Capitolo XV
Serena aveva iniziato la terapia presso la psichiatra dell'ospedale, la dottoressa Giordano, la quale le aveva dato da prendere degli antidepressivi.
Questi avrebbero dovuto contrastare la depressione maggiore di Serena, quei movimenti lenti e trascinati, quello sguardo perso e vuoto, quegli occhi bui e dalle palpebre più chiuse che aperte; quella voce sotterrata in fondo alla gola, la bocca secca e screpolata, la pelle grigiastra.
Serena assumeva i medicinali nelle dosi prestabilite. Li prendeva la mattina appena sveglia e la sera prima di andare a dormire. Quelle pillolette dovevano essere la sua salvezza, eppure la facevano sentire viva quanto un vegetale.
Cos'era che non andava? Cosa le stava succedendo? Perché gli psicofarmaci non stavano dando gli effetti sperati? Questo Serena non lo capiva. Sapeva solo, che quella vita aggravava sulle sue spalle come un grosso macigno.
Ogni cosa era di una lentezza disarmante, di una noia, di una malinconia, ma non di quelle dolci, bensì di quelle amare.
Tutti i suoi dubbi, anche i più stupidi, in ogni momento della giornata prendevano le sembianze di mostri terribili, che combattevano tra di loro e in contemporanea contro di lei.
In ogni momento della giornata, poteva capitare che le lacrime potessero rigare violentemente le sue guance. Con gli occhi, il viso e il collo umidi, appiccicosi, e con le labbra dal sapore salato delle lacrime, Serena fissava il soffitto sotto le calde coperte.
Mentre il vento di metà novembre spazzava via dolcemente le foglie dagli alberi, nel cuore e nella mente di Serena albergava un gelo bruciante. Era tutto così terribile. Anita la guardava senza dire niente. Aveva paura di dire o fare la cosa sbagliata, allora si faceva gli affari suoi. Aveva già i suoi di problemi per pensare anche a quelli degli altri, pensava.
Serena, in un giorno come un altro (non si ricordava il giorno del mese né quello della settimana) si alzò dal letto (erano rare le volte) per mangiare la cena, che Ania le aveva portato in camera perché lei, Serena, non voleva uscire da quelle quattro mura per andare assieme agli altri, nella cucina, a preparare da mangiare.
La dottoressa Giordano le aveva detto di iniziare a fare un piccolo sforzo. Serena doveva avere un contatto sociale almeno due volte al giorno. Bastava poco. Una piccola conversazione, uno sguardo scambiato con qualcuno, cucinare con gli altri, mangiare con gli altri, pulire o sistemare l'ambiente a lei circostante.
Ma no, a Serena di tutte queste cose non fregava niente. Afferrò il vassoio dalla scrivania e se lo portò nel letto. Mangiò il petto di pollo senza appetito. Ogni pezzetto di carne faceva fatica ad andare giù, perfino masticare sembrava essere uno sforzo. Anita la fissava con le natiche poggiate al marmo della finestra e con le braccia incrociate al petto.
“Serena”.
Serena posò la forchetta di plastica nel piatto ancora pieno.
“Lo so che… insomma, non siamo mai andate d'accordo per tutto questo tempo, ma…” cominciò l'altra.
“Stai zitta” la bloccò Serena.
“Come?”.
“Taci, mi fa male la testa”.
“Io volevo solo…”.
Serena posò il suo sguardo sulla sua compagna di stanza. “Va’, vattela a fare quell'altra striscia di quella merda”.
Anita dischiuse le labbra. Avrebbe voluto ribadire, difendersi da quelle cattive e ingiuste parole che le riservava quella ragazza. Avrebbe voluto risponderle a dovere ma si sentiva ferita.
Per un volta voleva provare a fare qualcosa di buono. Voleva donare una parola di conforto ad una persona che sembrava più rotta di lei, ma questa le sputava addosso tutto il veleno che potesse tenere in corpo.
“Che fai? Piangi?” domandò ironica Serena.
Lo disse con una nota di fastidio. Lei era la prima a piangere, per giunta senza un motivo a lei apparente, eppure le sembrava giusto rinfacciare ad Anita di star lacrimando e far intendere, nemmeno così sottilmente, che quella era una cosa da deboli.
“Sai una cosa?” Anita si scostò dal marmo della finestra per avvicinarsi al letto dell'altra. “Tu sei una persona cattiva, molto cattiva. Nelle vene non tieni il sangue come a tutti quanti. Tu, tieni il veleno. E tu, qua dentro devi essere ancora l'unica a capire che sei malata e, che purtroppo, non è detto che guarirai. Forse dovrai convivere così per tutta la tua vita e te ne dovrai fare una ragione. Ma no, non per questo puoi andare in giro a mandare a fanculo chi ti vuole aiutare”.
