18. Quella fredda Alaska
Il mattino seguente non mi svegliai accaldata perché avevo il braccio di un uomo che mi bloccava i movimenti e magari che mi faceva sentire il suo alzabandiera mattutino contro la coscia; non avevo nessun classico mal di testa da dopo sbornia e non pensai nemmeno per un istante che quello che avevo vissuto la sera prima fosse stato un brutto incubo.
Quando aprii gli occhi trovai semplicemente il letto vuoto e freddo; accanto a me, nel posto che la notte aveva occupato il corpo di Andrea, trovai soltanto il mio cellulare e la consapevolezza del mio dolore che non mi aveva abbandonata, ma era soltanto seduto accanto a me ad aspettare che la mia incoscienza togliesse le sue grinfie difensive e mi lasciasse cadere di nuovo nella consapevolezza del dolore per quello che era accaduto.
Mi sedetti sul letto a fatica tenendomi strette le coperte al petto e afferrai il telefono che evidentemente Andrea aveva messo lì prima di andarsene; trovai un unico messaggio proprio da lui.
Sono rimasto finché ho potuto, perdonami; i miei amici mi stavano aspettando di sotto per andarsene e mi hanno portato a casa con la loro macchina.
So che oggi devi partire, quindi ti auguro buon viaggio e spero che questo allontanamento temporaneo ti possa aiutare.
E ricorda che, quando tornerai, potrei suggerirti altri modi per poter dimenticare le pene d'amore, e questi modi sono tutti decisamente divertenti ( e per alcuni di questi non dovresti nemmeno spendere un centesimo).
Promesso ;-)
A presto.
Andrea.
Presi un respiro profondo e osservai l'ora sul display del telefono: erano le dieci. Gli zii sarebbero dovuti venirci a prendere alle undici per portarci in aeroporto, dove l'aereo sarebbe partito nel pomeriggio.
Che schifo.
Piuttosto che dovermi muovere da quel letto mi sarei voluta impiccare. Osservai la porta della mia camera chiusa e pensai seriamente alla possibilità di murarmi all'interno e non partire. Ma in fondo ero ancora bloccata nell'inutilità dell'essere minorenne e, se non fossi partita quel giorno con Alex, gli zii sarebbero venuti a stare in casa con me, e La Coppia avrebbe anche potuto riprendere l'aereo solamente per venirmi a costringere a seguirli.
Mi alzai faticosamente in piedi, stanca, distrutta e infreddolita visto che ancora indossavo il vestito della sera prima, e trascinai i piedi fino alla sedia della scrivania, dove capeggiava un cumulo non indifferente di vestiti sporchi o stropicciati: sinceramente, non ricordavo nemmeno la fodera della sedia di che colore fosse, visto che per anni quelle povere quattro gambe erano diventate il mio armadio personale. Sfilai un paio di jeans a caso e una felpa larga e nera che si adattava alla perfezione con il mio umore a terra e provai a guardarmi allo specchio, spaventandomi per il mio aspetto: i miei capelli corti erano spettinati e le poche aggiunte di prodotti che avevo messo la sera prima avevano contribuito a conciarmi come una brutta e pallida copia di Vegeta; avevo le occhiaie e le borse sotto agli occhi per il pianto, la pelle del viso secca per via della lacrime e la mia espressione distrutta non aiutava l'insieme di certo.
Mentre provavo a fingere che quell'immagine rimandata dal riflesso non fossi io, il mio sguardo purtroppo cadde direttamente sulle fotografie incastrate nella cornice dello specchio: tutte di me e Alex insieme negli anni passati: durante le nostre vacanze in montagna, i Natali passati insieme a giocare con gli stessi giochi, i giorni di Carnevale, quando io mi ostinavo a vestirmi esattamente come lui: da Cowboy, da Power Rangers, da personaggi di Dragon Ball, mentre tutte le altre bambine si sdoppiavano nell'anonimato delle principesse Disney.
