2. 14 giugno 1995
* Breathe me- Sia *
*****Finalmente riesco a pubblicare il secondo capitolo di questa storia... per chi non lo sapesse ho cambiato alcune cose nel primo capitolo quindi, se lo avete letto qualche tempo fa, vi consiglio di andare a dargli un'occhiata per non entrare in confusione :-) ****
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La macchina scorreva velocemente sull'asfalto caldo dell'estate e io osservavo rapita gli alberi che mi scorrevano intorno e salutavano il nostro passaggio riflettendosi sui finestrini con rapide e sfuggevoli carezze di luce e ombra.
Me ne stavo andando.
Stavo lasciando la casa famiglia nella quale ero stata costretta a rimanere per due anni, quattro mesi, sedici giorni e quindici ore. Allora avevo solo cinque anni e non potevo sapere tutte queste cose, ma crescendo mi ritrovai a pensare varie volte a quei tempi bui, a quando mi avevano tolta dall'affidamento dei miei genitori e mi avevano sbattuta in quel luogo abitato da freddi estranei, e riuscii a contare ogni singolo giorno, ogni singolo momento del tempo passato lontano da loro. Ricordavo con triste precisione tutti i dispetti e tutti soprusi ai quali gli altri bambini e ragazzi mi sottoponevano perché nella casa di affidamento temporaneo alla quale ero stata assegnata ero la più piccola; non era soltanto quando mi rubavano il cuscino di notte, e io ero costretta a dormire sulle mie braccia e il duro materasso che mi avevano forzato a scegliere il primo giorno; non era quando mi nascondevano i vestiti o i giochi, o quando davano fuoco in cortile ai miei pupazzi, gli unici ricordi che avevo della mia vecchia vita e dei miei genitori; e non era nemmeno quando a tavola mi costringevano a lasciare ai più grandi i pezzi di pane più morbido e le fette di crostata che ci servivano per dolce.
La parte più brutta erano i giochi in cortile durante i pomeriggi; i più grandi mi ossessionavano di continuo e mi costringevano a giocare con loro tutti i giorni ma, alla fine della giornata, mi ritrovavo sempre con nuovi lividi, nuove ecchimosi perché tentavo di stare al passo con i loro giochi da grandi, e se non ci riuscivo allora se la prendevano con me. Ma nessuno dei responsabili della struttura mi credeva: ero sbadata, mi facevo male da sola, e io avevo paura di dire la verità per non essere picchiata di nuovo dai grandi.
Ma adesso era tutto finito, l'incubo di quegli anni me lo stavo lasciando alle spalle, e io stavo andando verso quella che sarebbe stata la mia nuova casa. Una famiglia aveva deciso di prendersi cura di me, di adottare una bambina in arrivo da una situazione problematica, e io ero molto felice di questo perché, nonostante sapessi bene già a quel tempo che era possibile non amare i propri genitori quando questi non ti calcolavano minimamente, quando si dimenticavano di darti da mangiare, quando eri costretta a metterti a letto da sola, a scoprire da sola che per lavarsi le mani era necessario il sapone e non soltanto l'acqua, io ero comunque riuscita a provare una sorta di affetto per quella coppia di eroinomani che avevano tentato di crescermi per pochi anni.
Poi, al mio secondo ricovero in ospedale a causa della malnutrizione, erano iniziate le visite dei servizi sociali e, dopo una lunghissima procedura legale, io avevo perso l'unica famiglia che avevo conosciuto e finii in quell'agglomerato di sconosciuti.
Ma dentro quella macchina cercai di non pensarci più e mi sporsi in avanti per scrutare il motivo del rallentamento dell'autista, i miei piccoli occhi azzurro grigio puntati in avanti. Arrivai davanti a una grande casa, una di quelle che avevo visto soltanto alla televisione. C'era un cancello che si apriva addirittura da solo e, da quel grande e imponente cancello, scorsi la villa che mi avrebbe ospitato per tutta la mia adolescenza e oltre. Da quella casa gigantesca, nella quale avevo iniziato a credere che potessero vivere tantissime persone, incutendomi anche un certo timore visto non avevo esperienze positive in proposito di convivenza con molti estranei, erano appena uscite due persone grandi, due adulti, forse quelli che avrei dovuto chiamare mamma e papà, così come mi avevano spiegato i responsabili della casa famiglia; insieme a loro, zampettando intorno alle loro gambe, arrivò anche una persona più piccola. Un bambino, come me.
Subito provai sincera paura. Ebbi paura perché quel bambino non era piccolo proprio come me, sembrava essere della stessa misura dei bambini grandi e cattivi che mi picchiavano: aveva i capelli color del miele, e il sole quel pomeriggio li rendeva ancora più chiari, così come faceva con i suoi occhi verdi e così come riusciva ad accendere quella luce sul suo viso e sul suo sorriso; di per sé non avrebbe dovuto incutermi timore quel bambino, vista l'espressione curiosa ed entusiasta che comunicava, però era più alto di me, più robusto, e sembrava molto più grande; non mi rendevo ancora conto, però, che molti altri bambini mi erano sempre sembrati più grandi per il semplice fatto che io ero molto minuta al tempo; anche se nella pubertà recuperai ampiamente fino a una buona altezza, a cinque anni ero alta come una bambina di nemmeno quattro anni e pesavo forse ancora meno, probabilmente a causa della malnutrizione dei primi anni dell'infanzia.
Il signore dei servizi sociali che mi accompagnò alla mia nuova casa, quello che si voleva sempre far chiamare Paolo ma che io continuavo a chiamare Signore, mi aiutò a saltare giù dalla macchina e fui presentata alla mia nuova famiglia.
