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Capitolo 19




{Caroline}


Non posso fare a meno di pensare, a ciò che stava per succedere la sera prima, se Patricia non avesse interrotto il nostro idillio.
Il ricordo mi scotta la pelle, anche sotto l'acqua fresca che piove dal soffione e punge appena come aghi.
Proprio come punge l'essenza di Alexander.
Lui che prima di tuffarsi sul letto, ha rivolto lo sguardo al pavimento, e mi ha trovata distesa, regalandomi un sorriso che mi ha fatto addormentare con sogni di principesse e principi.
Ma la realtà é che questo non é un castello.
Non é una fiaba.
E io mi sono infatuata del mio carceriere.
Potrebbe essere il mio aguzzino anche, e uccidermi quando meno me lo aspetto.
Eppure ogni volta che mi trovo tra le sue braccia, io mi getto allo sbando.
Mi lascio trascinare dall'emozione che un suo solo tocco, mi scaturisce dentro.
Una vera esplosione nucleare, che rimbomba in ogni fibra.

Mi ripeto che uscirò prima o poi da qui.
Non so quando.
Non capisco perché mi tiene ancora, se non ballo se non per lui.
Ma l'idea di andarmene poi e di fargli scontare ogni pena, mi fa franare nello sconforto.
E allora mi arrendo forse, alla consapevolezza, che sono masochista e che Vlokov é una malattia pericolosa.
Una di quelle che si instillano sotto pelle, e da lì non si schiodano più, in nessuna maniera.
Di quelle che la mancanza ti distrugge piano.
Che la presenza ti rinvigorisce, contro ogni raziocinio.

É tutto il giorno che sono in fibrillazione.
Da quando stamattina ho sentito un rintocco di nocche alla porta, e appena l'ho aperta ho trovato una busta con dentro una mini Sacher, e un bigliettino: Scusami per come é finita ieri, spero di farmi perdonare. Ci vediamo stasera.

E non ho potuto resistere al battito che mi ha scosso, come se avesse blandito la mia anima con un semplice gesto e due parole.
Ma nessuno si era mai scusato con me, e forse il Cobra é molto più di ciò che fa apparire.

Mi preparo minuziosamente, aspettando con trepidazione, di vederlo nella luce soffusa, circondato da un'oscura brillantezza che mi affascina.
Mi fermo le autoreggenti con le clip del reggicalze in tulle trasparente, ricamato in dei motivi neri.
Sfioro con l'indice la coscia, e lo immagino sulla poltrona. La stazza imponente che riempie lo schienale.
Il gomito puntellato sul bracciolo, mentre si liscia il mento, come ad apprezzarmi.
Aggiusto la spallina del reggiseno trasparente, da cui si intravedono i capezzoli rosei e già appuntiti nell'eccitazione della sua vista.
La camicia che tira sulle spalle ampie. Aderisce come una seconda pelle su quel torace.
Quel corpo che riesce a imprigionarti e racchiuderti.
Un serpente che ti stritola nella morsa, e il suo carattere muta come la pelle dei serpenti.
Riesce a confonderti, e tu sei persa nel desiderarlo.
Nel venir rapita dai suoi occhi, dove chiudo dolcemente i miei, per visionare meglio quell'azzurro dei nevai nordici, che si perdono in pagliuzze cobalto e nel contorno bianco ghiaccio.

Il cuore mi slitta in gola, quando la musica lenta e sensuale, invita il mio corpo a rivelarsi.
Le dita tremano, sulla stoffa del tendaggio, e con un sospiro la tiro da una parte per slanciarmi con la stessa mano al palo, dove faccio una giravolta attorno, come a mostrarmi in ogni angolazione.
Il buio mi copre, e l'unico spicchio di luce é puntato su di me, e sul palo che luccica.
Arcuo la schiena che tocca il palo freddo, al contatto con la mia pelle che scotta.

Anche se non lo vedo, le mie iridi trasfigurate dalla sua immagine che mi tormenta, lo localizzano nell'ombra tenebrosa.
Rilassato e composto, quando dentro é un trip che ti sballa.
Mi sgancio il reggicalze, e lo getto con un gesto lento della mano, al lato del palco.
Mi volto di schiena, serrando le dita attorno al palo e piegandomi in avanti, per mostrargli il filo sottile che divide le natiche.
Lo sento tirare, e di più tra le labbra, dove la stoffa é pregna di umori.
Il clitoride viene sollazzato dallo sfregamento del tessuto ad ogni passo che faccio, e potrei venire così.
Davanti ai suoi occhi.
Essere presa e posseduta.

Ballo con la gamba aggrappata al palo e il collo reclinato all'indietro, dove i capelli ricadono giù come il tendaggio che copre le quinte.
Lo sento spogliarmi ancor più di quanto non lo sia.
Avverto la sua brama che diviene la mia.
La durezza che ieri mi ha mostrato. Fatto sentire.
L'urgenza di strapparci le labbra e i vestiti, ma senza frenesia. Dolcemente. Come se mi stesse aspettando da tanto, e volesse scoprirmi piano. Le dita dolci che mi sfioravano.
La lingua a lambire il suo pollice.
Ancora i suoi occhi straripanti di voglia perversa.
I miei che gridavano: Prendimi.
Glielo grido anche ora con tutto il corpo che si tende e prima di slacciarmi il reggiseno e finire lo spettacolo, il battito di mani mi raggiunge.
Ascolto il suono che sbatte ad eco tra le pareti, surclassando quello della musica che cessa di colpo, come il mio respiro.