Soltanto una prima lacrima sfuggì al mio controllo consapevole ma, prontamente, riuscii a trattenere tutte le altre seguenti arginando il mio dolore con tutta la rabbia di cui disponevo. Se la sera prima ero soltanto distrutta e scioccata da quello che era successo, la mattina seguente ero solamente furiosa e così carica di energie che avrei potuto far esplodere la casa intera con un singolo urlo ben assestato.
Asciugai gli occhi passando le mani violentemente sulle palpebre bagnate e afferrai le forbici che erano sulla scrivania, entrate improvvisamente nella mia visuale come un fottutissimo segnale divino sul da farsi immediato. Non ragionai in quei momenti e mi abbandonai a seguire solamente il cieco istinto rabbioso che mi governava dopo che la debolezza dettata dal dolore aveva lasciato campo a tutta una serie di altre emozioni negative.
Aprii la porta con energia, diretta e determinata verso la camera di Alex e a quel maledetto letto che aveva violato con il corpo di un'altra ragazza, a quelle maledette lenzuola che avevo intenzione di lacerare e distruggere senza pietà, ma non mi ero accorta che Alex si trovava esattamente fuori dalla mia porta, il braccio in alto e il pugno chiuso in procinto di bussare.
« Ehi! » strillò spaventato dal mio violento arrivo armata di forbici. « Ero venuto a svegliarti, tra poco arrivano gli », ma non lo lasciai finire che lo raggirai e mi diressi alla sua camera a lunghi passi.
La stanza ovviamente era sempre la stessa, eppure intuii subito che ormai c'era qualcosa di diverso, che quella non avrebbe potuto essere più la nostra camera; il letto era sfatto e la scrivania sempre ordinata di Alex non era più la stessa: il portamatite giaceva a terra, il cubo di Rubik completato non era esattamente al centro dove era sempre stato, e la pila di fogli per la stampante che Alex teneva ben ordinata a lato del ripiano in legno ora era tutta in disordine, metà della quale finita a terra. E in tutto questo l'immagine di che cosa potesse aver provocato quel terremoto temporaneo, con la figura di Susan seduta su quel legno e Alex di fronte a lei che la toccava e la baciava con foga tanto da far cadere ogni cosa intorno a loro, mi diede la spinta necessaria e ulteriore per portare a compimento la mia missione: mi fiondai sopra al letto e lo pugnalai.
Letteralmente.
Le forbici erano lunghe ed entravano così morbidamente nella stoffa da darmi un profondo senso di piacere, così potente quanto inaspettato. Afferrai il manico con entrambe le mani e continuai a uscire a rientrare nella stoffa del materasso e del cuscino, di tanto in tanto facendo forza per tirare verso di me e strappare la stoffa del lenzuolo con gesti rabbiosi. Ero completamente e irrimediabilmente fuori di me e Alex, rimasto per qualche istante attonito di fronte a quella mia palese manifestazione di insania, si riprese soltanto dopo qualche secondo e si avventò su di me urlandomi di smetterla.
Ma io continuavo e continuavo, sperando di cacciare il dolore che mi aveva procurato e cancellando le prove e i testimoni che avevano osservato e vissuto il suo tradimento nei miei confronti, fino a che le sue braccia mi brancarono da dietro chiudendomi i movimenti e mi sollevarono di peso mentre ancora mi agitavo senza controllo.
« Ma sei andata fuori di testa?! » mi urlò all'orecchio, stringendomi ancora di più mentre io alzavo le gambe e le agitavo in aria per fargli perdere l'equilibrio.
Per la prima volta il suo tocco mi ripugnò e io volevo solamente che sparisse dalla mia vita e dall'intero creato, che non provasse a toccarmi ancora dopo che era stato con un'altra; ma lui non demorse e continuò a tenermi con la schiena premuta contro il suo torace.
Io non parlavo, non riuscivo ad aprire bocca, la mascella serrata così forte per la rabbia che iniziava a farmi male. Mi ero chiusa irrimediabilmente in me stessa e sapevo che non avrei più potuto parlargli perché, se l'avessi fatto, allora lui avrebbe potuto trovare un varco, uno spiraglio per farsi strada di nuovo dentro di me e, quindi, farmi nuovamente male.
« Mi vuoi rispondere?! » urlò cercando di scrollarmi.
