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39. Da sempre

Canzone per il capitolo:

Fix You – Coldplay

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Sono passate cinque lunghissime ore dal mio arrivo in ospedale, quattro ore e mezza dal momento in cui ho ricevuto la telefonata agitata dei genitori di Alex - che mi avvertivano di aver appena trovato un treno ad alta velocità diretto a Milano -, quattro ore da quando ho vomitato in un cestino per l'agitazione... ho percorso chilometri in questa minuscola sala d'attesa nella quale mi hanno accompagnata, un buco freddo e asettico adiacente al reparto di terapia intensiva che ora sta accogliendo Alex dopo la lunga e difficile operazione. Un dottore si è degnato di venire a rivolgermi la parola solo mezz'ora fa, per parlarmi rapidamente senza guardarmi in faccia, per snocciolare quattro o cinque termini medici e previsioni statistiche di sopravvivenza, come se mi stesse esponendo i dati delle scommesse all'ippodromo per il cavallo sul quale è meglio evitare di puntare tutti i miei soldi.

Mentre l'uomo emanava parole che io non riuscivo a comprendere, io ho continuato a guardare lo stesso infermiere che mi aveva parlato prima, fermo al fianco del dottore, e in seguito è stato così gentile almeno da donarmi un tiepido sorriso prima di seguire l'uomo della statistiche alla mano nell'altra stanza.

Durante le ultime ore, io mi sono ridotta a contare le piastrelle venate del pavimento, i perni che tengono inchiodate le sedie al muro, ho tracciato l'andamento regolare dello sfarfallio di una luce al neon nelle plafoniere appese al soffitto... ho contato persino quante volte l'ambulanza è tornata indietro a rimpolpare le file delle anime al pronto soccorso. Il luogo è deserto e perfidamente silenzioso; oltre ai passi lontani di medici e infermieri e delle sirene dei mezzi di soccorso, riesco solamente a sentire il battito regolare del mio cuore... i miei pensieri... i miei ricordi.

Mi sento così sola e persa, ho il terrore perché non so che cosa fare, come comportarmi... non so cosa possa succedere, così come ancora non ho realizzato cosa è realmente accaduto. Oltre a ripetermi più volte di non nutrire grosse speranze per la sopravvivenza di mio fratello, il dottore non mi ha permesso nemmeno di vederlo. Così, mentre fisso con insistenza quel muro bianco che mi divide da lui, le macchie di umidità negli angoli più alti e le piccole ragnatele che penzolano con un lieve movimento, mi sembra come se questa situazione non stesse succedendo davvero. Più volte in queste ore mi sono costretta a ricordare dove sono, il motivo per cui sono qui; la chiamata, le parole sincere dell'infermiere e quelle fredde del medico... ma oltre al muro che continuo a perforare con il mio sguardo spento e perso, non riesco a immaginare il mio Alex, e mi sento dilaniata in due dal desiderio di vederlo e dalla paura... paura di trovare il suo corpo martoriato, di vedere la mia metà per l'ultima volta come non vorrei mai che potesse rimanere nei miei ricordi.

Scrollo la testa per cancellare ogni pensiero negativo.

Ogni secondo si è allungato, ogni minuto ha preso una consistenza differente... eppure, ora che il tempo è arrivato a compimento, mi è sembrato come se ogni cosa si fosse velocizzata all'improvviso.

« Sara! »

La voce di Luisa riecheggia nella sala d'aspetto, vedo la sua figura bassa e minuta che, insieme a quella di Gianluca, si affretta per raggiungermi, le valigie in una mano e i cappotti nell'altra.

E oggi, ora, per la prima volta in tutta la mia vita, mi rendo conto del profondo e potente desiderio che ho provato nelle ultime ore di vederli. Chiusa in questa piccola e deserta sala d'aspetto, mi sono sentita così debole e abbandonata a me stessa che avrei voluto averli entrambi accanto per aiutarmi ad andare avanti. I miei genitori adottivi non mi sono mai mancati tanto come in questo momento.

L'abbraccio che arriva ad avvolgerli entrambi all'improvviso sorprende anche me, ma mai quanto il significato portato dalle parole che seguono, quando scoppio in lacrime tra le loro braccia senza più riuscire a controllarmi, liberandomi di tutto il peso accumulato con la loro assenza.

« Mamma... papà... » la mia voce si spezza quando chiudo gli occhi con forza e mi godo la stretta di rimando che, anche se con un'iniziale titubanza data dalla sorpresa, alla fine arriva da loro.

Sono agitati, confusi, entrambi mi subissano di domande alle quali non so come rispondere.

Io e Luisa ci sediamo una accanto all'altra, Gianluca invece resta ad ascoltare le mie risposte sconclusionate ma se non riesce a stare seduto; così, lo guardo percorrere lo spazio davanti a noi, avanti e indietro con lunghe e pesanti falcate.

