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Capitolo 1


{ Coraline }

INGENUA: Persona priva di malizia. Conserva un'aurea di semplicità e purezza nell'anima e nel corpo.
Sono le tipiche persone che attraggono come la luce con le falene.
Credulona. Innocente. Candida. Senza un minimo di scaltrezza. Incapace di intuire le intenzioni malevole del mondo.
Ma sopratutto incline a farsi raggirare e manipolare.

Tante persone mi hanno descritta così.
Una povera anima pura, che vede sempre del buono dove c'è solo marcio.

La verità é che la mia vita non é stata una fiaba, dove il lieto fine é sempre il vincitore.
La vita mi ha tirato dei mancini, per prepararmi ad ogni catastrofe che si sarebbe abbattuta su di me, come un uragano estivo.

Saluto Megan con un bacio frettoloso sulla guancia troppo imporporata dal blush, e finalmente so che tra poco, dopo il turno straziante da Macy's, mi aspetterà un bagno caldo, un film e una coppa di gelato a fare da contorno, come una vecchia zitella.

Il problema é che non ho gatti, non ho animali in generale, se non un pesce che ho chiamato Nemo, come quello del cartone.
Mi sento un po' come lui, intrappolato dentro un posto dove vuole uscire, al tempo stesso ha paura di farlo per il non sapere cosa lo aspetta al di là, ma la voglia di evadere surclassa ogni piccola forma di terrore.
Vorrei trovare anche io il coraggio di evadere, o forse dissolvermi per non essere sempre torchiata da Jonas.
Lui é il mio ragazzo dai tempi immemori della scuola materna.
Era iniziata come tutte le storie, con un semplice bigliettino e una crocetta insignificante.
Invece quella era stata la croce che aveva già stabilito che il finto matrimonio nel piccolo giardinetto della scuola, diventasse tra poco reale.
Che l'anello fatto con lo stelo di una margherita appassita, divenisse un anello con tanto di diamante sopra.

E allora mi sento anche come quella margherita. Mi sento appassita alla stessa maniera. Calpestata più volte dal corso degli eventi, di una vita che non sento mia.
Barricata in una fortezza, dove non ho vie di fuga.
Sia chiaro che amo Jonas, ma é troppo possessivo.
Ragione per cui non mi sono costruita vere amicizie, se non Megan che posso vedere solo durante l'orario lavorativo.

Purtroppo per lui, oggi ho deciso di non andare a casa sua.
La nostra ultima litigata é risalente a ieri notte, dove mi pregava di concedermi, quasi costringendomi.
Ma come puoi fare qualcosa, quando non sei pronta ad affrontarla?
Sembrerà strano, ma sono esattamente illibata.
Non sento quel desiderio che mi spinge di andare oltre a delle semplici toccate, o il fuoco della passione.
Non sono una sprovveduta, certo, ma la nostra storia é divenuta così monotona, che le farfalle che sentivo prima, si sono richiuse nel bozzo.

L'unico posto dove posso andare é la mia vecchia casa.
Ed é lì che ora sono diretta, con il culo schiacciato sopra una sedia del Tram, e la puzza graveolente di sudore, che mi si schiaffa in faccia.

Non ci vado spesso, se non quasi per nulla.
Da quando é morta mia madre, quella casa é andata in malora, proprio come me.
Un cancro al seno, l'ha portata via quando avevo solo undici anni.
All'inizio mio padre mi rassicurava che sarebbe andato tutto bene.
Che ci saremo farti forza l'un l'altro.
Ma era un'utopia. Una mera illusione.
E non mi rendevo conto che mentre mi propinava quelle frasi, lui diventava dipendente da ogni tipo di alcol.
Pensavo fosse un momento, ma il picco era arrivato quando lo licenziarono da lavoro, e io dovetti rimboccarmi le maniche, per non pesare su Jonas.
Io lavoravo, mentre lui restava inerme sul divano consunto, felice di avere ancora il suo goccio di veleno.
Finché Jonas, non mi aveva trascinato via a forza, per la paura di poter subire violenze da mio padre.

Mi rendo conto di essere arrivata alla mia fermata, e raccolgo la borsa che tenevo in grembo, per scendere.
La strada é illuminata dai lampioni, nel quartiere di Tenderloin.
Altra ragione per cui Jonas é restio.

Mi tiro su il cappuccio del montgomery, e filo dritta per la strada, senza incrociare lo sguardo di nessuno.
Così si deve vivere in questa zona periferica.
In agguato e mantenendo un profilo basso.

Conto i passi, restando con le iridi nocciola puntate sul marciapiede ricco di escrementi canini, quando sento una spallata, colpirmi di profilo.
Trattengo un rantolo di fastidio, e continuo a camminare.
Non posso sviare lo sguardo, o tirare qualche imprecazione, nemmeno accertarmi se sia un uomo o una donna.

