AGAIN _ 4.3
«Hai freddo?» mi chiede papà raggiungendomi in salotto e poggiando un vassoio con due tazze e una teiera.
«No» sorrido. «Cos'è?» domando poi.
«Arancia e cannella» risponde lui versando l'acqua bollente. Subito si sprigiona un delicato aroma. Sono accoccolata sul divano con un plaid sulle gambe, più per abitudine che per altro. Papà prende una tazza e si siede sulla poltrona davanti a me.
«Forse era meglio il caffè» dico.
«Mi sembrava troppo forte.»
Cala un silenzio imbarazzato.
«Mi sono spaventato» dice a un tratto.
«Mi dispiace» provo a giustificarmi.
«Rachel, che succede?» domanda serio. «Ho capito subito, stamattina, che fingevi.»
«Non facevo finta!» esclamo.
«Sai cosa intendo» mi interrompe. «È un mese che abiti qui, che cosa succede?»
«Non succede niente» ribatto. Non ho nessuna intenzione di discutere con lui di queste cose.
«Sei finita in ospedale, Rachel! Sei svenuta nel corridoio!» alza la voce.
«Te l'ho detto che non stavo bene.»
Lui stringe la tazza tra le mani, ancora non ha avvicinato le labbra. «Perché non mi hai raccontato quello che è accaduto in mensa?» chiede.
Lo fisso sbalordita. «Chi te l'ha detto?» domando. Ma immagino già la risposta.
«Il preside. Mi ha spiegato che hai litigato con Isabelle Howard e che avete avuto uno scontro.»
«Io non ho litigato proprio con nessuno!» sbotto. «Stavo solo andando in classe e lei mi ha fatto lo sgambetto. Poi ha detto alle sue amiche di...» mi interrompo.
«Continua» dice papà.
«Lascia stare» scuoto la testa.
«Non rendere tutto più difficile.»
«Io renderei le cose difficili? Stai scherzando?»
«Io ci sto provando, Rachel, ma non sono tua madre, ok? Non so come siete abituate voi.»
«Stai provando a fare cosa, scusa?»
«Il papà» replica ma forse non ci crede nemmeno lui.
«Ma per favore!» esclamo. «Se a malapena mi rivolgi la parola » continuo. «Esci la mattina prestissimo, prima che io vada a scuola, e rientri la sera per cena, non dici una parola e te ne vai a letto. Pensavi di continuare così?»
«Tutte le volte che tento di intavolare una conversazione con te, tu mi tagli fuori. È come se fossi infastidita dalla mia presenza! È come se non volessi neanche starmi a sentire!»
«Faccio come hai fatto tu per tutto questo tempo con la scusa che eri depresso per abbandono! Tu hai divorziato dalla mamma, ma sembra che lo abbia fatto anche da me. Adesso non sono più la bambina che ti venerava!»
Lui si alza ed esce dalla stanza senza dire una parola. Scuoto la testa amareggiata.
«Non sono a mio agio» lo sento dire. Mi volto e lo vedo sulla soglia del salotto. «Eri una bambina, ora sei una donna. Sono impacciato, imbarazzato. Che devo fare? Non so se vuoi parlare, o se non vuoi. Non so se hai bisogno del tuo spazio» dice camminando avanti e indietro. «Ti domando sempre come va a scuola, tu mi rispondi "bene" e non aggiungi altro. Io provo a crederci. Mi ripeto: ormai è grande, starà pensando al college. Poi ti svegli con il mal di testa e svieni a scuola. E il preside mi manda a chiamare in fretta e furia dicendomi che è successo un guaio in mensa con un'altra studentessa e che dovrai farti assistere dalla psicologa! Se tu non hai voglia di parlare con me, come posso obbligarti?»
«Non ci sei stato! Sono quattro anni che mamma ti ha lasciato e quante telefonate ci siamo fatti? Due o tre all'anno! Quante volte sei venuto a trovarmi? Nessuna!»
«Mi dispiace.»
«Non è vero!» Scatto in piedi. «Se davvero ti fosse dispiaciuto avresti fatto qualcosa. Invece non hai fatto niente. Se davvero ti dispiace, non ti dispiace abbastanza.»
Non ho mai litigato con papà. Non ne ho mai avuto occasione. Ma poi, stiamo davvero litigando? Forse è l'unico modo che abbiamo di parlare, di scambiarci opinioni, di dirci come la pensiamo. Siamo uguali, me ne rendo conto. Siamo entrambi chiusi e introversi e anche adesso vorrei dire il triplo delle cose che mi escono dalla bocca, ma i miei pensieri corrono più veloci delle parole.
«Vado in camera.»
«Stiamo parlando» ribatte lui.
«No, tu mi stai accusando.»
«Rachel, per favore.» Il suo tono cambia, sembra frustrato.
Mi volto sul primo gradino della scala e incrocio le braccia al petto. «Se anche ti raccontassi quello che sta succedendo, tu incolperesti me. Troveresti qualche stupida giustificazione per minimizzare la questione e farmi sentire una stupida!»
«Questo non è vero» dice lui ferito.
«Tu non sei la mamma, ok? Lei è diversa!» sbotto.
«Ci proverò. Abbi pazienza.»
Mi mordo un labbro. Ho tante domande in testa, tanti perché che non avranno mai risposta visto che non avrò mai il coraggio di chiedere. Annuisco e riprendo a salire. In camera afferro i ferri e comincio a lavorare furiosamente: è la mia valvola di sfogo. Dopo circa un'ora mi accorgo di aver sbollito la rabbia e quando sento l'orologio di sotto suonare, decido di smettere,è ora di cena.
Dal rumore che viene dalla cucina, immagino che papà stia armeggiando ai fornelli, magari vuole una mano. «Spero sia ancora la tua preferita» mi dice non appena mi vede. In mano ha una due tazze. «Cioccolata calda. Ma ci ho messo i marshmellow rosa e bianchi con le pepite di zucchero.»
Resto spiazzata. Quello era un nostro rito nelle brutte giornate, quando prendevo un brutto voto a scuola o mamma mi metteva in punizione. Mi salgono le lacrime agli occhi appena capisco che è davvero rimasto indietro.
«Grazie» dico prendendo una tazza. Mi siedo al tavolo e lo ascolto canticchiare. È tornato di buon umore.
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