C'è solo da aspettare che Alex si stabilizzi; i dottori non hanno detto altro, riporto loro.

Abbiamo preso il primo treno disponibile, è la risposta che ripetono in coro.

Parole vuote, parole che si susseguono e si alternano, parole inutili e futili usate all'unico scopo di alleggerire il pesante silenzio di attesa che permea questo triste luogo... un luogo lontano dal tempo e dallo spazio, senza finestre sul mondo esterno, senza la luce del sole o della luna per ricordarci delle ore che si avvicendano interminabili. Il limbo ci racchiude, silenzia i nostri pensieri e le nostre emozioni, e non so dire quanti sospiri siano passati, quanti passi di Gianluca abbiano toccato le piastrelle venate quando abbasso la mano e prendo quella di Luisa nella mia. Credo che in una vita intera io non abbia mai toccato mia madre così.

Nessuno di loro due piange, solo io ho gli occhi umidi che non riesco ad asciugare perché, ogni volta in cui credo di essermi calmata, ecco che nuovi ricordi di lui mi tornano alla mente, lasciandomi sanguinare il cuore. « Perché? » riesco soltanto a dire.

La mano di Luisa è magra e appena irruvidita dall'età, secca al tatto per il freddo dell'esterno e un poco tremante. Mi sorprendo della sua consistenza, mi meraviglio di sentire la sua sofferenza passargli attraverso... ha paura, forse ne ha sempre avuta come me, ma lo ha sempre nascosto al mondo esterno... è possibile alla mia età accorgersi della reale presenza di una persona che si credeva fredda e distaccata? È possibile aprire finalmente gli occhi solo ora, solo in questo triste momento?

La donna al mio fianco solleva gli occhiali da vista sulla testa, rivelando gli occhi arrossati dal pianto che si sta sforzando di trattenere, e tutto l'impegno messo nel fingersi forte finisce per incrinare la sua voce. « Non c'è un perché, Sara. È il caso che muove tutto, non sempre c'è un significato a tutto quello che succede. Sia nel bene, che nel male. »

Scrollo la testa mentre prendo consapevolezza del bisogno profondo che provo di sentirla accanto, di trovare una guida che io non avevo mai cercato in nessuno. Se all'inizio avevo creduto di potermi bastare da sola, in seguito avevo avuto Alex al mio fianco, a indirizzarmi e a proteggermi... a prendermi per mano... ma ora, senza di lui in un momento tanto difficile, mi sento completamente persa. « E allora, che senso ha tutto questo? » chiedo mentre cerco disperatamente il contatto con i suoi occhi. « Perché correre, affannarsi, essere felici, amare, odiare... perché tutta questa fatica, se alla fine ogni cosa si risolve nel dolore? »

È un sorriso amaro e difficile quello che prova a mostrarmi. « Voi giovani siete convinti che noi adulti abbiamo tutte le risposte, che superati i trent'anni si diventi persone diverse, responsabili, ligie al dovere e detentrici di tutti i significati della vita... ma no...

Sara, stiamo tutti navigando sulla stessa piccola zattera, sullo stesso relitto che va a fondo ogni giorno di più. E tutti ci agitiamo, tutti corriamo a destra e a sinistra per evitare di affondare, raccogliamo i nostri averi nella speranza di poterli portare dove non sappiamo nemmeno ci stiamo dirigendo... ma nessuno di noi sa che cosa fare in realtà. »

« E allora... cosa si fa? »

Luisa sposta lo sguardo su suo marito prima di riportarlo alle nostre mani unite. « Si va avanti nonostante tutto; invecchiando, anno dopo anno, ci si chiude in se stessi per evitare di provare dolore, si finge di non soffrire più per le piccole cose che ancora fanno male... e si trova una persona che condivida la sofferenza con te. Ognuno trova la propria strategia, il proprio modo per andare avanti... ma nessuno sa se questo sia sbagliato o meno. »

Alle sue parole, non riesco a impedire alle lacrime di sgorgare ancora, per l'ennesima volta. Tra le dita che mi coprono la vista, vedo Gianluca camminare poco più in là, per sbirciare verso la porta principale per accedere al reparto. Forse, ha sentito dei rumori.