Dopo questo monologo, Serena senza dire una parola, si alzò dal letto lanciando il resto della cena sul pavimento. Il rumore del vassoio a contatto con il pavimento rimbombò tra le quattro mura della camera.
La ragazza uscì dalla stanza senza curarsi di nulla e si allontanò dalle camere femminili. Scoppiò a piangere. Ancora. Proprio come quella stessa mattina e quello stesso pomeriggio, e come faceva da settimane e settimane a quella parte. Girovagò senza meta per la struttura.
Non incrociava, nemmeno per sbaglio, lo sguardo di qualcuno. I suoi piedi si muovevano da soli, senza che capisse bene il senso di quello che stava facendo. Salii le scale. Il secondo piano. Poi, il terzo. Poi, ancora. Salì sul tetto dell'edificio. Forse era giunto il momento giusto.
Durante le sue ultime settimane, nella mente di Serena albergava il pensiero di farla finita. Si chiedeva come sarebbe stato il mondo senza una persona cattiva come lei? Qualcuno si sarebbe accorto della sua mancanza? Ma soprattutto, a qualcuno avrebbe importato della sua morte?
Morte. Che parola.
Sembrava così lontana da lei fino a relativamente poco tempo fa. La morte sembrava distante dalla realtà di una giovane ragazza di diciassette anni, eppure adesso le era più amica di qualunque altro.
I suoi stessi piedi l'avevano condotta al bordo del cornicione del tetto del Santa Maria.
L'aria fredda della sera le pizzicava piacevolmente il volto. Adesso, sentiva il corpo leggero, non più come un macigno da dover trascinare. Si stava per liberare di un peso.
Stava accadendo.
Poggiò il piede destro sul cornicione del tetto, poi il sinistro. Doveva solo…
“Non farlo!” gridò qualcuno.
Lei si voltò di scatto. Quasi stava per cascare nel vuoto ma per fortuna si mantenne in equilibrio.
Era Davide.
“Davide… cosa vuoi? Vai via!”.
Il ragazzo fece un passo in avanti.
Si trovava in giardino quando alzò lo sguardo e vide Serena sul tetto dell’edificio. Aveva fatto una corsa disumana per poter arrivare in tempo lì, adesso non aveva intenzione di lasciare la ragazza a sè stessa.
“Ti prego…”.
“Ho detto che te ne devi andare. Vattene!” un’ennesima lacrima rigò la guancia di lei.
“Serena ragiona, ti scongiuro” implorava il ragazzo. “Non puoi farlo”.
“E perché no? A me non me ne frega. Non me ne fotte niente più!”.
“Pensa almeno a chi ti vuole bene. Come…”.
“Nessuno mi vuole bene a me. Nessuno!” iniziò a piangere forte la ragazza.
“Non è vero!” alzò la voce Davide con la paura negli occhi. “Io…”.
“Tu che? Mi vuoi bene?” chiese ironica Serena. “Perché sei qui?”.
“Io… quando ebbi quella crisi, ti ricordi?”.
Serena aggrottò le sopracciglia. “Sì, quindi?”.
Davide contrasse la mascella. “Tu ci sei stata, ed adesso voglio esserci io per te” disse cauto, un altro passo verso Serena.
“No, io non ho fatto niente” scrutò insistentemente il volto del ragazzo illuminato dai fasci di luce della luna. "Ti sei fatto i film nella mente".
“Sì, invece!” oramai Davide era ad un paio di metri dalla ragazza. “Sai come mi guardano gli altri? Come se fossi stupido, a volte perfino con disprezzo. Come… se fossi pazzo”.
“Noi… siamo pazzi”.
“Forse lo siamo, ma il punto non è questo”.
“E qual è, allò?”.
“È che per la prima volta una persona ha provato empatia nei miei confronti. Me li ricordo i tuoi occhi nel bel mezzo della mia crisi. Tu mi stavi scrutando l'anima, Serena. Non volevi comprendere di quale malattia mentale soffro, ma cosa avevo per davvero dentro”.
Davide con il palmo della mano si colpì il petto, come per carezzarsi l'anima.
Serena lo fissò deglutendo la bile che le si era creata in gola. Diede uno sguardo al vuoto nel quale poco prima voleva buttarsi. Ritornò con gli occhi sul ragazzo. Quest'ultimo aveva appena allungato una mano verso di lei.
Serena l'afferrò. Davide la tirò immediatamente a sé. Lei affondò la testa nel petto del ragazzo e gli cinse le braccia al collo in un abbraccio. Forte.
Davide venne colto all’improvvista per cui sbatté più volte le palpebre. La strinse a sua volta. Poggiò le sue mani attorno alla vita della ragazza ed inspirò il profumo naturale della pelle di lei.
Tutto in quel mondo sembrava terribile, ma con una persona al proprio fianco poteva esserlo di meno.
Questo, Serena, lo aveva appena capito.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro