Capitolo 30
Le luci dei lampioni disseminati sull'autostrada illuminavano la via. La notte divorava il paesaggio attorno a me e gli occhi stanchi desideravano riposo. Il riposo non sarebbe arrivato se non appena fossi giunta a destinazione. Mancavano solo pochi chilometri e Milwaukee mi avrebbe baciata con la sua aurea familiare che sapeva di casa, sapeva di ricordi e di un passato talvolta da dimenticare, talvolta da imprigionare nella mente. Sarei dovuta partire con un giorno di ritardo, ma non appena Derek mi aveva accompagnata a casa, la mia mente aveva iniziato a vorticare e l'idea di anticipare il viaggio di ritorno alle origini non era sembrata più tanto sconsiderata. Avevo lasciato Nerone alle cure di Amanda Gregory, la signora del piano di sotto che amava quel cane quasi quanto me; avevo preparato velocemente una borsa ed ero andata via, lasciando che le luci della Chicago che amavo diventassero punti incandescenti sullo specchietto retrovisore.
Strinsi le mani attorno al volante della mia auto e scossi la testa quando per la milionesima volta le immagini di un bacio respinto si materializzarono dinanzi ai miei occhi.
Dovevo dimenticare il tocco delle mani di Derek durante quel ballo improvvisato e tanto intimo. Dovevo dimenticare la sua voce graffiante accanto al mio orecchio che mi intimava di spogliarmi delle vesti del detective del Chicago Police Department per una sera ed essere semplicemente me stessa. Non l'avevo fatto. Ad un passo dal lasciarmi andare al suo volere, la mia mente si era destata, la magia si era spezzata e mi ero tirata indietro.
Iniziavo a temere che per me non ci fosse più alcuna possibilità. Se in un tempo non tanto lontano avevo supposto che il mio lavoro fosse diventato il mio unico amante, su quella macchina un po' scassata diretta nella mia casa d'infanzia desiderosa di qualcosa di ancora sconosciuto che mi soddisfacesse, potevo affermare la mia confusione dopo anni di certezze e sicurezze. Sarei passata a miglior vita invasa da pratiche e protocolli?
«Al diavolo!» imprecai a voce alta consapevole della mia solitudine in quell'abitacolo che più di chiunque altro conosceva ogni mio sfogo. Allungai la mia mano verso la valvola del volume dello stereo e sperai che tutta quella musica e quelle voci insieme potessero fermare il trambusto nella mia mente.
La meravigliosa vista del lago Michigan rincuorò come mai avevo pensato prima, la mia anima. Le luci di una città addormentata mi guidarono apprensive sino all'incrocio della via che conoscevo fin troppo bene. Avrei potuto guidare di lì a poco, ad occhi chiusi riconoscendo persino lo scricchiolio dell'asfalto sotto gli pneumatici consumati e abituati ad un'altra frenesia. Svoltai l'angolo, stringendo le mie mani attorno al volante e guidai, inoltrandomi per quella strada conosciuta. I ricordi si accavallarono insieme, sgomitando l'uno sull'altro e così la vista di una bambina ingenua e curiosa si materializzò nella mia mente e la immaginai correre tra i prati delle case confinanti la sua a rincorrere chissà quanti altri bambini.
Arrestai la corsa della mia automobile ai piedi del vialetto lastricato del quale ricordavo la pericolosità se solo si pensava di poterlo attraversare a piedi nudi. Avevo continuato a farlo quando avevo notato con scrupolosa attenzione quanto mia madre lo odiasse, così io e successivamente mia sorella Anna ammiravamo divertite il dissenso di nostra madre ogni qualvolta correvamo in lungo e largo per quel vialetto.
Afferrai la mia borsa dal sedile accanto e abbondai quel confortevole e quasi sicuro abitacolo, contenta tuttavia di poter sgranchire i miei arti. Con la borsa stretta in una mano mossi i primi passi verso l'ingresso. Assaporai il clima della mia città natia mentre la notte sbiadiva in lontananza.
Sollevai i miei occhi su quella casa e inspirai a fondo. Non era mai cambiata di una virgola, così persino il pergolato in giardino non era mutato nel tempo.
I miei pensieri e la mia contemplazione verso un passato lontano e al contempo vicino furono arrestati dal cigolio di una porta che veniva aperta. I miei occhi si focalizzarono sull'ingresso, lì dove la figura di Anna si stagliava con aria assonnata.
Sorrisi immediatamente e affrettai il mio passo, abbandonando la mia borsa all'ingresso e lasciando che mia sorella si rifugiasse tra le mie braccia.
