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Capitolo 18




$ Alexander $

Piú la guardo, più le mani prudono, più l'imposizione di stare calmo é uno sforzo immane, che nel mio cervello manda tutto a fanculo.
Immagino il mio corallo, seduta sul tappeto verde che riveste il tavolo.
La immagino nuda, o con il vestito arrotolato attorno ai fianchi sinuosi.
La immagino a cosce aperte, le braccia allungate all'indietro, e lasciarmi fare di lei tutto ciò che richiedo.

Le avevo chiesto di mettersi l'abito nero, ma sapevo che la mia richiesta, l'avrebbe presa come una sfida e, Cristo! Con questo vestito bianco é uno Zircone splendente.

«Hai vinto, Vlokov.» Già ho vinto, sul numero più improbabile, scelto dal mio portafortuna.

Allungo la mano, per afferrare quella di Tomas Carter, in una stretta ferrea.
«I soldi te li darà Dominick. Mi aspetto la tua parola.» Lo avverto serio, notandolo annuire e salutare con un occhiolino da casca morto, Coraline che si stringe di più al mio fianco.

E rido! Cazzo se rido. Internamente, perché al di fuori sembrerei un vero imbecille, e confermerei solo la teoria di Dominick, sul fatto che mi abbia rincoglionito questa ragazzina.

In realtà non so neanche io, il motivo, per il quale l'ho invitata.
Perché le ho permesso di entrare in una parte di me.
Cos'ha lei che le altre non hanno? Tutto o niente.
E io lo so bene, che a scommettere bisogna o puntare su tutto oppure Foldare.

Avanziamo lungo le scale, poiché la serata é al termine.
Coraline non emette fiato, sembra persa in qualche suo ragionamento dentro il suo fedele cubo di Rubik, per trovare la sequenza esatta in cui girarlo.

Vorrei spezzare il silenzio, e non mi capacito del perché.
Io amo porre domande, ma questa ragazzina, inizierebbe a rifarne altre, quasi sul crollo di un logorrea avanzata.
E voglio essere onesto, la preferisco quando sta zitta!
Potrei additarmi come un grandissimo bastardo, ma odio essere fratturato i coglioni.

E comunque é inutile iniziare una conversazione, poiché ci fermiamo entrambi, davanti alla porta di camera sua.
Posso sentirne il suo profumo dolce che la riempie, anche da fuori. 
I sospiri che rilasciamo in simbiosi, carichi di parole sospese su un filo.
Carichi di aspettative.
Pieni di rassegnazione.

Si gira lentamente con una torsione lieve del busto, verso di me che le resto di spalle, e un timido sorriso le affiora su quel volto perfetto.
Le ciglia lunghe subiscono un dolce fremito, e la ciocca che le ho sfiorato, ritorna a solleticarle la guancia destra.

«Beh...Buonanotte, Vlokov.» Sibila nell'aria calda del corridoio, il mio cognome, con una cadenza che mi fa imprecare i santi che neanche conosco.

Ed é frustrante immaginarla aprire la porta, invitarmi ad entrare, strapparle il vestito e scoparla incessantemente.

«Si, buonanotte.» Ecco a voi, lo scorbutico più scorbutico di tutti. Ma devo convenire con la mia parte animalesca, che potrei pentirmene e fare ciò che devo evitare.

Non le lascio il tempo di ribattere, poiché le labbra che si piegano in una smorfia stizzita, presagiscono un nuovo duello di lingue, mentre nella mia testa quel duello non é certamente a parole.
Perciò percorro il corridoio e mi rintano nella mia camera.
Passeggio avanti e indietro come un'anima in pena.
Mi faccio seriamente pena. Sono irrequieto.
Mi stropiccio i capelli con le dita.
Mi faccio monologhi da solo, come un vero pazzo prossimo ad una clinica psichiatrica.
Lo sguardo implora di guardare il pavimento, per scoprirla spogliarsi e buttarmi nella dannazione eterna.
Una visione che neanche una doccia ghiacciata, potrebbe placare l'erezione di acciaio, che mi trovo tra le gambe.
Morirò con le palle viola. Ne sono quasi certo.
É assodato.
Scopare con mille, ed essere eternamente perseguitato dal suo viso aggraziato.
Dalle sue movenze timide, battagliere. FOTTUTAMENTE sensuali.

«Fanculo!» Sbraito nel silenzio della camera, e come sono entrato, esco nuovamente.
Percorro con un'esigenza quasi vitale, le scale, e finalmente raggiungo di nuovo la sua porta.
Che tu sia dannato,Vlokov!
Parlo anche da solo.
Mi gratto la fronte, esasperato dal mio comportamento bipolare.
Fisso la porta, come se fosse la cosa più interessante su cui abbia mai posato gli occhi.
Ma di che cazzo, di disturbo soffro?