Tiro dritto, finché non vedo il paletto che sorregge la casella postale arrugginita, come nei miglior film horror, raggiungendo la porta di casa scrostata.
Sarebbe inutile bussare. Se mio padre fosse dentro, comunque non mi aprirebbe, troppo sbronzo ad oziare sul suo fedele divano che avrà formato il solco di quel corpo un tempo tonico.

Invece estraggo le chiavi dalla borsa, e con aria circospetta, quasi fossi una ladra, le inserisco nella toppa malandata, dove il cigolio sinistro, accoglie la mia entrata.
La puzza di stantio, invade il mio olfatto, insieme a quella dell'alcol dove alcune bottiglie sono ancora sul parquet in cui alcune travi si sono quasi staccate, cigolando.

«Papà?!» Lo chiamo quasi come un'esclamazione, con un tono di voce abbastanza spesso, per fargli intuire, qualora ci fosse che sua figlia é venuta a trovarlo.

Le serrande abbassate, buttano dai fori dei piccoli punti di luce, dovuti ai lampioni al di fuori.
Provo ad accendere l'interruttore, ma scopro che la luce é sicuramente stata tagliata, e vorrei sapere dove sono finiti i soldi che gli mando ogni mese, per assicurarmi che possa pagare le spese.
Ma purtroppo la risposta non arriverà mai, come non arriva la sua voce, in chiaro segno che lui sarà fuori in qualche bar di questa sudicia periferia.

Lascio andare un sospiro stanco e arreso, avviandomi verso la camera, ma il trillo vivace del telefono mi fa sospendere, per afferrarlo, prima di varcare la soglia e dare le spalle all'uscio della camera inondata dal buio fittizio.

Lancio con svogliatezza, la borsa sul divano, poiché il nome che lampeggia sul display, é quello di Jonas.

«Jonas!» Esclamo quasi come un avvertimento, per fargli capire che eravamo d'accordo di non sentirci per un po'.

«Sul serio? Sul serio, Coraline? Credevo che scherzassi quando hai detto che tornavi in quella baracca del cazzo.» Il suo tono adirato, mi rinfocola solamente, portandomi a tirarmi delle ciocche castane, con le dita che tremano di impazienza.

«Si da il caso che sia casa mia, ed eravamo d'accordo sul non sentirci.» Sbotto irosa, e ora avverto la sua risata contrariata come sicuro sia la sua espressione.

«Eravamo d'accordo? Stiamo per sposarci, Cristo. Tu sei mia.» Mi rimbrotta amaro, e vorrei sapere come funzionano queste frasi pietose.

Riverso la testa lungo il muro, per espellere altro fiato che comprime i polmoni, e calmare i battiti furiosi.
«É questo il punto, Jonas. Io non sono il tuo oggetto di cristallo, da tenere sotto una teca di vetro. Io sono la tua futura moglie, non un trofeo. Prima lo capisci meglio é. Ci sentiamo.» Non ho voglia di dilungare una delle nostre solite discussioni. Non ho voglia di sentirlo lagnarsi o sputarmi addosso la sua folle gelosia infondata. Perciò chiudo il telefono, prima che possa rispondere e subito dopo lo spengo.

Mi stacco con uno slancio fiacco, dal muro ingiallito con il tempo dal tabacco che l'ha impregnato, e non faccio in tempo a girarmi, che una risata sprezzante arriva raggelante al mio udito facendomi drizzare i peli sulla nuca.

Una risata che non é di mio padre, ma carica di derisione, e nel momento che spero di scorgere, accantonando il terrore che mi trafigge come spilli, chi sia, vengo attirata dal suo braccio che mi schiaccia lo sterno, contro un petto possente.

Le pupille risucchiano tutto il colore delle mie iridi, e un senso di impotenza, serpeggia lungo il mio corpo che rabbrividisce.
Cerco di dibattermi a più non posso.
Scalcio in una direzione che non so neanche quale sia, e urlo con tutto il fiato che ho in gola.
Il respiro si spezza e il battito si fa impetuoso, dentro la cassa toracica che implode.
La trachea si restringe, senza più riuscire a deglutire la saliva che mi impasta la bocca arsa.

«Lasciamiii» Urlo di nuovo,vana quando sento un fazzoletto sulla bocca,e un odore acre si impossessa delle mie narici,facendomi perdere quasi i sensi.

Il buio mi avvolge come un manto, le pareti oscure, iniziano a girare piano piano.
Le palpebre mi stanno per cedere e il corpo diviene molle.
Le ginocchia si piegano sorrette da un pilastro, e non capisco più cosa succede, ma sento lontana da me, una voce tetra come la mia vita,
«Ora non sei più nessuna.» Le ultime parole che riesco ad udire e cado nel baratro della sostanza inalata.

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