Mi allontanò di peso dal suo letto e mi lasciò a terra accanto alla porta ma, non appena lo fece, io sgusciai via da lui e corsi di nuovo verso il mio obiettivo. Ero davvero fuori controllo, contro ogni mia aspettativa; era la mia parte più istintiva che stava agendo, quella che in giovane età vaga a briglia sciolta e che poi, con il passare degli anni, con le delusioni e la tristezza dell'età adulta, viene messa a guinzaglio e domata con diversi modi, e i preferiti dalle donne diventano poi il mutismo, la vendetta silenziosa, il niente di risposta che vale tutto un mondo di significati...
Alex cercò di riacciuffarmi di nuovo ma, muovendomi così disarmonicamente e fuori controllo, mi voltai di scatto con le forbici impugnate per allontanarlo e, involontariamente, lo ferii sul braccio, poco sopra il gomito, strappandogli con un unico taglio anche la maglia che indossava.
Alex mi lasciò andare all'istante e imprecò con forza, osservandosi la ferita non troppo profonda con gli occhi sgranati, il sangue che aveva iniziato immediatamente a uscire e a macchiargli la maglia. « Ma... ma... ma ti rendi conto di quello che hai fatto? Sei impazzita del tutto? » urlò fuori di sé.
Alla vista del suo sangue mi immobilizzai, come se qualcuno avesse spento all'improvviso il tasto della mia rabbia e mi avesse lasciata svuotata completamente. Avrei potuto pensare e volere qualsiasi cosa, ma non avrei mai in alcun modo fatto del male ad Alex.
Alex mi guardò a lungo, aspettando un risposta che però non arrivò. Poi, quando il sangue prese a gocciolare sul pavimento, scrollò la testa e, voltandomi definitivamente le spalle, uscì dalla camera, lasciandomi ancora esterrefatta a osservare quelle forbici macchiate che, infine, lasciai cadere a terra.
I minuti successivi furono tutto un susseguirsi di eventi che mi toccarono lontanamente, come se mi fossi temporaneamente estraniata dal mio corpo e, dopo aver fatto la valigia ed essermi preparata per il viaggio agendo quasi come fossi un automa, sentii la voce della zia che ci richiamava dal piano di sotto per partire alla volta dell'aeroporto.
Quando scesi al piano di sotto la casa sembrava un'altra dal disastro della sera prima: Alex doveva aver ripulito e riordinato ogni cosa e, se non avessi visto con i miei stessi occhi il disastro lasciato dalla festa, nessuno avrebbe mai detto che più di trenta persone avessero adibito a locale proprio il nostro salotto.
Alex uscì dalla cucina con la giacca già indossata ma fece finta di non vedermi; avrei voluto chiedergli della ferita, se gli facesse male, se avesse trovato difficoltà a medicarsi... eppure non lo feci. In completo silenzio mi vestii e insieme seguimmo la zia alla macchina, caricando le nostre rispettive valigie dopo aver dato un caloroso abbraccio alla grossa e pelosa Nana, che ci guardò partire con il suo tipico sguardo familiare: quella dolce via di mezzo tra placida curiosità e forte perplessità.
Ora potrei raccontare di come quel viaggio fu vissuto da entrambi come il più lungo e pesante della storia, con i minuti che si allungarono in ore e i giorni che finirono per sembrare in millenni... ma un paio di parole buttate così al vento non basterebbero per rappresentare tutta l'agonia che mi accompagnò per i quattro aerei che dovemmo prendere per arrivare all'aeroporto internazionale di Anchorage, l'unica città così definibile di tutta l'Alaska.
Non credo che la gente abbia a malapena una vaga idea di dove si trovi davvero l'Alaska sul pianeta Terra; proverò a darvi un'indicazione, giusto per rendervi meglio l'idea: pensate al freddo Canada, le foreste innevate, i ghiacciai secolari, i grandi laghi induriti dal freddo, lupi che ululano alla luna e fottutissimi orsi che acciuffano i salmoni dai ruscelli... ecco, l'Alaska è ancora più a nord di tutto questo.