«Se non bussi, non credo che riuscirai ad oltrepassarla.» La voce sogghignante di Dominick a pochi passi da me, mi fa stringere la mano in un pugno.

Mi volto verso di lui, che maschera un sorriso sotto i baffi che non ha, e neanche il mio sguardo ormai lo intimidisce più.
«Levati dalle palle, Dom.» Maciullo inferocito tra i denti, e lo stronzo del mio amico, alza le mani in aria con un risolino che mi manda in bestia.

Ecco cosa sono diventato! Un cazzo di zimbello!

Butto fuori un respiro teso, e con le nocche, batto due rintocchi netti sulla lastra in legno.
Ormai, il danno é fatto!
Questa cosa che comincio a parlare da solo, deve morire qui.
Ma muoio ancor di più appena sento il cigolio della maniglia, venir abbassata, e la sua immensa bellezza apparire.
Si é cambiata. Indossa un pantaloncino di raso viola corto, e un top corto del medesimo colore, con dei ricami in pizzo nero che mi offrono una scollatura, sul suo seno florido, altamente peccaminosa.

«Alex...Alexander.» Cinguetta stupita il mio nome, guardando oltre le mie spalle il niente assoluto.

«Che ci fai qui?» Si riscuote dall'evidente sorpresa, e poggia il fianco contro lo stipite, mentre io mi gratto la nuca come un vero coglione.

«Stavo pensando che ho un lieve languore.» Me ne esco con una frase del cazzo, come una confidenza oscura.
Osserva il tuo crollo, Vlokov!

«Fanculo!» Sbotto esasperato e la noto ritrarre appena il collo all'indietro e fare una smorfia attonita.

«Come, scusa?» Oh cazzo! Cazzo!

«E sostanzialmente, cosa ci fai in camera mia? Credi che mi tenga una scorta di carne in scatola, per quando sopraggiungerà l'apocalisse?» Soggiunge aspra, nel confutare il mio evidente silenzio.

«Hai fame?» Le domando in un sussurro caldo, lasciando che il mio sguardo rovente le scivoli addosso. Miro le suo cosce che si serrano, accavallando le caviglie per frenare un languore che non ha niente a che vedere con il cibo.

«Io...» Mi fissa confusa, afferrando con i denti il labbro inferiore, che vorrei divorare.

«Non é difficile, Coraline. O si o no.» Le comunico come una rivelazione, attendendo impaziente il suo verdetto.

«É chiusa la cucina.» Ribatte prontamente, come se non ne fossi a conoscenza.
Difatti il sorriso che le rivolgo, increspato, la dice lunga.

«Sai cucinare?» La stuzzico divertito, mentre scrolla le spalle con sufficienza.

«Sono una cuoca provetta.» Si limita a snocciolare, e mi viene naturale sorridere di cuore, e lasciare che chiuda la porta per seguirmi.

«Sono per caso, le ultime parole famose prima di avvelenarmi?» Inarco dubbioso un sopracciglio, dove si morde di nuovo quel dannato labbro polposo.

Si avvicina lenta verso di me. Il suo braccio sfiora il mio, creando una scossa.
L'aria diventa elettrica e le sue labbra si schiudono attorno al mio lobo, facendomi salire la voglia di cibarmi di lei.
«Non istigarmi, Vlokov.» Ripete seducente, la frase che le ho detto prima della serata. Quando volevo annullare tutto e scoparla, attaccata al muro.
Oh dolce corallo, la prendo come una sfida. E a me le sfide eccitano, tanto quanto me lo fai rizzare te.

Percorriamo in silenzio i corridoi, illuminati solo dalle applique affisse sul muro.
Giungiamo alla cucina, e appena spalanco la porta, Coraline entra estasiata.
I mobili, pensili e piani cottura tutti una metallo, risplendono sotto la luce.

Fa dei passi avanti, toccando con le dita affusolate, il piano di lavoro perfettamente ordinato, con ogni strumento necessario.

«Cosa propone la cuoca?» La provoco sarcastico, mentre rialza la testa e si avvicina verso il grande frigo, per aprirlo con un rumore refrigerato, che spezza il silenzio all'interno della stanza.

Ci infila quasi dentro la testa, dubbiosa, e si piega leggermente, offrendomi una visuale così notevole, da intimarle di restare così.
Si tiene ferma i capelli con una mano come a formare una coda, per non farli ricadere in avanti e la noto tirare fuori delle cose.

«Abbiamo un avocado. Del salmone affumicato. Uova.» Elenca cristallina gli ingredienti, per non so quale ricetta.

