di scusarmi con Coraline, per come é terminata la serata.
Ma questa volta non sarà un post-it a recapitarle uno stupido messaggio.
Voglio fare irruzione nella sua camera, con una vera cena ovviamente preparata dai miei cuochi.
Ma prima devo andare a controllare che tutto proceda nel miglior modo.
Mi sistemo i polsini della camicia bianca, agganciando i gemelli e lascio la porta della mia camera, per inoltrarmi nel corridoio.
Lo stesso che appena scendo il primo scalino, mi mostra la figura di Patricia camminare spedita su i tacchi, con una naturalezza innata, verso di me.
«Alexander.» Mi richiama confidenziale, mentre l'unica cosa che vorrei fare é ignorarla deliberatamente.
«Scusa, Patricia. Ho da fare.» La congedo con un tono scorbutico, sorpassandola quasi, finché il suo braccio non si allunga come una sbarra, a due centimetri dal mio torace.
Uno sbuffo a narici dilatate, soffia sul suo braccio, dove i pochi peli chiari si rizzano, come una folata di vento gelida che ti coglie impreparato.
Sono tentato di scansarle senza alcuna gentilezza, il braccio che blocca il passaggio. Invece porto l'indice e il pollice a massaggiarmi il setto nasale con le palpebre abbassate, per darmi una calmata.
«Ok. Che vuoi?» Le domando grezzo e frettoloso, per togliermela dalle palle in meno di un nano secondo.
La osservo piegare la testa e storcere la piega delle labbra laccate di rosa, di lato, come se il mio tono la infastidisse.
«Cosa c'è tra te e quella ragazzina?» Ribatte con un'altra domanda a bruciapelo, in un tono che sa di ammonimento. Una domanda di cui non gliene deve fregare un cazzo.
Una risata a labbra increspate e chiuse, esce fuori in un suono di sprezzo e arroganza.
Quanto il profumo dolciastro che si impadronisce dell'aria circostante, sulle scale.
«Notevole la presunzione che hai, di farmi domande.» La ghiaccio irto, quasi quanto le mie iridi che si spostano fulminee sulle sue, che implodono un fuoco di gelosia corrosiva.
«Ho sempre rispettato ogni tuo ordine, Alexander. O forse te ne sei, scordato? Ti sei dimenticato le notti in cui venivi da me?» La smorfia sdegnata e amareggiata, che le segna le rughette del volto, non mi smuovono minimamente.
Irrigidisco la mascella, e le mie dita ruvide, attorniano il suo polso dove emette un impercettibile rantolo di sorpresa e dolore, da quanto stringo.
«Ti dirò una cosa Patricia, e ti deve entrare bene in testa. Tu esegui i miei ordini perché lavori per me. Tu, mi hai aperto le gambe di tua spontanea volontà. E tu, te ne devi fregare di ciò che faccio io e con chi. Sono stato abbastanza chiaro o vuoi un disegno sulla lavagna come a scuola?» La derido solenne, e senza darle il tempo, già che ne ho sprecato troppo, abbasso il suo braccio che si abbandona lungo i suoi fianchi scoperti da un top, e scendo di fretta l'ultima rampa di scale.
Apro la porta delle telecamere, e osservo Dominick, controllare tutto.
Sembra tranquillo. Nessun movimento strano che possa guastarmi la serata.
«Va tutto bene?» Gli domando guardingo, distogliendolo per un secondo dal monitor che riproduce la sala da gioco.
Si volta a metà volto verso di me, per farmi un cenno di assenso.
«Puoi andare dalla tua amata. Se ci sarà qualcosa di chiamerò io.» E a sentirgli affibbiare quel nominativo, i tratti del mio volto si irrigidiscono maggiormente e le pupille si dilatano.
Gli riservo un'occhiata minacciosa in cui sghignazza divertito, prima di sbattermi la porta oltre le spalle e andare verso la sua camera.
Che stronzata! Come puoi amare qualcuno, conoscendolo così poco?
Come si può amare, se non sai cosa vuol dire?
Se non l'hai mai provato?
Se nessuno te l'ha mai dato?