Per intenderci, sulla cartina politica degli Stati Uniti d'America, di cui questo enorme stato dovrebbe far parte, l'Alaska è sempre tagliato fuori e incollato a casaccio in un angolo sull'oceano Pacifico perché è fottutamente in culo al mondo. In pratica, manco gli U.S.A. se lo filano.
Non so nemmeno quante ore impiegammo per arrivare a quel piccolo aeroporto, ore impiegate a ignorarci, a restare in completo silenzio tanto da dovermi sciogliere i legamenti della mascella con un po' di esercizio altrimenti mi si sarebbe bloccata in posizione a vita, a scambiarci giusto un paio di grugniti indispensabili per farci capire quando dovevamo andare al bagno, oppure dove sederci o dove andare a mangiare in aeroporto durante le attese per il volo successivo: in pratica, ci stavamo allenando per andare con i nostri simili a pescare salmoni ad artigli nudi.
A seguito di tutti i voli e l'arrivo sani e salvi nella piccola cittadina di Valdez, dopo aver sorvolato su una distesa di foreste infreddolite che puntavano al cielo sopra di noi, rinchiusi in uno di quei piccoli e vecchissimi aerei con le eliche rumorose che terminò il suo atterraggio sull'acqua - perché sì, atterrammo pure sull'acqua, visto che evidentemente da quelle parti sembrava essere più che normale - io e Alex salimmo sul piccolo molo in legno dove trovammo La Coppia ad attenderci.
E io, in una delle rare volte della mia vita e che funge da forte indicatore rispetto allo stato mentale ed emotivo in cui mi trovavo, mi scoprii profondamente felice di rivedere i miei genitori adottivi. Avevo passato tutte quelle ore in completo silenzio, a guardare film su film sul monitor degli aerei per evitare di incrociare lo sguardo di Alex seduto al mio fianco, e avevo finito persino per rileggere due volte l'intero libro di storia di scuola che era caduto per sbaglio in valigia, tutto perché cercavo in ogni modo possibile di ignorare Alex. Così, pensare di poter parlare di nuovo con un essere umano mi risultò davvero piacevole.
La cittadina che ci avrebbe ospitato nei giorni seguenti era davvero minuscola: molte case sembravano più delle prefabbricate in plastica che vere case costruite di sana pianta, e le strade erano pressoché deserte, eccezion fatta per vecchie macchine americane che non avevo mai visto prima e che passeggiavano rumorosamente per le vie solitarie. Immaginai che ci fossero poco più di tremila abitanti in quel posto sperduto, tutti infreddoliti in quelli che mi sembravano essere almeno venti gradi sottozero.
« Siete fortunati, ragazzi », esclamò Gianluca tutto contento, sfregando tra sé le mani coperte dagli spessi guanti. « Oggi non fa nemmeno troppo freddo: è proprio una bella giornata ».
Io e Alex stavamo già tremando violentemente nonostante le pesanti giacche a vento che La Coppia ci aveva saggiamente comprato prima della partenza, ed entrare nella macchina a noleggio presa dai suoi genitori fu un vero sollievo.
Con l'auto attraversammo la piccola cittadina verso il luogo in cui avremmo soggiornato per i successivi quindici giorni; il cielo era coperto da uno spesso strato di nuvole, ma non sembrava dover piovere o nevicare nell'immediato; sapevo solo che c'era un gran vento gelido là fuori e restai coperta con il cappuccio anche durante il tragitto, osservando di sottecchi Alex che, di tanto in tanto, lo trovavo intento a scrutarmi di nascosto come me.
Il breve viaggio si concluse di fronte a una bassa e lunga costruzione in legno, una sorta di piccolo hotel e pensione per quelle poche anime sperdute o dannate che avevano avuto la malaugurata idea di avventurarsi in un luogo tanto lontano e ostile.
Ero così stanca dopo i voli, il jet leg, il freddo e tutta la crisi emotiva che avevo appena attraversato che, nonostante Luisa e Gianluca continuassero a spingerci a raccontare del viaggio e a invogliarci a seguirli per visitare la cittadina e il piccolo dipartimento dell'università nel quale si recavano ogni giorno per lavoro, risposi gentilmente che avrei voluto soltanto riposarmi; anche Alex mi sembrò particolarmente silenzioso visto che rispondeva a monosillabi. In Alaska erano le sette di sera e io, dopo aver tenuto sullo stomaco per ore un triste panino al pollo congelato offerto dalla compagnia aerea, non avevo nemmeno fame.