« Sara », il sussurro di Luisa mi culla, insieme alla sua mano che mi accarezza la testa dolcemente, un gesto che nemmeno durante l'infanzia aveva messo in atto... o forse, sono soltanto io che lo avevo cancellato dai miei ricordi. « Alex ha qualcuno che... », sembra in difficoltà, come se non trovasse le parole, « qualcuno che dovremmo avvisare? Non so una... una fidanzata? »

Scrollo la testa, quella parola che mi fa così male, che mi strazia l'animo già distrutto. « No... lui ha solo me... »

Forse sono le mie parole, forse è lo sguardo che ci lega per lunghi secondi, ma è la comprensione che si fa strada tra di noi. Luisa tiene le mie mani raccolte in una delle sue, le accarezza con il pollice con delicatezza ma anche decisione, e quando le sue parole ritornano, i suoi occhi restano lontani da me, a osservare Gianluca che non riesce a stare fermo. « Tu lo ami, vero? »

Non è una vera domanda, il tono è quello della constatazione di qualcosa di ovvio e palese, forse da anni. Resto appoggiata alla sua spalla, con il pianto che si sta lentamente placando. Non provo sorpresa per la sua domanda, non provo nulla in questo momento... solo un grande senso di malinconia per il tempo perso e passato. « Sì. »

Gianluca non ci sente e il sussurro di Luisa mi fa capire che lui non deve sapere. « Da quando? »

La mia risposta fluisce immediata, senza timori, senza remore. Tutta la mia attenzione è calamitata alla vita di Alex, ogni altra cosa ha perso improvvisamente di importanza. Tutti i nascondigli, i segreti, i sotterfugi... tutto ha perso improvvisamente consistenza e significato. « Da sempre. »

Non servono spiegazioni, parole aggiuntive; l'unica risposta che arriva è la leggera pressione applicata dalla sua mano appoggiata sulle mie... quella mano che tante e troppe volte avevo considerato come nemica, fredda ed estranea, ma che mai come in questo momento rappresenta l'unica base solida di cui ho bisogno.

Varie volte infermieri e medici sono passati nel corridoio, e ogni singola volta Gianluca li ha fermati per parlare e chiedere spiegazioni, ottenendo solamente le solite parole di rito, aspettare, il paziente è sotto osservazione. Luisa andava puntualmente accanto a Gianluca per ascoltare quelle parole di cui io avevo paura... così, quando il dottore arriva infine nella sala d'aspetto, sono sempre loro che vanno a ricevere il verdetto finale.

Non sento il suono di quella voce distaccata dal punto in cui mi trovo, ma sono i gesti e le espressioni a portarne il vero significato e le relative conseguenze. Il viso dell'uomo estraneo prova a restare freddo alla notizia, si tiene nascosto e difeso dietro ai piccoli occhiali da vista che riflettono lo sfarfallio della luce al neon. Quelle parole insonore soltanto per me, lasciano invece Luisa e Gianluca in silenzio per un paio di lunghi secondi, forse i più lunghi di tutta la mia vita; poi, la mano del dottore finisce per posarsi sulla spalla di lei, sulla spalla di mia madre che, come se tutte le barriere difensive che ha costruito nella sua lunga vita si fossero distrutte in questo preciso istante, si copre il viso con le mani e scoppia in lacrime, in mezzo ai singhiozzi che non riesce più a controllare.

È mio padre a consolarla quando il dottore fa un passo indietro, a disagio nella sua sconfitta. Non piange mio padre, ma la abbraccia stretta per provare a consolare lei, e anche se stesso.

E io resto ancora qui, stretta nel mio piccolo angolo sicuro, a osservare l'intera la scena come fossi un elemento estraneo al tutto.

Mi guardo intorno, guardo me stessa e la paura che mi tiene ancorata a questa sedia, i perni che la bloccano al pavimento, le piastrelle sotto i miei piedi che sono venate dal tempo. Guardo ancora una volta le piccole ragnatele appese all'alto soffitto, le plafoniere e il loro sfarfallio, la parete fredda che nasconde ciò che non posso vedere, l'idea che non posso sopportare di rendere cosciente nella mia testa e nel mio cuore.

Ho pianto così tanto prima per la paura e la preoccupazione, per colmare l'attesa e nella speranza che le mie preghiere, sussurrate a nessun dio in particolare, potessero trovare una risposta; così ora, proprio in questo momento in cui i miei peggiori incubi si sono materializzati, non riesco a trovare nuove lacrime per farlo.

A che scopo piangere, oramai?

Non c'è un perché, Sara. È il caso che muove tutto, non sempre c'è un significato a tutto quello che succede. Sia nel bene, che nel male.

E allo stesso modo, non c'è un significato alla mia corsa a perdifiato, alla mia fuga: via da quella saletta fuori dallo spazio e dal tempo, via dallo sguardo in lacrime dei miei genitori, via dall'ospedale... via dalla mia stessa vita.

Perché posso sopportare tutto, so di poter sopportare ogni cosa... ma non il pensiero che la mia esatta metà si è appena spenta su di un letto d'ospedale.

Penso solamente a correre... a correre... a scappare...

Via... lontana dal mio passato.

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Spazio Ape:

non ho molto da commentare... forse come sarebbe finita questa storia lo avevate intuito da tempo... non so; aspetto i vostri commenti...

Spero di riuscire a pubblicare l'epilogo domani... A presto...

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