Fin troppo tempo avevo passato lontano dalla mia famiglia ad inseguire il mio futuro.
«Cosa ci fai sveglia a quest'ora?» chiesi immediatamente, restia tuttavia a sciogliere quell'abbraccio.
«Stavo ripetendo il discorso di domani quando ho sentito la tua macchina fermarsi davanti casa» rispose, mantenendo un tono di voce basso per non svegliare con ogni probabilità i nostri genitori. «Vieni dentro!». La seguii all'interno della casa, rabbrividendo inconsapevolmente a motivo di quel ritorno al passato.
«Papà e mamma stanno già dormendo. Non ti aspettavamo prima di domattina».
«Ho deciso di anticipare di qualche ora» replicai, poggiando la mia borsa sul tavolo della cucina, pieno zeppo di fogli colorati, post-it e altre cianfrusaglie. «Non dovresti essere sveglia, comunque» la ammonii immediatamente, consapevole della tarda ora e di quanto risentisse il nostro corpo del sonno perso.
«Me lo ha già detto la mamma. Non farmi la predica!» ribattè, prendendo posto su una delle sedie in legno attorno al tavolo. Tirò su una gamba, poggiandola sulla stessa sedia, in una delle posizioni più scomode di sempre e vi poggiò il mento, continuando a fissarmi.
«Non ti sto facendo la predica» mormorai, affievolendo la mia voce e aggirando il tavolo per abbracciarla. Non avrei mai immaginato che mi potesse mancare così tanto. «Cosa ti manca?»
«Gli ultimi due fogli».
«Vuoi ripeterli adesso?» chiesi prendendo posto accanto a lei.
«Sì, ma posso farlo da sola. Tu dovresti dormire» rispose, sollevando il suo sguardo su di me.
«Dormirò non appena avrai finito qui. Coraggio continua!» la esortai afferrando i suoi appunti colmi di cancellature e sistemazioni. Ascoltai la sua voce ripetere senza sosta, nascondendo delle volte qualche sbadiglio che coinvolse anche me, prima di rifugiarci tra le coperte del suo letto accompagnate da un bellissimo sole nascente.
«Dovresti smetterla di guardarti in quel modo».
«In che modo mi sto guardando, scusa?»
«Come se non ti piacesse quello che vedi» rispose mio padre, sciogliendo le sue braccia fino ad allora strette al petto e venendo verso di me, immobile dinanzi allo specchio della camera che mi aveva custodita per tutta quanta la mia vita da ragazza.
Lisciai ancora una volta il mio vestito e incrociai lo sguardo di mio padre, riflesso sullo specchio a pochi passi da me.
«È solo che è un giorno importante. Dovrei essere all'altezza» dissi ancora.
«Per Anna o per te?» chiese a quel punto mio padre.
«Per entrambe» mormorai infine, prima di voltarmi verso di lui. Era impeccabile nel suo bell'abito elegante.
La casa era entrata in fibrillazione alle prime luci del giorno e la voce squillante di mia madre non aveva tardato a strappare sia me che mia sorella Anna dal sonno nel quale eravamo presto cadute. Non ammetteva ritardi e sbagli come in qualunque cosa facesse. Quella volta tuttavia era diverso: si trattava di Anna e del suo traguardo.
«Sei bellissima, Olivia» sussurrò mio padre, baciando la mia fronte e indugiando con il suo sguardo sul mio viso.
Chissà se era fiero di ciò che vedeva.
«Anche tu non sei niente male, Mr Brosnan» mormorai in tono di scherzo, facendolo ridere. Mi strinse a sé prima di trascinarmi giù in salotto lì dove mia madre aveva iniziato ad impartire ordini pur essendo completamente sola dentro la stanza prima di uscire per andare ad assistere alla cerimonia di laurea.
La cerimonia era stata lunga ma significativa e mai avrei pensato di vedere mia madre in lacrime per qualcosa che non fossero quei film strappalacrime che tanto amava guardare. Mia sorella era stata elettrizzata per tutto quanto il tempo. Vederla così fiera di sé stessa aveva reso fiera anche me.
«Congratulazioni» dissi immediatamente non appena si avvicinò a me con il suo abito rosso comprato per l'occasione.
«Grazie, sorellona» mormorò quando mi strinse in un abbraccio. «Grazie per essere venuta, sul serio».
«Non mi sarei persa la cerimonia di laurea per nulla al mondo». Se ci pensavo però, avevo perso altre cose anch'esse importanti da quando vivevo a Chicago. Mia madre continuava a ripeterlo.