Decido di sorvolare e riporre da parte, certi quesiti che non sono da me, e vestirmi di un sorriso limpido, prima di dare due rintocchi alla lastra di legno.
Quella che mi separa dal mio dolce corallo.
Ma non sento nessun rumore.
Potrebbe essersi addormentata, e quindi riprovo.
Niente. Aspetto minuti che sembrano ore, interminabili, e una contrazione arriva allo stomaco che si attorciglia come un serpente su se stesso.
La paura striscia addosso al mio corpo, e afferro le chiavi di copia, che potrebbero spezzare la serratura da come giro funesto, e appena il cigolio mi consente di vedere l'interno, scopro che non c'è.
Il letto rifatto perfettamente. Tutte le cose al suo posto.
Mi dirigo in bagno, e non c'è neanche lì.
E sul monitor del locale, non era tra le ragazze a ballare.
Dove cazzo è?
L'ira sfocia fuori dal mio corpo e con un colpo sonoro chiudo la porta, dove l'eco scoppia tra le pareti e mi fiondo di nuovo da Dominick.
Colui che sussulta per il tonfo secco che fa cozzare la maniglia della porta, contro il muro e si volta fulmineo e stranito, verso il mio volto trasfigurato dalla preoccupazione, mista a rabbia.
Mi piazzo accanto a lui, per visualizzare anche i corridoi della struttura.
«Alex.» Il mio nome suona come una domanda, mentre i miei occhi schizzano come palline impazzite, che rimbalzano da una schermata all'altra.
«Mettimi la sala del mio privè.» Gli ordino perentorio, mentre scuote la testa rasata con dubbiosità, circa il mio comportamento.
Batto freneticamente il piede a terra, e la gamba sembra darsi slanci da sola da quanto si molleggia sul posto.
«Mi hai detto di togliere la telecamera da lì.» Mi ricorda il mio stupido ordine, e le dita finiscono contro i capelli che tiro come un dannato, per scagliare la stessa mano sul muro con un picchio netto.
«Cazzo.» Sbotto frustrato, e ora quel sentore di paura, si fa più prepotente dentro lo sterno che si comprime.
I polmoni sembrano compressi, e l'aria viziata mi nuoce ancor di più.
Un sentimento mai provato, cova e cresce nel minuto esatto che realizzo che lei non può essere lì.
«Manda tutti a controllare per i corridoi che danno verso l'esterno.» Il mio comando vigoroso, insieme alle rughe che solcano il mio volto e le iridi che bruciano come tizzoni, lo fanno scattare in piedi e uscire di fretta per mandare l'ordine alle guardie.
Esco anche io fuori dalla stanza, per correre ovunque.
La suola delle mie scarpe, riecheggia come un eco straziante, che picchia sul pavimento con veemenza.
La giacca si innalza su i fianchi, creandomi brividi di freddo sul corpo, che di più sono i brividi di terrore che mi percuotono.
Finché non sento un lamentio tenue e impaurito, e subito dopo un colpo secco, che corro a perdifiato nella direzione da cui proviene il suono.
La sensazione che Coraline sia in pericolo, mi brucia le viscere.
Brucia il mio corpo.
Brucia il mio organo di ghiaccio.
Appicca un incendio di proporzioni cosmiche, nel mio sguardo iroso.
E capisco che posso manipolare tutti, tranne me stesso.
Sfilo la pistola, ferma tra la cintura di cuoio nera, dietro il fondo schiena.
Ma é come svolto l'angolo che vedo il portellone bianco, dove fiero annuncia l'uscita in verde al neon e non capisco più niente.
La fiammante sensazione che sia in pericolo, mi trafigge come aghi appuntiti.
Come se del filo spinato avvolgesse il mio corpo, e mi butto a perdifiato oltre la porta.
Il vento blande come una sferzata feroce la pelle, e il buio della sera mi inghiottisce nelle sue fauci.
Ma un serpente vede anche al buio.
La ghiaia scricchiola sotto le mie suole, e poco più in là, la macchina che parte con un rombo si fa strada nelle mie iridi.
«Fermo.» Grido minaccioso, al vento. Contro la macchina, e il grilletto che vibra contro il mio indice, spara due colpi contro il lunotto.