Se c'è una cosa che ho imparato é che Alexander mi aspetta. Si gode tutto e poi osserva se mi offrirò come preda, o dovrà ancora cacciarmi prima di vedermi rotolare ai suoi piedi.
Luí non batte le mani. Questo non é il suo suono, e le gambe subiscono un tremolio, come il mio sguardo che si pietrifica.

Metto a fuoco l'ombra e la noto alzarsi, mentre a piccoli passi cerco di retrocedere.
Se forse non farò domande, sarò lasciata perdere.
Intrattenere solo se richiesto, e l'ombra che minaccia di avvicinarsi, non fiata.
Il mio respiro frenetico, riempie il silenzio.
Straripa da quanto schizza.
Arretro sempre di più, come se lui studiasse me, e io come fuggire.

Ma neanche il tempo di voltarmi del tutto e scappare, che una presa ferrea mi agguanta per il ferretto del reggiseno, trainandomi contro un petto tonico.
Il rumore del tessuto che si lacera, mi fa piovere nella paura.

«Chi sei?» Strepito grintosa, per non mostrarmi mai debole, mentre la sua mano mi spintona malamente.
L'impatto del mio ventre che sbatte contro il perimetro del tavolo, mi fa strozzare un colpo di tosse, offuscato dal rantolo sofferente che espiro fuori in un conato graffiato.
Non riesco a riprendere fiato, che il rigonfiamento duro contro la patta, sbatte tra le mie natiche, che cercano di divincolarsi, per sgusciare via.
I polsi vengono imprigionati dalla mano grande, mentre continuo a gridare chi é.

Mi ricordo che ci sono le telecamere e qualcuno mi dovrà pur vedere.
Dominick.

"Da domani voglio le telecamere del mio privè spente."

Le parole di Alexander, piombano come catrame sul mio corpo che si paralizza, e come se avesse avvertito i miei pensieri, la risata mi raggiunge.

«Myers sarà contento. Pensava di proteggerti, tenendo qui te.» La voce acuta e sgradevole, dall'accento Serbo, accompagna delle frasi dalla pronuncia mal masticata.

«Chi é, Myers?» Getto di botto la domanda, cercando di liberarmi dalla presa che si rafforza, e indolenzisce i polsi dove stringo i denti.

«Tu non devi chiedere. Tu zitta.» Ruggisce in un sussurro contro il mio orecchio, dove il tanfo di un liquore mi solletica fastidiosamente le narici.

Sento le mani che tengono i polsi, e il suo corpo che mi spinge verso le quinte.
«Chi é? Chi cazzo sei te. Alexaa...» Il nome sgolato di quello che per me ora non é più un aguzzino ma il mio salvatore, viene ucciso dal palmo dell'uomo, che continua a farmi incedere in avanti.
L'eco dei suoi scarponi combatte contro il rumore del mio respiro.
Lo sterno duole. I polmoni implodono. Richiedono aria di cui vengo privata.
I tratti del volto si contorcono di dolore e voglia di ribellarmi.
Provo a scalciare, inutilmente sotto la forza.

«Ora conduci me, all'uscita. Senza farci vedere.» Strabuzzo gli occhi e sto per gridare di nuovo quando toglie la mano, ma vengo nuovamente fermata dallo scotch che viene pressato con violenza contro le labbra che si attaccano tra loro dolorosamente.

«Mmmmmhhh.» Strillo contro lo scotch invano, oltrepassando il privé da dietro.
Provo a sbilanciarmi in avanti con il busto per fargli mollare la presa su i polsi che divengono sempre più debole, poiché so che dietro le guardie non ci sono mai.
É l'unico accesso alle ragazze, a cui possiamo accedere con un badge di riconoscimento.

«Badge.» Intima vigoroso e risoluto, contro il mio orecchio e scuoto la testa più volte.

«Badge. Ora.» L'accento Serbo graffia le corde vocali, e sento qualcosa di appuntito e freddo contro la vena del collo che pompa furiosa.
Le pupille si dilatano come elastici, e cerco di rivolgere appena lo sguardo per notare un coltellino tenuto nella mano, che mi fa stringere le palpebre dalla paura di morire così.

Gli faccio un cenno della testa verso il badge, e prego affinché qualcuno venga dietro.
Prego affinché Alex mi cerchi.
Prego perché non si é presentato lui.
Era tutto calcolato?
Luí lo sapeva?
Poi mi ricordo che il biglietto era scritto al computer, e Alex scrive sempre su biglietti bianchi ruvidi e con le sue dita.

«Mmmmh.» Sono le uniche parole che riesco a sprimacciare con lo sforzo della gola, e non sono neanche udibili se non a noi due.
La Lucina verde da l'accesso a sorpassare la porta, che si richiude dietro di noi, e restiamo rasenti al muro evitando le telecamere.
Cerco di spostarlo verso quella direzione, per farci riprendere ma la sua presa é violenta.

La porta bianca che annuncia in verde -Exit- é quella che potrebbe sancire la mia fine.
Provo ancora a liberarmi, ma uno schiaffo potente mi raggiunge lo zigomo, facendomi sputacchiare della saliva sullo scotch, e l'impatto subito farmi accasciare tra queste braccia.

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