Quando mi staccai dal suo abbraccio e guardai i suoi occhi, fui sicura che stava pensando la medesima cosa.
Non potevo facilmente dimenticare le notti durante le quali mi chiamava piangendo ed io non ero lì a consolarla e neppure a scacciare via le sue paure. Non avevo mai preso la mia auto ed ero partita nel cuore della notte. L'indomani, quando il sole sorgeva, fingevo che tutto quello non fosse esistito e che la mia mente era prossima a giocarmi un brutto scherzo.
Mi ero persa tante occasioni importanti, era vero, ma quel distacco dalla mia famiglia e dalla mentalità chiusa e a me avversa era stato quanto di più giusto dovessi a me stessa.
«Voglio farti conoscere una persona» disse Anna eccitata. Quando scambiò uno sguardo complice con nostra madre, fui certa di essere l'unica a non saperne niente, ma non ebbi il tempo materiale per porre ad entrambe anche un solo sguardo confuso, che un ragazzo si materializzò dinanzi ai miei occhi.
«Lui è Malcom. Malcom, lei è mia sorella».
«Olivia» mi affrettai ad aggiungere quando strinsi la sua mano. Era alto quasi quanto Derek.
Quasi mi strozzai quando quel pensiero mi colpì in pieno. Era la prima volta che Derek mi balzava in mente dopo essere fuggita da Chicago e dalla fallimentare uscita insieme.
Malcom continuò a guardare mia sorella con occhi luminosi, ma non potei non sentirmi minacciata. Era la mia natura a trovare sospetta ogni minima cosa, persino la maniera in cui aveva sistemato il suo cravattino rosso come il vestito di Anna.
«Ci vediamo a casa» dissi immediatamente, desiderosa di andare via da tutto quello che non sembrava appartenermi più.
Mia madre mi lanciò un'occhiata carica di astio e mia sorella non mancò di distogliere il suo sguardo dal mio, forse ferita, forse sollevata.
Mi allontanai velocemente consapevole di non poter più fuggire quando tutti quanti si sarebbero riuniti a casa.
Ascoltai il ticchettio famelico dei miei tacchi sull'asfalto, raggiungendo la mia auto.
Vi salii, feci danzare la chiave all'interno della toppa e lasciai che il rombo lieve del motore della mia automobile riempisse la mia mente.
La casa era gremita di gente, parenti che non vedevo da anni e sconosciuti che non avrei mai voluto vedere.
Mia madre aveva superato sé stessa, allestendo il nostro giardino per un piccolo rinfresco. Più la guardavo e più comprendevo che era nel suo elemento, libera di muoversi tra la gente e colloquiare con loro come conoscenti di una vita. Probabilmente era realmente così. Io non potevo saperlo.
«Olivia». Il mio nome si perse nell'aria rischiarata da un caldo sole. I miei occhi si posarono proprio su mia madre che dal giardino continuava ad agitare la sua mano in aria per richiamare la mia attenzione. Mi staccai dalla ringhiera in legno della veranda e scesi i pochi gradini che la separavano dal verde giardino, raggiungendola.
«Conrad, questa è Olivia» disse mia madre con quello che mi parse un pizzico di orgoglio nella voce. «Olivia, non credo ti ricordi di lui».
«No, esatto. Sono tuttavia sicura che uno dei due rinfrescherà la mia memoria» accennai un breve e tirato sorriso quando pronunciai quelle parole.
«Sono un vecchio collega di tuo padre. Ti ricordo quando eri alta quanto un soldo di cacio».
«Invece adesso sono alta quasi quanto lei» dissi scherzosamente.
«Sono anni che non ti vedo. Cosa fai adesso?» chiese con interesse, prendendo un sorso dal suo bicchiere e spostando lo sguardo da me a mia madre.
«Sono un detective» dissi risoluta e decisa a distruggere il piano di mia madre di farmi apparire chi non ero. «Vivo a Chicago adesso».
«Un detective. È … interessante» mormorò imbarazzato, guardando nuovamente mia madre.
«È interessante che io sia un detective o che sia una donna ad essere un detective, Conrad?» domandai, infischiandomene del sussulto desolato di mia madre.
«Immagino perché tu sia un detective. Ricordo tua madre quando ripeteva che saresti divenuta un medico» rise coinvolgendo anche lei.
«Già, magari nei suoi sogni. Se volete scusarmi» mi congedai velocemente, fumante di rabbia intercettando lo sguardo arrabbiato di mia sorella poco distante.
Varcai le porte della cucina e sperai con tutta me stessa di rimanere sola sino al termine della giornata.
«Cosa ti salta in mente?» Mi voltai giusto in tempo per ammirare mia madre perdere le staffe.
«Sarei io nel torto adesso? Tu ti vergogni di me. La stragrande maggioranza della gente lì fuori non sa chi sono o per lo meno sa chi sono per i tuoi dannatissimi racconti utopici» le urlai contro.
«Non è vero, ma per una volta potresti mettere il tuo ego da parte, Olivia ed essere normale per tua sorella. È la sua giornata».
«Il mio ego? Ma ti stai ascoltando, mamma o parli a vanvera?»
«Cosa sta succedendo qui?» domandò mio padre, facendo il suo ingresso in cucina seguito da Anna.
«Olivia è stata scorbutica con Conrad» disse mia madre, fulminandomi con lo sguardo.
«È la verità, Olivia?» chiese ancora mio padre.
«Certo che è la verità, James» ribattè mia madre.
«Non l'ho chiesto a te, Samantha. Olivia, è la verità?»
«State scherzando spero. Mi sembra di essere una bambina. Mettiamo in chiaro un paio di cose. Primo: Sono un'adulta e rispondo come mi pare alla gente. Secondo: Non credo sia colpa mia se qui dentro tutti si vergognano che io sia un detective e non una madre di famiglia, sposata e con figli al seguito». La mia voce si alzò più di quanto avessi voluto alla fine, bloccando il mio respiro e lasciando che l'ira si impossessasse di me.
«Ritorniamo sempre a questo punto. Hai visto, James?» piagnucolò mia madre, respirando a fatica.
«Puoi negarlo, mamma? Puoi negare il fatto che io non ti piaccio così come sono?»
«Certo che mi piaci così come sei. La mia preoccupazione nasce dal momento in cui a trent'anni tu non sia sistemata» mormorò mia madre, afferrando un tovagliolo dalla credenza e tamponandosi il viso.
«Ma che razza di preoccupazione è mai questa? Dovresti preoccuparti della mia felicità e mettere da parte tutto il resto. E poi sono sistemata eccome. Lavoro, riesco a pagare l'affitto e non mi manca nulla» ribattei intenta a difendere la mia vita e le mie scelte.
«E un uomo? Dei figli?» chiese mia madre, mettendo in chiaro il suo desiderio.
«Non ho bisogno di questo. Non è ciò che voglio adesso».
«Ma è ciò che vogliono tutti, Olivia».
«Beh, non io».
«Samantha, avevamo detto di non parlarne. Torna dagli ospiti e porta Anna con te» disse mio padre, accarezzando mia madre, cercando di farla calmare.
La vidi scuotere il capo e andare via, sconfitta e delusa, delusa magari dalla figlia che non sembrava riconoscere nemmeno più.
«Vieni qui, Olivia» mormorò mio padre quando restammo solo noi due dentro la cucina. Aveva preso posto su una sedia e mi invitò a sedermi su di lui. Lo feci, non tardando ad abbracciarlo.
Per quanto potessi fingere che litigare con mia madre non mi sfiorasse nemmeno, non potevo mentire a me stessa. Odiavo litigare con lei, ma non potevo cambiare le cose. Io ero questa: il detective Olivia Brosnan; trent'anni e il lavoro sempre al primo posto. Non potevo cambiare e nel profondo del mio abisso sapevo di piacermi così com'ero.
«Questa casa aveva smesso di essere tanto chiassosa dallo scorso Natale, piccola» disse mio padre, baciando la mia spalla nuda facendomi ridacchiare. Era trascorso quasi un anno da quando ero tornata a casa dopo l'ultima volta.
Milwaukee esisteva per me sono durante il periodo natalizio. Quell'anno tuttavia non ci sarei stata. Mancavano solo poche settimane e non ci tenevo a rivedere mia madre dopo oggi.
«Delle volte mi domando se il problema sia io, papà» mormorai con un filo di voce. Sembrava che io potessi essere la donna forte e sicura di sé solo se mi tenevo a debita distanza da quel posto.
«Tua madre vuole solo vedervi felici ed è ancora convinta che tu non sia felice a Chicago» disse mio padre, intensificando la sua presa attorno al mio corpo.
«Io sono felice a Chicago ed è ancora quello che si ostina a non comprendere».
«Puoi biasimarla, tesoro? Tutte le sue amiche hanno già organizzato i matrimoni delle loro figlie».
«Ti prego. Non anche tu. Non è il momento».
«Vuoi dirmi che lì a Chicago non c'è nemmeno un pretendente?» chiese leggermente divertito. «E quel tuo collega?»