«quindi?» La incito a dirmi la sua straordinaria ricetta in cui prego di non rimanerci secco, e mi avvicino a passo sostenuto con un sorrisetto laterale, in una parvenza di sfottò che non coglie, troppo presa ad aprire i pensili.

Si alza leggermente sulle punte, e afferra del pane in cassetta, rigirandosi ilare verso di me.
Noto le sue iridi nocciola, risplendere cristalline e un dolce sorriso solcare le labbra a cuore.
«Che ne dici di un'avocado toast?» Mi pone vivace la domanda, dove ormai ha già predisposto gli ingredienti.
Mai provato, ma credo sia inutile ribattere se lei ha già scelto per entrambi.

Innalzo le spalle in un movimento di assenso, e scuoto leggermente la testa.
Arranca una padella per metterla sul fuoco a scaldare. Un tagliere su cui dispone il salmone, e prima di tagliare, prende l'avocado e lo passa da palmo a palmo come un palleggio.

«Non crederai di restare a guardare. Taglialo.» E così affermando birichina, mi lancia come una palla l'avocado che afferro con una sola mano.

Guardo come se fosse una specie aliena, l'avocado, rigirandolo con un sopracciglio innalzato, in una smorfia scettica.
«Almeno insegnami.» Mi diverto a sentirmi leggero. A prendere per una volta la posizione di alunno. Di abbandonare le redini. Di cedere al volere di una donna, riponendo la mia aria austera e rigida.
Potrei scoprire che c'è un'Alexander mai conosciuto.
Potrei aver paura di scoprire, che potrebbe piacermi.

Ci affianchiamo, lungo il piano di lavoro, e mi spiega dolcemente che va diviso a metà, tolto il nocciolo e scavato la polpa con un cucchiaio, disponendola una volta fatto dentro una ciotola per schiacciarla con una forchetta.
Ed é la prima volta che cucino con una donna, o che cucino in generale.
Amo vederla tagliare il salmone in pezzettini precisi.
Scaldare le fette di pane, e sistemare ogni ingrediente sopra, mentre mi lancia sorrisi sinceri.
Quelli di cuore, che mettono in mostra i denti perlacei e coinvolgono gli occhi lucenti.
Le guance gonfiarsi dolcemente e una graziosa fossetta formarsi al lato, rendendola semplicemente stupenda.
Struccata lo é ancor di più.

Mi rendo conto che sto iniziando a covare dei pensieri strani su Coraline.
Il problema soggiunge quando non riesco a farne a meno.
Ogni suo movimento dal più seducente, al più dolce e naturale, come quello di adesso, di portarsi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, mi affascina in un modo particolare.

«Insomma, da dove derivano le tue grandi doti culinarie?» Anche se é solo un Sandwich, devo ammettere che é buonissimo e il mio verso di apprezzamento lo lascia intendere.

Ingoia un piccolo morso del toast, pulendosi le labbra con un tovagliolo, prima di snocciolare.
«Da piccola guardavo sempre mamma e nonna, cucinare. Sono sempre stata una ragazzina riservata. E mentre le altre uscivano a divertirsi, io preferivo rimanere a casa e imparare.» Navigo nel suo sguardo felice e al tempo stesso coperto da un lieve pallore di tristezza, che mi contrae lo stomaco.

La osservo guardare il panino, per celarmi i suoi occhi e appena penso che non aggiungerà altro, mi rivela una cosa che già sapevo. Ma detta da lei, mi provoca una sorta di voragine che mi risucchia prepotente.
«Poi da quando mamma é morta, mi sono sempre occupata io di tutto. Sai...certe volte devi crescere in fretta per obbligo.» Un sorriso mesto affiora agli angoli delle labbra. É un sorriso di una ragazza che é già una donna. Di una che non ha avuto una vita semplice, e io lo so bene come ci si sente.
Quanta forza ci vuole per camminare senza arrendersi mai.

Miro la sua mano traballare attorno al panino, e vorrei prendergliela per non so quale istinto.
Per rassicurarla? Per farle capire che la comprendo.
Tira un altro morso al panino, e questo silenzio che ogni tanto si crea, mi piace.
Dona pace anche dentro un'anima tormentata come la mia.
Il suo sguardo rimane basso, e mi permetto di osservare del tuorlo che fuoriesce e le scivola in un rigagnolo sotto l'arco del labbro inferiore.

