Capitolo XII
La vita di Serena al Santa Maria scorreva.
Le lancette si muovevano in modo orario, ma se si fossero spostate in modo antiorario, Serena, per certo, nemmeno se ne sarebbe accorta.
I minuti, le ore e i giorni erano di una logorante pesantezza. Serena non ne distingueva più la differenza. Il tempo si era tramutato in una massa di materia ignota, della quale l’esistenza non sembrava mai essere esistita.
Ogni rintocco scandiva un flebile respiro, che spesso si bloccava nella gola della ragazza.
Corpo e anima sembravano annullarsi. Il corpo di Serena, avvolto da una solita tuta grigia, era sempre accasciato sul letto.
Il letto.
Quella dimora che la faceva sentire protetta dal mondo esterno, che era così terribile e malvagio, così inumano ed insensibile.
La coperta, che aveva sempre su di sè, non era altro che un confine che nessun essere umano doveva oltrepassare.
Si era costruita una gabbia dalla quale, per lei, oramai, sarebbe stato fin troppo difficile uscire. Eppure, bastava solo trovare le chiavi di questa.
Una mattina di un giorno di metà ottobre, Serena stava uscendo dallo studio dello psicologo Antonio. Durante la seduta, l’uomo appuntava i punti salienti di tutto quello che gli diceva Serena, la quale sembrava aver imparato a raccontare le sue giornate e, a volte, addirittura a sfogare il suo dolore.
Nell’ultimo periodo, Antonio, si era fatto un’idea abbastanza precisa dello stato mentale della sua paziente. Per il momento, però, si astennè dal mandarla dalla dottoressa Giordano, la psichiatra della comunità, la quale le avrebbe dato degli psicofarmaci.
I psicofarmaci avrebbero aiutato la paziente, ma allo stesso tempo, se non moderati nei dosaggi, l’avrebbero potuta distruggere.
Quando Serena uscì dallo studio dello psicologo, nella sala di attesa, trovò Gennaro.
Il ragazzo se ne stava seduto su una delle sedie nella sala d'attesa. Teneva un braccio allungato lungo la spalliera della sedia di fianco a lui, e le gambe lunghe e toniche distese dinanzi a sé, le caviglie incrociate. In quella posizione disinvolta e in quello sguardo ammiccante, le labbra carnose curvate leggermente all’insù, Serena vi avrebbe trovato sicuramente qualcosa di affascinante in un altro periodo della sua vita.
In quel momento, però, provava solo che fastidio nella vista di quel ragazzo menefreghista.
“Passata bene la seduta?” le labbra di Gennaro si distorsero in un ghigno.
“Nei migliori dei modi” rispose atona lei.
“Mi fa piacere”.
“Anche a me”.
Serena si stava allontanando, quando Gennaro scattò in piedi in un baleno.
“Dove vai?” chiese il ragazzo.
“In camera mia” Serena, ignorandolo, ritornava da dove era venuta.
“Mh, bello” Gennaro iniziò a seguirla.
“Non è che ci sta molta scelta”.
“Il giardino non ti sembra una scelta migliore?”.
La stava invitando, per caso, a tenersi compagnia nel giardino? Cioè, stare all'aria aperta con la luce ad abbagliare i suoi occhi, ed insieme ad una persona con la quale avrebbe dovuto parlare per forza, se non addirittura relazionare?
Sperava proprio di no.
Quelle erano proprio le due cose che detestava più fare: stare all'aria aperta e relazionare.
“No?” insistette il ragazzo.
“Sì, è vero” Serena, seguita da Gennaro, svoltò un corridoio. “Perché non ci vai?”.
“Se mi accompagni, ci vado”.
Serena bloccò di scatto la sua camminata.
“Posso capì che vuoi da me?” sbottò Serena in un napoletano ben marcato.
Il ragazzo guardò così intensamente negli occhi di lei, che, per la prima volta, si perse in tutta quell'oscurità.
“Niente, vorrei capire solo che ti passa dentro a quella testa che tieni”.
