~Capitolo 10~
Parliamo con enfasi
Solo se non ci vediamo da anni
Non voglio amare se poi devo odiarti
Non devi darmi se poi devo darti
Parliamo con enfasi
Solo se abbiamo qualcosa in comune
Lungo la strada abbiamo perso il lume
Per diventare mare devi essere fiume
Stamattina sto fissando da mezz'ora il display del mio cellulare, perché mi ha appena rivelato che oggi è il primo novembre.
Sono scioccata.
Non riesco ancora a capacitarmi di come sia già trascorso un mese da quando sono approdata qui a New York.
È vero che i segnali ci sono stati, ma io non ho saputo coglierli, troppo impegnata a rimuginare sulla mia vita e a pormi mille interrogativi.
E così, mentre il fogliame mutava tono, scurendosi e tingendosi dei tipici colori autunnali, consapevole che a breve avrebbe ricoperto il terreno brullo o le strade della città e sarebbe marcito, io ho continuato a ripetere la mia routine universitaria come immersa in una bolla, troppo distratta dal volume dei miei pensieri per farci caso.
Ciò che ha prosciugato tutta la mia attenzione in particolare è stata la questione Daniel, ma non nascondo che anche la questione William abbia avuto il suo peso.
Con il mio ragazzo le cose sono sempre statiche, più passa il tempo e più mi domando se sia lui quello giusto per me, soprattutto ora che un paio di occhi neri suscitano in me delle strane sensazioni.
Poi però, quando provo ad immaginare la mia vita senza di lui, mi sento vuota e terribilmente insicura.
Daniel è stato il primo ad amarmi, anche quando io stessa non ero in grado di farlo. Mi ha riempita di attenzioni i primi mesi, mi ha fatto capire che di me non esiste solo la parte che ero in grado di vedere io, quell'ammasso di difetti che ero convita fosse alla base del mio essere.
Mi ha aiutata a capire che ho anche delle cose di cui andare fiera, che posso contare anche sui miei pregi; so che può suonare tremendamente egoistico da parte mia, ma ho il terrore che senza di lui tornerei ad essere quella di prima, ho paura che senza il suo amore per me io non sarò più in grado di amare me stessa.
Probabilmente è questa una delle ragioni principali che al momento mi impediscono di rompere con lui, insieme al fatto che non voglio ferirlo perché in fin dei conti io lo amo ancora, ma non so più se sia sufficiente per definirci un "noi", un qualcosa di più della somma delle nostre due anime.
È da un po' di giorni che mi é balenata in mente l'idea di tornare a Kingstone a trovarlo, ne ho quasi un bisogno fisico, mi auguro che rivedendolo le cose mi siano più chiare, ma mi accorgo che non ci spero poi molto dopotutto. Le cose andavano male anche quando vivevamo a pochi chilometri di distanza.
Oggi è sabato e dopo aver finalmente deciso di alzarmi da questo letto ed essermi resa quantomeno presentabile, indossando una felpa nera e dei jeans chiari, chiamo Josh e gli chiedo che programmi abbia per la mattinata e soprattutto se ha voglia venire a fare colazione con me.
Dopo aver ricevuto una risposta affermativa mi precipito in cucina a prendere la borsa che ieri avevo lasciato sul divano.
Quando spalanco la porta trovo Rebeca poggiata al bancone intenta a scherzare con Amber, la nostra nuova coinquilina, mentre addenta un cookie ricoperto di gocce di cioccolato.
Amber è arrivata qualche settimana fa, trascinandosi dietro tre valigie colorate e un sorriso a trentadue denti, portando un po' di brio in questo appartamento che io e Rebe contribuiamo a rendere un po' un mortorio.
Amber la paragonerei ad un tornado di vitalità, non fa altro che parlare, ridere e scherzare, ma è anche un'ottima ascoltatrice quando ne hai bisogno, riesce a cavarti le parole di bocca anche quando tu stessa non vorresti dirle ed è per questo che nonostante sia qui da poco abbiamo già legato molto.
«Amber, sto andando a fare colazione con Josh, vuoi venire?» le dico mentre mi stringe in un abbraccio per augurarmi il buongiorno.
L'ho chiesto solo a lei perché Josh ha già avuto modo di conoscerla e sono diventati amici, mentre Rebeca, a parte quella sera in cui siamo uscite insieme non ho ancora avuto modo di trascinarla fuori di qui.
Amber ci pensa un po' su, ha i lineamenti tipici peruviani, perché suo padre viene da lì: le labbra piene, la pelle olivastra, le iridi castane e i capelli così neri che a volte sotto il sole emanano dei riflessi bluastri.
Ma ha anche un sacco di piccoli dettagli che la rendono semplicemente Amber, come il neo sopra al labbro come quello di Marilyn Monroe, le fossette che fanno capolino sulle guance paffute quando sorride o uno degli incisivi leggermente scheggiato, che le donano quell'aria un po' sbarazzina.
«Va bene Agatha, dammi cinque minuti però per togliermi questo fantastico pigiama con le Winx e sostituirlo con qualcosa di più normale per gli standard di questa società» non faccio in tempo a ribattere che è già sparita nella sua stanza.
Rimango sola con Rebe e le chiedo come procede la stesura della tesi, tanto per fare due chiacchiere, intanto ha lasciato perdere i biscotti ed è passata al suo cibo preferito: le sigarette, a volte credo campi solo di quelle.
«Mah diciamo che procede, il problema è che non trovo l'ispirazione, scrivo e poi cancello sistematicamente tutto perché non mi convince» mi rivela mentre va ad aprire la finestra.
«Secondo me Rebe il problema non è l'ispirazione a questo punto» butto lì, avevo questa teoria già da un po', ma non mi era ancora capitata l'occasione di parlargliene.
«Che vuoi dire?» sgrana le iridi ambrate e torna a sedersi sullo sgabello di fronte a me, mentre per l'impazienza inizia a tamburellare un dito sul bancone cosparso di briciole.
«Secondo me hai paura del dopo, quindi stai cercando di rimandarlo il più possibile» mi rendo conto che posso apparire un po' fuori luogo a psicoanalizzarla così, non ho intenzione di giudicarla, vorrei semplicemente aiutarla a capire che succede.
Delle volte un punto di vista esterno può contribuire a far chiarezza, il cervello fa scattare dei meccanismi così automatici che neanche ce ne rendiamo conto, come in questo caso.
Lei sembra perdersi un momento tra i suoi pensieri.
«Forse» mi rivela dopo un po', la sigaretta che stringe tra le dita si sta consumando e lei neanche se ne rende conto, sembra sia diventata improvvisamente triste e mi maledico per la mia lingua lunga e la mia voglia di affrontare sempre i problemi degli altri e mai i miei.
«Scusami, cercavo solo di aiutarti, ma faccio un po' schifo in queste cose» tento di dirle, ma lei mi blocca un polso con le sue dita esili e scuote la testa, facendo oscillare la coda di cavallo.
«Non scusarti, hai ragione Agatha, grazie per avermi aiutato a capirlo. Ho paura della scelta che ho fatto e temo le conseguenze, cerco di rimandarle il più possibile, ma ormai è qualcosa di inevitabile».
Si interrompe un attimo, così le sorrido cercando di infonderle coraggio, lei sembra recepire il messaggio perché riprende: «Dove cazzo va una laureata in filosofia secondo te? A fare l'insegnante se le va bene, oppure, come accade più spesso, a farcire i panini al Mc Donald, con un sorriso falso stampato in faccia e i piedi gonfi».
Ora che si è resa conto di essere la nemica più grande di se stessa sta buttando fuori tutto quello che il suo subconscio le aveva impedito di metabolizzare in questi due anni, sono certa che le faccia bene sfogarsi, ma non voglio che si butti giù così.
«Non dire così, non è vero Rebe. Al Mc Donald ci finisci solo se smetti di rincorrere i tuoi sogni come hai fatto in questi anni, basta piangersi addosso e avere paura, riprendi in mano la tua vita e affronta il futuro a testa alta. Non essere stupida e vai a scrivere questa benedetta tesi, poi ti laurei e finalmente potrai andare avanti».
Una nuova luce le brilla negli occhi dopo aver sentito le mie parole, sembra determinazione, stringe i pugni e mi risponde semplicemente con un "Grazie", poi mi lascia un bacio su una guancia e corre in camera sua, a scrivere quella maledetta tesi spero.
Intanto Amber ha finito di prepararsi e irrompe in cucina travolgendomi con la sua innata allegria, che si riflette anche nella scelta dei vestiti a quanto pare.
Una felpa gialla le illumina il viso, mentre un paio di jeans skinny le fasciano alla perfezione le gambe toniche (fa danza a livello agonistico da diversi anni), ai piedi invece porta le classiche sneakers che tutte o quasi abbiamo nell'armadio.
Si poggia allo stipite della porta e mi chiede se possiamo andare, le faccio cenno di sì e intanto recupero la borsa che era rimasta ancora sul divano, poi salutiamo Rebe e ci rechiamo al Monet, uno dei caffè più in voga tra gli universitari della NYU.
Dopo una decina di minuti di camminata ci ritroviamo di fronte alla famigerata caffetteria che vanta uno dei caffè più buoni della città, o almeno così si legge sull'insegna mezza sbiadita che è appesa davanti alla vetrina.
In realtà credo che la metà delle ragazze, e anche Josh, sia qui solo per il tipo carino dietro al bancone, un certo Miles, come recita la targhetta dorata che gli decora il grembiule rosso.
È uno con il fisico palestrato e i capelli castani tenuti in posa con quintali di gel, decisamente non il mio tipo, il mio migliore amico invece lo fissa estasiato e lo mangia con gli occhi ogni volta che veniamo qui.
Troviamo Josh appollaiato su una sedia al centro del locale, tutto concentrato a cercare Miles, che purtroppo oggi pare essere stato sostituito da una ragazza sulla trentina poco incline a sorridere.
Raggiungiamo il nostro amico e ci sediamo accanto a lui, io e Amber afferriamo i menù sul tavolino e iniziamo a scandagliarli, alla ricerca di una nuova bevanda da provare quest'oggi.
Spesso però vengo distratta dalla bellezza di quel luogo, che sembra uscito da una rivista di arredamento vintage.
Le pareti color pervinca e il parquet che ricopre il pavimento danno quel tocco di familiarità all'ambiente, poi ci sono i tavolini in legno, disposti a scacchiera, consumati dal peso delle troppe tazzine che vi sono state appoggiate nel corso degli anni anni, tutti diversi tra loro, tutti unici e irripetibili.
C'è quello con le gambe quadrate color oro dove siamo seduti noi, oppure quello a forma di cuore che si staglia in un angolo. Anche le sedie sono tutte differenti tra loro, un'accozzaglia male assortita che però vista nel suo insieme sembra creare qualcosa di armonioso.
E infine il pezzo forte: decine di quadri di Monet appesi alle pareti, c'è anche il mio preferito, "Lo stagno fiorito", adoro Monet perché ho sempre sentito un grande legame con i fiori, mia nonna ne aveva la casa piena e da bambina mi ricordo che passavo tantissimo tempo a prendermene cura, così belli ma così fragili, una bellezza effimera e passeggera, nonna mi diceva sempre che l'importante era che avessero buone radici, così sarebbero cresciuti sani e forti.
Solo adesso mi rendo conto del messaggio celato in quelle parole sussurrate sotto la calura d'agosto, con il mestolo per girare il sugo in una mano e il grembiule a righe allacciato male che le penzolava da un lato.
«Siete pronti per ordinare?» la ragazza di prima adesso mi scruta da vicino con quegli occhi freddi, per fortuna le risponde prima Amber e io mi limito a prendere la stessa cosa che ha preso lei, anche se non ho idea di cosa sia.
Il fiume dei ricordi mi ha travolta di nuovo, riportandomi ai dolci anni dell'infanzia, nonna Margherita mi manca molto, era così simile a mamma, ma più saggia e più furba, con lei non riuscivo mai a farla franca.
Josh, che secondo me ha un sensore di sentimenti integrato sotto pelle, mi chiede se sia tutto a posto, decido di godermi questa mattinata in compagnia, così mi scrollo di dosso il passato e mi concentro sul presente, pronunciando un timido "Sí" verso il mio amico.
Ehilà bentornati!
Spero che questo capitolo su Rebe e sull'infanzia di Agatha vi sia piaciuto, se così fosse ricordatevi di lasciami una stellina o un commento se vi va.
Come vi sembra Amber? Il nome vi dice qualcosa? Ho grandi progetti per lei in futuro.
Come sarà per Agatha tornare a casa?
Vi lascio il quadro citato in precedenza qui sotto⬇️
Al prossimo capitolo!
-RNW
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