Capitolo XIII
Come un fiore in un deserto, Serena moriva. Ogni parte della ragazza, giorno dopo giorno, si andava ad annullare. Ogni pezzetto del suo essere bruciava in un gelo che la stava annientato.
Era sicura che non sarebbe sopravvissuta, ma il vero problema era che, a lei, nemmeno importava.
Le avrebbero potuto martoriare il corpo e, lei, avrebbe continuato a starsene distesa sul suo letto a fissare il soffitto bianco sopra di sè.
Se le avessero detto che un mostro le stava alle calcagna, pronto a prosciugargli ogni emozione e sentimento, avrebbe risposto che, tanto, di emozioni e sentimenti, lei, non ne aveva più già da tempo.
Non ne aveva più assieme al loro ricordo.
Quando Valeria quel giorno era venuta a chiamarla per portarla da Antonio, sbuffò. Non aveva per niente voglia di parlare, soprattutto con chi avrebbe scavato nella sua anima. La verità è che si vergognava di sé perfino con se stessa. Si sentiva patetica.
Si sentiva inutile in quel mondo nel quale tutti, ai suoi occhi, avevano trovato un posto. Tutti tranne lei.
Con una forza, che nemmeno lei credeva di possedere, si alzò dal letto nello stesso momento nel quale Anita uscì dal bagno.
Anche quella volta, come molte altre, Serena era sicura, che la sua compagna di stanza si era andata a sniffare un'altra striscia di cocaina.
Chissà cosa si provava a sentire quella polvere attraversare le narici. Chissà se gli effetti che le avrebbero procurato le sarebbero piaciuti.
Il dolore sarebbe scomparso?
Oppure, il piacere sarebbe stato solo temporaneo?
Ma no, a lei non importava.
Lei avrebbe fatto di tutto anche per un solo attimo di felicità.
Quando Valeria la richiamò dall’uscio della porta, distolse lo sguardo da Anita, la quale la stava guardando di traverso. Le due avevano litigato.
Quando Serena scoprì del segreto di Anita, quest'ultima ebbe paura, allora minacciò l'altra di starsene in silenzio o, in quel luogo, le avrebbe fatto trascorrere le peggiori giornate della sua vita.
Serena poco se ne curò di quelle minacce, ma comunque se ne stette in silenzio. Non aveva interesse per gli affari di quella ragazza.
La ragazza uscì dalla sua stanza e raggiunse lo studio di Antonio. Sperava proprio, che quel giorno lo psicologo avesse voglia di parlare più del solito, così lo avrebbe fatto lui al posto suo.
Serena bussò alla porta, dopo poco ricevette un ‘avanti’.
“Oh, ciao” sorrise lo psicologo non appena la vide. “Vieni, vieni”.
Serena entrò in quell’ufficio che aveva visto tante volte in quel breve periodo nel quale era stata al Santa Maria.
“Accomodati”.
Serena si sedette sul solito divanetto e Antonio sulla sedia difronte a lei.
“Come stai, Serena?”.
“Sto” alzò spallucce la ragazza.
“Potresti essere un po'più precisa?”.
“Perché lo volete sapere?”.
“Perché sono qui per aiutarti, stiamo ancora a questo?”.
“Allora mi aiuti!” alzò di poco la voce, Serena.
“Non posso aiutare chi non vuole essere aiutato” ribatté lo psicologo senza scomporsi.
A Serena sudavano le mani, il respiro affannato, la rabbia le cresceva in petto.
“Non sono così stupida da non voler essere aiutata per rimanere per sempre nella propria agonia”.
“Dimmi come stai” ancora.
Serena distolse lo sguardo dagli occhi dell’uomo. “Non lo so. Ci deve stare per forza una riposta?”.
“No, ma è grave che tu non lo sappia. Vuol dire, che non ti conosci bene o che ancora devi imparare a parlare con me. Di questo mi dispiace molto, perché a te tengo molto e vorrei…”.
“Non è il vostro, il problema” Serena ritornò a guardare l'uomo. “Il problema è che sto male, ma non so perché” sentiva le lacrime in gola. “Sto male! Sto male da tutta la mia vita, ma mo…”.
“Sì?”.
“Mò e peggio che prima. Sembra che 'sto male me l'hanno imprignato dentro nelle ossa. 'Sto male non se ne va più. Da troppo tempo, Antò” Serena tremava tutta mentre queste parole uscivano direttamente dalla sua anima.
Antonio abbassò lo sguardo sul suo taccuino che teneva poggiato sulle sue gambe. Sospirò. Rialzò lo sguardo sulla sua paziente.
Lui sapeva cosa aveva Serena. Sapeva perché stava così male da così tanto tempo, da tutta la sua vita, eppure dare quella diagnosi era così difficile.
Oramai erano passate svariate settimane da quando Serena aveva iniziato a trovarsi in una fase depressiva. Il problema, adesso, era come dirlo a lei, o meglio, come farglielo accettare.
“Serena, dalla prossima volta ti manderò dalla dottoressa Giordano”.
“E chi è questa?”.
“La dottoressa Giordano è specializzata soprattutto in depressione e nelle depressioni maggiori, ma in generale nei disturbi dell'umore. Lei potrà aiutarti adeguatamente, meglio di me".
Serena deglutì.
Lei era malata sul serio.
Lei era per davvero pazza.
Lei era diversa dagli altri.
Quella volta ne aveva avuto la conferma, non solo dalla gente del suo quartiere, ma anche da uno psicologo. Non poteva crederci.
“Serena, non devi pensare che…”.
“Cosa?” chiese alzando la voce la ragazza.
“Che la tua malattia mentale ti etichetti. Tu sei Serena Cirillo, non quella depressa, okay?”
.
“Tra quanto guarirò? Che medicine devo prendere?”.
“Di questo se ne occuperà la dottoressa Giordano. Tu cerca di stare tranquilla, e quando lei ti dirà da prendere degli specifici psicofarmaci all'ora prestabilita in quantità prestabilite, tu non dovrai fare altro che seguire le sue indicazioni”.
“Okay…” una lacrima traditrice bagnò la guancia di Serena.
“Ricordati che sei tu l’artefice della tua vita, che tu, questa vita, la devi prendere tra le mani. Sei tu che la domini, sei tu che la devi prendere a morsi non il contrario. È vero, non puoi cambiare le sfide che ti pone davanti, ma puoi decidere se affrontarle e vincerle o…”.
“Abbandonarmi a me stessa e… farmi prendere a morsi dalla vita".
“Vuoi questo?”.
“Non lo so. A volte le sfide troppo difficili… mi fanno una paura”.
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