Inseguo la macchina con le gambe dotate di un autonomía propria, poiché il cervello resta segregato nell'unica parole che mi tartassa: pericolo.
Direziono la mano verso le ruote, che manco, sparando solo a qualche sassolino, e so che sto sprecando pallottole, energia e tempo.
Mi avvicino verso la mia Berlina nera, montando dentro come un razzo, e in un secondo le gomme stridono e mi sto già imbattendo sulla strada.
Le macchine sconosciute ci sfrecciano affianco, ma io sorpasso per seguire la Range-Rover.
I lampioni e gli abbaglianti di alcune macchine, non riescono neanche per un attimo a distogliermi dal mio mirino.
Fa una svolta in prossimità di un sentiero senza mettere la freccia, e impreco per essere andato troppo avanti.
Non m'importa neanche delle macchine dietro, che faccio una retromarcia contro ogni regola, e giro velocemente il volante divenuto scivoloso dal sudore che mi fa prudere i palmi, per svoltare.
Le falangi si serrano attorno al cuoio, dando più gas con il piede che spinge quasi a sfondare il pedale dell'acceleratore.
Abbasso il finestrino, sporgendo la mano libera oltre, e provo di nuovo a sparare, centrando solo la carrozzeria.
Rischierei di farli sbandare, e perderla sul serio.
«Fanculo. Cristo!» Non peso neanche più le parolacce che tuonano fuori dalle mie labbra disidratate.
Il corpo teso come un elastico, dove lasciando la presa schizzerà.
Mi sento una smerigliatrice, capace di affilare, tagliare.
La chiamata di Dominick lampeggia sul cruscotto, e accetto per sentire subito la sua voce affannata.
"Dove sei?"
"Siamo sulla strada per il Red Rock Canion." Non c'è bisogno che gli dia ordini di venire, ci perdiamo in altre discussioni o domande del cazzo, che chiudo la chiamata con il chiaro intento che ci raggiunga.
Continuo a inseguirli, con il fuoco che mi ostruisce il fiato nei polmoni, incendiandomi come un mucchio di paglia.
Siamo su una strada deserta. Nessuna macchina. Osservo la sterpaglia incolta che delimita l'asfalto, in prossimità delle montagne rocciose, finché non lo vedo fermare la macchina nel mezzo.
Subisco di conseguenza una frenata brusca, e prima che possa scendere, poco distante dalla
Range -Rover, lo noto uscire.
«Lasciala.» Trapano l'aria gelida con la voce tagliente, e nel secondo che si gira nella mia direzione, noto una Magnum impugnata nella mano inguantata. Un sorriso perfido che mostra i denti corrosi dal fumo, e il mio corallo tenuta tra le braccia dell'uomo con dello scotch argento sopra le labbra.
Gli occhi accerchiati di rosso, come la pelle che sembra irritata dal pianto che cola ancora verso il nastro fino al mento.
«Lasciala o sei morto.» Riacquisto un briciolo di controllo, nella mano però che trema dove le dita avvolgono il calcio della mia Beretta, so e ho paura che scopra che non sono affatto rilassato.
Mi avvicino di un passo, e come lo faccio lo vedo puntare la canna sulla tempia di Coraline che trema, e le dita si serrano più forte sulla mia pistola, quasi a disintegrarla.
«Myers sarà contento. La nascondevi?» Il tono di voce divertito e compiaciuto con un sorriso malevolo, insieme all'accento Serbo, rinfocolano la mia pazzia.
«Ti ho detto di lasciarla.» Ricalco con più enfasi e lentamente.
Rivolgo uno sguardo verso gli occhi di Coraline, che mi osserva come a supplicarmi.
«Myers pagato, per averla. Tu vieni qui, lei...» Picchia due volte la canna sulla tempia di Coraline, che stringe le palpebre tra loro, distendendo le pieghe grinzose del nastro adesivo.
«Morta.» Ringhia sprezzante, e l'unica cosa che posso fare quando allontana la pistola dalla sua tempia, e ride rivolto verso Coraline che trema in spasmi convulsi, é di puntare velocemente la canna della mia Beretta, contro la sua magnum.
