Capitolo 12
{Coraline}
Sono esattamente due giorni che non vedo il mostro dei nevai.
Dovrei essere sollevata.
Fare una danza per l'euforia.
E invece mi sento atterrita.
Da quell'evento imbarazzante, il soffitto é rimasto buio. Deserto. Desolato. Disabitato come la mia anima.
Ormai ho imparato ad accettare che se voglio uscire sana e salva devo fare buon viso a cattivo gioco.
Devo ballare, ma gli ordini sono sempre di non spogliarmi, e con questo pensiero riesco a racimolare un pochino più di coraggio.
Ciò che più mi logora e preme, senza raziocinio alcuno, è il sapere se stia bene o sia solo un pazzo che uccide senza pietà.
Il primo motivo mi fa rabbrividire per la preoccupazione, il secondo per la paura mortale.
Le macchie sono ancora vivide nel cervello che riproduce quell'immagine.
Poi mi ripeto che mi poteva uccidere, e invece sono qui viva, a vegetare interiormente.
Allora forse tutto ciò fa comunque di lui un assassino.
Lasciar vivere a metà, per decadere lentamente. Perché una morte veloce è sempre meglio che vedere la propria vittima, spezzarsi giorno dopo giorno.
«Per favore, Lena, non ricordarmelo. Ho ancora il suo sapore in bocca.» Sono seduta tra le altre ragazze, nella sala da pranzo.
Un altro ordine.
Ascolto con ripudio e immenso schifo, tutto ciò di cui parlano, mentre gioco con i denti della forchetta un pezzetto di uovo strapazzato, dove il buco allo stomaco sembra essersi cementato.
Anche di questo potrei esserne un minimo gioiosa.
Il non dover più essere obbligata a mangiare come una detenuta in isolamento, come in un carcere di massima protezione.
Le risate sguaiate, mi giungono fastidiose all'udito, facendomi portare due dita a massaggiare la tempia.
Nonostante siamo tutte insieme su questo tavolo che occupa quasi tutta la sala abbellita solo da quadri moderni, affissi sul muro bianco, io resto trasparente per loro.
«Tu, nuova arrivata? Ho sentito che sei stata molto richiesta nei privé.» Scarto anche il bacon, che sembra una soletta consumata.
«Parlo con te. Carolina?» Obbligata a sentire questa voce starnazzante, insieme a mille galline con la giugulare carpita.
«Coraline.» Al mio nome, sollevo il volto, scoprendo che Patricia mi sta fissando, mentre scivolo lo sguardo, trovandomi al suo fianco quello corrucciato di una ragazza bionda.
«Nei privé. Come ti sei trovata? Ho saputo che ti hanno richiesto.» Nei privé? Di cosa sta parlando? È evidente che dal volto e la voce incuriosita, aspetta una risposta.
Capisco in quel momento che la trasparenza non dura per sempre.
Che molte ragazze soddisfano dei clienti, creando maggiormente una voragine nel mio corpo fragile.
«Io...» Io...non so cosa dire. Come uscire, senza essere derisa. Ho passato tutta la vita, ad essere messa in un angolo, e in quel posto mi sono trovata bene. L'invisibilità mi é sempre piaciuta, per non entrare in situazioni scomode, quasi quanto lo è questa sedia.
Sto per replicare, che io non farò mai dei servizi a uomini viscidi, quando tutte le ragazze si zittiscono, e voltano il viso verso la porta a due battenti spalancata.
La forchetta cozza contro la ceramica in un rumore che fracassa il silenzio, mentre il cobra è fermo sulla soglia.
Sembra una macchia tetra, in mezzo a tutto questo bianco.
Una figura imponente, nel suo abito grigio fumo gessato e la camicia azzurra, in confronto a noi che sembriamo piccoli e insulsi scarafaggi.
Le sue iridi nordiche, esaminano ognuna di noi, con freddezza e indifferenza crudele, aumentando il mio respiro che si aggrava mano a mano.
Sondano. Studiano. Perforano.
Ripercorrono il tragitto inverso, tralasciandomi, per fermarsi agghiacciante e iberico, nei miei spalancati.
Il suo corpo è eccitante e forte come una Glock.
I suoi occhi sono pallottole di metallo che bruciano e scintillano nel buio terso.
E mi lascio andare. Lascio fare di me stessa il suo bersaglio.
Le pallottole mi investano, provocandomi fori su ogni lembo di pelle esposta, del mio corpo che brucia ma non sanguina.
Sono una maledetta masochista, che gode sadicamente di quel dolore, che le viene inferto.
Sono cosciente di tutto ciò e, mi va dannatamente bene così.
Continua a spararmi, a trafiggermi, a bucarmi.
E io sussulto ad ogni sparo preciso.
Sa la mira. La vede. Io la sento.
E come il migliore, come sempre, lo noto prendere la mira.
La sua mascella si irrigidisce.
I muscoli possenti si tendono.
Le sue pupille si ricoprono di un'ombra che lo rende pericoloso.
E ancor più pericolosa è la pallottola che punta sul mio organo più fragile.
Ma lui non se ne cura. Non ha riguardo.
Il grilletto delle sue iridi oscurate dalla sadica perversione, vibra, e poi mette il silenziatore, quando mi perfora il cuore.
Centro. Bersaglio centrato. E muoio per mano sua. Rinasco sotto il suo sguardo.
Ogni singola parola che si forma nella mia testa, non ha alcun senso.
Eppure mi sta fissando così.
Eppure mi sento microscopica.
La vergogna incendia ancora i miei sensi.
Il ricordo del suo membro tra le dita che ora sono nascoste dalle tasche dei pantaloni, mi angosciano.
Avverto le labbra screpolate, richiedendo uno sforzo immane per afferrare il bicchiere d'acqua, che ora sembra stagna.