L'altezza di Gennaro sormontava Serena, la quale, però, non si sentiva per niente intimorita.
“E i cazzi tuoi?”.
“Forse domani”.
I due si guardarono negli occhi per una manciata di secondi, secondi nei quali i due non abbassarono per un solo istante lo sguardo.
“Allo?” riprese lui.
“Che?”.
“Vieni con me, ti giuro che non ti faccio niente” a Gennaro scappò un debole sorriso all’angolo delle labbra.
Quel movimento leggero delle labbra carnose del ragazzo, costrinse Serena ad accettare.
I due, allora, si incamminarono verso il giardino del Santa Maria. Arrivati ad una panchina, si sedettero. Il sole, che per tutta la mattinata era stato alto in cielo, adesso era coperto da delle nubi scure.
Le temperature erano iniziate a scendere in quel periodo dell'anno, e a Serena questa cosa non piaceva. Lei odiava il freddo come odiava la luce.
La sua vita era tutta una contraddizione, proprio come lo era lei.
“È una bella giornata, ja” intervenne Gennaro.
“Sì vede” Serena scese col corpo sulla panchina.
Si era seduta in una posizione molto sciatta.
“La compagnia però la può migliorare, o no?”.
“Non credo”.
“Perché?”.
Serena guardava davanti a sé, senza sapere cosa rispondere alla domanda che il ragazzo gli aveva appena posto.
Gennaro, stufo e, in parte infastidito, le fece voltare il viso verso di sé poggiando due dita sotto al mento di lei. Il tocco era leggero, eppure Serena lo percepì talmente potente da farla sussultare.
I loro sguardi si incontrarono. Gennaro afferrò l’elastico, che raggruppava la massa riccia e voluminosa dei capelli di lei, e lo sfilò. La chioma vaporosa ricadde lungo le guance di lei. Quest'ultima cercò di guardarlo indifferente, mentre una goccia di pioggia le cadeva sulla guancia.
“Lo so che non ti piace la compagnia...” riprese Gennaro.
“E tu che ne sai?” un'altra goccia le colpì il dorso della mano destra.
“Me lo ha detto Anita, e poi non è che vuole assai per capirlo”.
“Ma davvero?” Chiese sarcastica Serena. Un’altra goccia le bagnò i pantaloni grigi.
“Eh, perchè non è vero?”.
“No” Serena lo disse scadendo per bene la sillaba e muovendo il mento verso l’alto.
Gennaro rise voltandosi verso i cancelli della struttura.
“Che tieni da ridere?” le gocce di pioggia erano sempre più frequenti, fino a sfociare in una vera e propria pioggia.
“Mannaggia” Gennaro cessò la sua risata. “Entriamo dentro”.
I due corsero verso l'interno del Santa Maria. Quando furono arrivati dentro, si erano già completamente inzuppati d'acqua.
Adesso i capelli voluminosi di Serena erano appiccicati sulle sue guance, mentre il ciuffo di Gennaro gocciolava sulle sue stesse ciglia lunghe.
Entrambi avevano il fiatone.
“Sei un grande, guarda qua” fece Serena indicando la sua tuta tutta bagnata.
“Ed è colpa mia?” riprese a ridere Gennaro.
“E di chi, allò? Tu sei voluto venire qua”.
“Tu mi sei venuta appresso però”.
“Sembri... guarda non mi fare parlare che ti offendo se no” disse Serena, per poi allontanarsi dal ragazzo.
“Hai scordato l’elastico” gridò lui togliendosi l'accessorio per i capelli dal suo polso.
Serena nemmeno si voltò e a passo felpato raggiunse la sua camera.
Aveva bisogno decisamente di una doccia calda e di cambiarsi prima che le venisse un malanno.
Entrata in camera, dal suo borsone prese biancheria pulita e un'altra tuta. Poi, si diresse verso il bagno.
Quando spalancò la porta vi trovò Anita piegata sul marmo del lavandino. Dal naso stava sniffando della polvere biancastra.
Cocaina.
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