All'arrivo alle nostre camere, però, ecco che una sorpresa ben poco gradita ci lasciò di stucco entrambi; per qualche strana ragione, forse dovuta alla stanchezza, ero convinta che io e Alex avremmo dormito in camere separate; invece, mentre La Coppia aveva la loro ovvia camera matrimoniale, sembrava che l'ultima stanza disponibile fosse una doppia con i letti separati per me e Alex.
« No! » esclamammo in coro.
Luisa restò stranita dalla nostra reazione. « Ma se avete sempre dormito insieme... qual è il problema? Avrete per caso litigato? »
« No, è solo che pensavamo... », provò a dire Alex, ma ci rinunciò. « Niente... la stanza andrà benissimo ».
"Non va benissimo proprio per niente!" avrei voluto strillare, ma ero davvero troppo stanca per poter dire qualcosa e, se avevo sopportato la presenza di Alex per tutte quelle ore, allora avrei potuto sopportarla almeno finché non mi fossi addormentata.
Così, dopo le ultime spiegazioni dei suoi genitori a proposito di come funzionassero le stanze, il fattore cibo del ristorante e cosa avremmo dovuto fare la mattina seguente, io mi rinchiusi nuovamente nel mio mutismo ed entrai in camera; ma non disfai la mia valigia, la lasciai semplicemente accanto all'entrata, mi appropriai del letto vicino alla finestra e mi infilai direttamente sotto le coperte togliendo solamente le scarpe a la giacca.
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Mi risvegliai nel cuore della notte facendo uno dei sogni peggiori che in quei giorni avrei mai potuto fare: eravamo io e Alex, la sera del suo compleanno, seduti sul divano della sala dopo avergli consegnato il suo regalo; avevo visto il suo sorriso sincero nascere sulle sue labbra per la gradita sorpresa, mi aveva presa per mano e mi aveva baciata a lungo, con dolcezza, per finire la serata a letto a fare l'amore per la prima volta.
In quel sogno avevo sentito e provato ogni cosa proprio come se fosse reale, come se tutto quel calore, quel piacere intenso, tutto quell'amore e quella fiducia che gli stavo donando tra le lenzuola ancora intatte del suo letto fossero davvero reali, tangibili, ancora esistenti, e non distrutti per sempre. Lo avevo sentito dentro di me, avevo toccato con le mie mani la sua e la nostra felicità indissolubilmente legate, e risvegliarmi in quel freddo letto e in quella cruda realtà, così distante da lui e dal suo cuore, mi lasciò realizzare che avrei preferito con tutto il cuore vivere uno degli incubi più spaventosi della mia vita, piuttosto che vedere così da vicino la felicità che mi era stata appena sottratta davanti agli occhi.
Una volta sveglia non ero più riuscita a trattenere le lacrime che scorrevano silenziose sul mio viso, dirette a quel cuscino ruvido ed estraneo; tentavo di zittire nel lenzuolo i miei sospiri spezzati per non farmi scoprire da Alex, che dormiva nel letto accanto al mio.
Cercavo con tutte le mie forze di estraniarmi da quei ricordi onirici, dal battito del mio cuore ancora agitato, da quelle risate felici e spensierate che riecheggiavano ancora alla porta della mia veglia, ma non riuscivo e stavo così male che credevo di non poterlo più sopportare. Guardai il buio della stanza, ascoltai il silenzio del piccolo albergo assopito, e mi chiesi quanto potessi soffrire ancora, se ci fosse un limite in termini di tempo e profondità per il mio dolore.