«Buonasera, Signor Vlokov.» Recitano leziosamente in coro, ma non mi unisco a loro.
Lui che continua a guardarmi. Riduce a brandelli la stoffa di questa guêpière in pizzo nero, con delle stringhe in pelle che sembrano restringersi ad ogni occhiata, dove lo sterno si compressa.
Il suo saluto é solo un cenno con la testa verso il basso, per rialzarla con fierezza e sviare lo sguardo.
Lo noto avanzare verso il tavolo lungo, sfiorando con quella mano, le spalle scoperte di ogni ragazza qui presente.
E non dovrebbe bruciarmi, ma invece il senso di fastidio é insidiato prepotente dentro il mio corpo.
I sorrisi lascivi. Le risatine erotiche.
E poi la sento. La mano. Il tocco che infuoca.
La ruvida consistenza dei polpastrelli. La forza che emana una delicatezza disarmante, in questo sfioramento apparentemente innocuo sulla mia spalla.
Sento la pelle sciogliersi come cera colata, mentre il mio sguardo resta dritto difronte a me, tra le pennellate colorate di un quadro qualsiasi.
Il fiato cocente del suo respiro, sempre più vicino.
Cerco di non chiudere le palpebre e farmi assuefare dalle sue labbra morbide e piene, che si posano appena sotto il lobo dell'orecchio che trema.
Non voglio che assista alla mia caduta.
«Fuori. Subito.» Due ordini netti e gelidi, che mi paralizzano momentaneamente, per riprendermi nel secondo che il suo calore mi abbandona di botto.
«Perché dovrei?» La mia voce riecheggia, in questo silenzio venutosi a creare, e mille occhi si posano sbigottiti su di me.
Volto impetuosa il viso, verso il suo contratto da un'emozione che non so decifrare, agguantandomi in un secondo la coda stirata perfettamente tanto da tirare il cuoio capelluto.
«Perché te lo sto ordinando.» Sussurra grondante di malvagità, ad un soffio dal mio volto stizzito.
Dovrei opporre resistenza, ma so bene che devo patteggiare con me stessa, tra una parte razionale e quella completamente sconsiderata che ulula nel mio petto.
Mi alzo controvoglia dalla sedia, dove le gambe strusciano graffiate sulla pavimentazione lucida, per seguire le sue spalle fasciate dalla giacca, oltre la porta.
La sua falcata aumenta, cercando di stare dietro al suo passo lungo e disteso, ondeggiando sgraziatamente su i tacchi a spillo.
Getto un'occhiata a terra, per fissarmi la punta lucida della scarpa, finché la sua mano si stringe sul mio avambraccio, dove sussulto presa alla sprovvista, attaccandomi con la schiena al muro freddo.
Le natiche scoperte dal perizoma striminzito, sbattono contro, e provo a staccarmi di un millimetro, dove il suo corpo collide con il mio, schiacciandomi completamente contro la parete.
Sento l'erezione sul monte di venere, gonfiarsi, mentre una pulsazione violenta, si abbatte come un fulmine nel mio centro.
«La devi smettere.» Alita vigoroso, sul mio volto allibito dalla più completa confusione.
«Di fare cosa, esattamente?» Lo sfido equa nel tono, innalzando il mento per stare allineata alle sue iridi.
Calcolo il suo respiro teso. Le sue pupille che mi riflettono.
I suoi palmi che sembrano voler spingere il muro retrostante alle mie spalle, con le braccia flesse che non nascondono i muscoli tonici al di sotto della stoffa.
Il suo volto si abbassa appena, quasi a sfiorare le mie labbra, decidendo di lasciare la saliva a impastarmi la bocca.
«Di guardarmi così. Come se cercassi qualcosa. Come se volessi farti fottere a sangue. Come se...» Si sospende rauco e inebriante, mentre ripeto le sue parole sconnesse nel database del cervello, e avverto il suo palmo, scivolare sensuale sul profilo della mia natica.
Un sospiro mi scuote dentro e fuori, facendomi piegare la testa di lato, dove il collo rimane esposto alle sue parole bollenti.
«Mi desiderassi.» Conclude intrigante, quando poggio un palmo sul suo torace fasciato dalla camicia, e avverto sotto il mio tocco, una fascia o una garza.
«Sei ferito?» Lo chiedo frastornata, dalla sua mano esigente che vaga lungo la mia schiena, fino a circondarmi la nuca, in uno stritolamento dove neanche la paura bussa nel mio petto.
«Credo che le tue domande, siano fuori luogo, piccolo corallo.» Ribatte con sprezzo, poiché so che la mia era più un'affermazione stentata.
«Ti ho visto. Ho visto le macchie sulla tua camicia.» Snocciolo intimorita da una sua reazione, quella verità che mi tartassa il cervello.
I suoi polpastrelli si pressano, e credo, forse temo che resterà il suo marchio sulla mia pelle lattea.
«Non mi sembrava, che fossi molto interessata a quelle di...macchie.» Mi lascia intendere derisorio, ciò che ho fatto.
L'imbarazzo mi colora le guance, mandandomi una scarica di frustrazione irosa.
«Erano tue? Chi é stato?» Provo a scostarmi dal suo corpo che mi sconvolge, per riacquistare lucidità, volendo trovare risposte senza sapere il motivo.
Il suo sospiro si abbatte come uno schiaffo violento sul mio volto, e posso sentire distintamente un suo ruggito graffiargli le corde vocali.
«Stasera, ballerai solo per me nel privé.» Mi da quest'ultima informazione autorevole, senza spiegarmi nulla, prima di lasciarmi di getto dove barcollo all'indietro, scomparendo dal cipiglio stordito, che incornicia il mio volto.
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