La prima cosa che notai di loro tre, raccolti uno vicino all'altro in un tradizionale quadretto familiare, erano i vestiti: erano tutti molto puliti. La camicia del papà era liscia, senza pieghe o macchie, i capelli della mamma erano pettinati e raccolti; le dita di tutti loro erano pulite, le unghie curate, i polpastrelli lisci e non screpolati. A quella vista, nascosi immediatamente le mie mani dietro la schiena. Il bambino continuava a guardarmi incuriosito dietro le lunghe ciglia chiare, aveva un colorito più scuro del mio, come se fosse finito a bagno nella polverina d'oro che avevo usato ogni tanto per colorare. Spostai lo sguardo dal suo e osservai gli adulti che parlavano con Non-chiamarmi-signore-ma-Paolo; si erano voltati e parlavano a bassa voce, ma io sapevo che parlavano di me, di quello che era successo alla mia mamma e al mio papà, del perché non potessi più vivere con loro; chissà se avrebbe spiegato loro che le mie mani non erano così pulite come quelle di quel bambino? Che a tavola tentavo sempre di rubare cibo e di portarmelo in camera perché avevo il terrore di non trovarne più il giorno dopo?
Quelli che sarebbero dovuti diventare i miei nuovi genitori si voltarono a guardarmi e mi sorrisero; i loro visi, per quanto quegli strani sorrisi finti e di circostanza non riuscivano ad accendere gli sguardi che avrebbero dovuto sembrarmi amorevoli, caldi e accoglienti come quello che il bambino mi stava donando da quando ero arrivata lì, riuscivano comunque a trasmettermi un senso di pacatezza e sollievo. Avevo già visto quelle persone venire un paio di volte nella casa in cui ero stata negli ultimi due anni, ma nessuno mi aveva mai detto nulla di loro.
« Buongiorno, Sara. Benvenuta a casa nostra. Lui è nostro figlio Alex; potete diventare amici e fare i compiti insieme quando inizierai la scuola », disse la donna tenendo le mani raccolte davanti a sé, come se all'interno delle mani unite nascondesse un segreto. Il suo sorriso era cordiale, ma né lei né il marito mi toccarono una volta, nemmeno per sbaglio. Ora potrei pensare che non lo fecero per lasciarmi il mio spazio, per darmi la possibilità di ambientarmi e di non sentirmi subito attaccata o oppressa da un senso di invadenza non desiderata, ma allora mi convinsi che fosse perché non mi volevano; pensai che mi avevano vista sporca, denutrita, e che forse si erano ricreduti sul fatto di volermi con loro.
La mia piccola valigia passò dall'autista della macchina alla mano di quello che avrei dovuto chiamare papà: un uomo magro, con la schiena curva, gli occhiali calati sul naso, e pochi peli sul viso tanti quanti ne aveva sulla cima della testa. Quella che invece mi sarei dovuta ricordare di chiamare mamma indossava i pantaloni verdi scuro e la camicia grigia, esattamente come il papà, e teneva le spalle curve anch'essa. Lei però aveva molti più peli sulla testa e li teneva legati in una coda bassa sulla nuca; mi guardava con un paio di piccoli occhi scuri e spenti dietro gli occhiali posati sulla punta del naso. Non so per quale bizzarro motivo, ma quello che più mi rimase impresso di lei, della sua figura mingherlina, del viso scarno e bruttino, fu il cordoncino dei suoi occhiali; proprio quel cordoncino che, negli anni a venire, le sarebbe servito per salvare gli occhiali ogni qual volta lei avesse dovuto sgridarmi per qualcosa che dicevo, facevo, o anche solo pensavo. Difatti, il suo modus operandi sarebbe stato sempre lo stesso: che fosse un mio brutto voto, un rissa a scuola, una parolaccia detta a tavola o la mia profonda e perpetua mancanza di voglia di studiare, quegli occhiali venivano tolti con gesto brusco, lasciati cadere sulla maglia, e guardandomi dritta negli occhi ripeteva sempre: « Ma io cosa dovrei fare con te, Sara? »
Ma allora non sapevo ancora che cosa aspettarmi da quel futuro appena nato di fronte a me e guardai quelle due figure che osservavano ogni mio minimo movimento o espressione, forse aspettandosi un abbraccio, un sorriso, che però io non esternai. Poi, spostai cauta gli occhi verso il bambino grande che, però, a differenza di quelli della casa famiglia, mi sorrideva sinceramente come se fosse davvero felice di vedermi. Ed era un sorriso vero, semplice e radioso, così diverso da quelli falsi che i ragazzi della casa mi riservavano quando cercavano di convincermi di fare qualcosa che non avevo voglia di fare.
« Ciao, io sono Alex e mamma mi dice che tu sarai la mia nuova sorella », disse tutt'un tratto. Fece un passo avanti con la mano tesa, ritto e sicuro come un perfetto uomo d'affari al termine della firma dell'ultimo contratto multimilionario, ma io ne feci uno indietro, intimorita.
Alex restò visibilmente turbato dal mio gesto, la sua espressione si incupì per un istante, ma non demorse. Mise giù la mano e riprese a sorridermi più intensamente di prima. « Sarò il tuo fratello maggiore anche se abbiamo la stessa età; sarò il tuo migliore amico e ti proteggerò dai bambini cattivi. Non devi avere paura di me ».
La mamma lo sospinse leggermente verso di me e, quando arrivò a prendermi la mano nella sua, quella volta non indietreggiai.
E non lo feci mai più.
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Allora, allora, allora? Cosa ne pensate? Sono tanto curiosa! :-) a presto!!
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