Un risolino tenue, mi sfugge dalle labbra e la sua testa si rialza, per incontrare i miei occhi.
La vedo storcere appena il naso in una smorfia buffa, ma prima che si porti il tovagliolo per pulirsi, allungo di getto il pollice, verso di lei.
Il mio busto si china. La schiena si curva.
Le mie ginocchia sfiorano le sue, e le iridi si baciano con estrema lentezza, la stessa che metto per percorrere quella dolce fossetta, che mi fa formicolare il polpastrello.
Raccolgo il tuorlo con calma, e porto il pollice tra le mie labbra, solo per assaporare il sapore della sua pelle ancora una volta.
Le sue pupille diventano due fari accecanti, che puntano le mie acque per non perdermi di vista.
La sua lingua passa tra quelle labbra che sogno sempre, e le guance si imporporano a vedermi succhiare il pollice.

«Io...io dovrei ri...puli...» Impasta le parole che escono molli e si sgretolano, e senza pensarci troppo, arpiono la sua mano per strattonarla tra urgenza e dolcezza, in grembo.

Un verso di stupore scappa fuori, rombando nel silenzio della cucina.
Le sue labbra si schiudono flemmatiche, e le mie dita si perdono tra le ciocche scure dei suoi capelli morbidi.
É così bella. Così calda sopra di me. Così morbida sopra la mia durezza, che scommetto avverte.
Si tinge sempre di più su quelle guance lisce come velluto, e so che se ora la bacerò, non sarò in grado di fermarmi.

«Alex.» Intona calda e voluttuosa il mio nome, crollando con la fronte contro la mia.
Le sue ciglia lunghe incorniciano le palpebre abbassate, mentre le massaggio la nuca.
Questo non sono io. Eppure con lei, sono tutto l'opposto.
Il non riconoscermi mi terrorizza, e al tempo stesso mi esalta.

«Sai dove ho imparato a giocare?» Voglio rivelarle qualcosa di me. Ancora. Senza nessuna logica che tenga in piedi.
La strada diventa sdrucciolevole ad ogni singolo passo che faccio, e forse poi si aprirà sotto i miei piedi e cadrò, ma non mi importa.
Non ora che struscia in segno di diniego la fronte contro la mia.
Non ora che é tra le mie braccia, pronta ad ascoltarmi e senza giudicarmi.
Avrebbe paura del mostro che sono.
Io stesso ne avrei. E prego che non lo venga mai a sapere. Che mi creda duro ma allo stesso tempo tenero.
Sono di più, e neanche lo so.

Le continuo ad accarezzare i capelli, per raccontarle uno squarcio.
«Avevo dodici anni e poco più. Ogni tanto nei vicoli vicino alla metropolitana, si radunavano dei signori, credo dei barboni, ma quando sei un ragazzino non ti curi di certe cose.
Ho imparato a non giudicare, perché quei signori mi guardavano con un sorriso, pur non avendo niente. Mi invitavano ad assistere a questi giochi che facevano per perdere tempo, escludere per degli istanti una realtà dolorosa.
E cosí mi sono appassionato. Ho fatto del gioco una maschera.» Le confido in tutta sincerità, la verità nitida.
Il gioco é solo un movente, che non ti fa sentire solo.

«E ora che maschera indossi?» Sussurra bassa, quasi timorosa, sollevando piano le palpebre, per incrociare gli occhi a metà strada.

I miei palmi si aprono, circondandole il volto, mentre i pollici massaggiano il lembo di pelle, sotto il lobo.
«Onestamente, non l'ho mai indossata, questa.» Sfioro con il respiro le sue labbra a pochi millimetri dalle mie.
La voglia di saggiarle mi sconquassa. Mi scombussola.
Si protende dolce verso di me, e mi arrendo come mai ho fatto.
Ma prima di poter toccare la sua morbidezza, la porta della cucina si spalanca con un tonfo secco, che ci porta a trasalire e girare la testa in contemporanea verso una Patricia ferma sull'uscio.

«Oh, incontri notturni.» Esclama beffarda, entrando dentro come se niente fosse, mentre mi rendo conto che Coraline si é già alzata imbarazzata.

«Non dovresti essere in cucina.» La rimprovero secco, notandola corrugare la fronte per niente intimorita.

«E lei si?» Indica con un cenno laterale, Coraline, che nel frattempo si volta di poco verso di me, per poi uscire diretta in camera.
Cerco di andarle in contro, ma la voce delusa di Patricia mi ferma appena.

«Lei non é come noi.» Ha ragione. É vero. Ed é magnífico sapere che esistono perle rare anche sul fondale.

Mi volto con lo sguardo severo verso di lei, che mi fissa. Spera di farmi capire che lei non é alle mia altezza. Ed é vero anche questo. Leí é al di sopra di me.
«Hai ragione.» Replico incolore, e ora vedo i suoi occhi sgranarsi.
Non sperare in cose che non esistono.

Poiché prima di darle completamente le spalle, mi volto a metà busto, e le sorriso mefistofelico.
«É migliore.» Incalzo consapevole di aver infangato anche me.

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