Non so quanto tempo era passato da quando mi ero svegliata, ma percepii infine il suono del suo profondo sospiro arrivare fino a me; Alex si mosse nel letto e mi chiamò, rivolgendosi direttamente a me per la prima volta da così tanto tempo da sembrarmi estraneo. « Sara? »
Ero rannicchiata da un lato, stringendo spasmodicamente le coperte per coprirmi il viso, voltandogli le spalle nella speranza che non si accorgesse di nulla, ma ormai era troppo tardi. Si alzò dal suo letto e venne a sedersi accanto alle mie ginocchia. « Ehi », mormorò in tono dolce.
Nascosi completamente il viso sotto le coperte e continuai a piangere.
« Perché stai piangendo? » chiese posando una mano sulla mia spalla e provando a tirarmi via le coperte per guardarmi.
Me lo stava chiedendo davvero? Aveva davvero il coraggio di farmi quella domanda?!
« Vattene », dissi controllando il mio tono per farlo uscire il più tagliente possibile, ma i singhiozzi non me lo permisero. Sembrai soltanto patetica.
Alex sbuffò rumorosamente e provò a togliermi le coperte. « Parlami, ti prego ».
Mi alzai di scatto e lo allontanai con una spinta. « Vaffanculo, Alex. Vaffanculo e vaffanculo. Vattene via, non voglio nemmeno vederti, non voglio sentire la tua voce e non voglio sopportare ancora la tua presenza », sibilai con tutta la forza che avevo, cercando di non urlare per non farmi sentire dai suoi genitori nella stanza accanto.
« Senti, ho capito, ho sbagliato, ma se tu »
E lo schiaffeggiai. Così, senza preavviso ma con forza sul volto, senza nemmeno rendermene conto io stessa; e ritrovare la sua faccia sorpresa, confusa, la bocca spalancata dallo stupore, mi diede la voglia per ricominciare a colpirlo, per fargliela pagare per tutto il dolore che continuava a procurarmi con la sua sola presenza.
« Sei uno stronzo, un pezzo di merda un », e ricominciai a colpirlo, ma stavolta sul petto, sulle spalle, sulla testa, sperando di potermi sfogare per tutto il dolore che sentivo attanagliarmi le viscere.
E lui, per qualche secondo, restò stoicamente fermo a subire il mio attacco, ma dopo poco mi afferrò i polsi e tentò di fermarmi. Ma io continuavo a dimenarmi e, in mezzo alle lacrime che sembravano essere solamente aumentate invece che diminuite, Alex mi strinse forte contro di sé e aspettò che mi calmassi.
E nonostante tutto il dolore e la rabbia che ancora mi dilaniavano il cuore, risentire di nuovo la sua vicinanza, il suo calore e il suo odore familiare che così tanto mi erano mancati, per pochi istanti parve davvero riuscire a calmarmi. E allora restai soltanto immobile contro di lui, ad esaurire le lacrime sulla sua maglietta, a illudermi che tutto potesse aggiustarsi solamente perché eravamo di nuovo insieme.
« Perché lo hai fatto? » gemetti con le labbra sulla sua spalla. « Hai rovinato ogni cosa... tutto ».
Mi strinse a sé con forza, accarezzandomi i capelli e lasciando la mano infine ferma sulla mia nuca per non lasciarmi muovere. Non parlava e ascoltava i miei lamenti in silenzio, rispondendomi solamente con la pressione del suo tocco, più intensa o più leggera a seconda dei momenti.
Non capii immediatamente che cosa stesse succedendo, e soltanto dopo parecchi secondi sentii il suo torace vibrare e la mia fronte inumidirsi di quelle che altro non potevano essere se non le sue lacrime.
Stava piangendo insieme a me.
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Spazio Ape:
Rieccoci qui! Cosa ne pensate del capitolo? Forse un po' noiosetto ma tranquilli, dal prossimo le cose si faranno... interessanti.
Volevo ringraziare stayshorty per il prezioso suggerimento per dare un volto a Sara. Cioè, mi meraviglio di me stessa: sono una super fan accanitissima della serie tv Outlander e non mi viene in mente Caitriona Balfe per interpretare Sara?! è semplicemente perfetta!
Beh, ovviamente ora Sara è troppo giovane, ma quando ritorneremo al presente sarà proprio come l'avevo immaginata!
Meravigliosa, non posso dire altro :-)
A domenica prossima! :-)
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