L'indice preme docile sul grilletto che vibra felice, e gli occhi seguono la traiettoria dello sparo, che finisce contro la sua pistola che schizza via dalla sua mano, finendo oltre l'erbacce.
«Cazzo...» Si volta fulmineo verso di me, e lo noto allentare la presa da Coraline che si accascia sull'asfalto, paralizzata dalla paura.
Corro verso il Serbo, conscio che non posso ucciderlo senza avere più informazioni, e pregando che Dominick arrivi presto.
La mano destra si serra in un pugno capace di far schizzare le vene oltre la pelle, gonfiandole, e senza dargli il tempo di attaccarmi, sferzo un pugno sulla mascella che gli fa voltare la testa di lato e sputare un rivolo di sangue scarlatto.
Il colore che mi dona brillantezza negli occhi.
Non perdo tempo a farlo raccapezzare, seppur più robusto, gli cingo il collo tra le dita che stringono come un cappio, e lo sbatto contro la carrozzeria della macchina.
I pugni schizzano sul suo viso come martellate, mentre il suo ginocchio mi sferra un calcio sullo stomaco, che mi fa piegare solo un secondo.
Finché non sento il rumore di uno sfrecciare, e subito dopo il tonfo di uno sportello chiuso di botto e la figura di Dominick, affiancarmi e tirare un pugno decisivo su un uomo di Myers, e subito dopo venir legato, e infilato un sacco di iuta sulla testa.
«Portalo nel seminterrato.» Lo avverto con la voce espirata, riprendendo fiato e lo noto annuire, caricandolo come un sacco dell'immondizia, nel portabagagli.
In due falcate, mi acquatto sulle ginocchia, difronte a Coraline. Inerme e indifesa, con le ginocchia contro al petto e la testa affossata. La schiena ricurva è scossa da spasmi di paura per ciò che stava per subire. Per ciò che sono.
Come le lumache che si ritirano nella loro casa.
«Coraline.» Cerco di essere tattile nella voce ancora spezzata dall'ira, e provo a poggiare un palmo che trema sul suo ginocchio scoperto.
Lo stesso dove sobbalza e si scansa più rasente alla struttura della macchina.
«Cora...» Non riesco a pronunciare il suo nome, che si strappa lo scotch e la sua voce infangata dal pianto mi raggiunge.
«Chi...chi è, quello?» Rialza lievemente la testa, e osservo afflitto, il suo nocciola traboccante di perle salate, in procinto di scendere a irritarle ancor di più quella pelle baciata dalla luna.
Un profondo respiro, viene inghiottito dall'aria fredda, e porto i palmi a riscaldare le spalle gelide di Coraline, che si rilassa contro il mio dolce sfregamento.
«Dobbiamo parlarne. È arrivata l'ora. Ma prima torniamo.» Le confido dolce come non sono mai stato. La paura di perderla mi ha reso folle. La voglia di uccidere l'essere immondo mi sguazza dentro, e voglio lasciar sfociare tutto al di fuori.
L'aiuto a rialzarsi, e le sue esili braccia, si stringono attorno al mio collo, alzandola di peso per sistemarla lentamente sul sedile. E adoro il modo in cui si abbandona a me. In cui il suo corpo che trema si rilassa. Come se dopo tanto freddo fossi un manto caldo capace di infonderle calore e protezione.
«È tutto finito.» Mi chino a sussurrarle intriso di tenerezza, quelle parole,sul suo viso dove le guance si riprendono il suo colorito roseo che la rende preziosa.
Sfioro in una carezza la sua spalla. Scendo placido verso il suo ventre, e la sua testa si affossa contro il sedile di tessuto.
Il fianco. Le sue labbra si abbandonano ad un sospiro che mi illumina un punto che non riesco a capire, nel mio interno.
E la serratura del clic alla cintura, farla sorridere ad un millimetro dal mio viso.
«Rilassati.» Cerco di rendere tattile e morbido, il mio ordine e il suo cenno affermativo con la testa, mi da il permesso di fare il giro e innestare la marcia per partire.
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