«Zack?»
«Già, Zachary. Tua madre non fa che chiedere di lui».
«Non chiamarlo Zachary. Zack va più che bene. Con lui esiste solo un rapporto di lavoro e non sono nemmeno tanti i casi che risolviamo insieme».
«Sarà un duro colpo per tua madre» disse, ridendo. Mi fece sollevare, alzandosi anche lui. Portò i suoi palmi sul mio viso e mi guardò negli occhi.
«Nessuno di noi cerca di cambiarti, Olivia. Siamo fieri di te e di tutto quello che fai per la comunità americana, ma siamo la tua famiglia e non vederti se non una volta l'anno è dura» mormorò mio padre, sicuro di possedere tutta la attenzione.
«Torniamo in giardino adesso, probabilmente tua madre ha una sfilza di ragazzi da farti conoscere».
Mi ero rifugiata in quella che per anni era stata la mia bolla di protezione. Non era cambiata e in quel momento compresi che neppure io sarei mai potuta cambiare.
I ritagli di giornale erano ancora tutti lì, appesi alla parete principale, lì dove mancava la carta da parati. Avevo trascorso anni interi in quella stanza che solo in quell'istante mi appariva estranea.
Qualcuno bussò improvvisamente alla mia porta che non tardò ad aprirsi, rivelando il viso stanco di Anna.
«Posso?» chiese con voce flebile. Annuii, guardando la sua figura chiudersi la porta alle sue spalle e sedersi sul letto intatto.
«Sono andati via tutti?» chiesi, spostando il mio sguardo sul sole che cercava lentamente di battere la sua ritirata.
«Non proprio» rispose, continuando a guardarmi. «Te ne vai già?» chiese immediatamente non appena posò il suo sguardo sulla mia borsa già perfettamente pronta.
«Sì. Ho un lavoro da finire» mormorai, pentendomene all'istante quando si sollevò in piedi, arrabbiata.
«Quando mai tu non hai un lavoro da finire?»
«È quello che faccio per vivere».
«Per vivere? Olivia, tu non vivi più, lavori e basta».
«Non credo sia un tuo problema, Anna. Sono stata qui oggi. Dovrebbe bastarti».
«Bastarmi? Dovrebbe bastarmi averti vista dopo un intero anno?» chiese, ridendo seccamente.
«Esattamente. Questa è la mia vita, Anna. Questa sono io».
«Ti sei persa così tante cose» mormorò silenziosamente, guardandomi negli occhi.
«È il prezzo che delle volte si deve pagare, Anna».
«Lo dici come se fosse un vanto».
«Smettila! Non è un vanto, ma per me è importante il mio lavoro. Tu non sai nemmeno quello che ho passato in questi anni, il sudiciume al quale ho dovuto assistere. Tu, papà, mamma non avete idea di quello che c'è fuori da qui» dissi risoluta. Nessuno avrebbe potuto saperlo se non coloro che lavoravano a stretto contatto con me.
«M-Mi dispiace» ribattè silenziosamente. «Non ho alcuna idea di come sia la tua vita fuori di qui, perché sei così diversa, Olivia ma non puoi biasimarci».
«Io devo sempre comprendere tutti». Mi avvicinai alla finestra e guardai oltre il vetro, l'inverno incombere al di là dell'orizzonte.
Presto mi sarei lasciata alle spalle quella parentesi e chissà quando sarei ritornata, ma non potevo fare altrimenti. Avevo un caso da portare a termine. Era la mia priorità. Dovevo dare un volto all'assassino al quale stavo dando la caccia.
Possedevo fin troppi tasselli di un puzzle che doveva giungere alla fine, un puzzle intrigato con particolari oscuri, ma ero il detective al quale quel caso e quel puzzle erano stati affidati. Non mi sarei tirata indietro, e se non avevo l'appoggio della mia famiglia non potevo farci nulla. Non l'avevo mai avuto, non mi sarebbe cambiato averlo in quel momento.
Osservai il mio riflesso stanco e travolto dai pensieri e decidi che era arrivato il momento di tornare alla realtà.
*
Sono consapevole del ritardo abnorme e una serie di 'mi dispiace' detti dietro uno schermo non serviranno a nulla, ma questo periodo è stato difficile, ma manca poco prima di potermi reputare parzialmente libera e tornare a scrivere.
Ringrazio chi è rimasto ad aspettarmi, anche se non avrei voluto passasse tanto tempo.
Fatemi sapere se con questo ritorno sono perdonata almeno in parte.
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