AGAIN _ 12.2
Il weekend successivo, quando apro gli occhi, mi sento confusa.
Ho fatto un sogno strano: mi ritrovavo all'improvviso sotto una grandinata e i chicchi mi colpivano la testa con forza. Fisso un punto sul soffitto, le coperte tirate fino al mento. Poi un rumore mi costringe a girare la testa. Ma sta grandinando sul serio? Scatto a sedere, le orecchie tese in ascolto. Di nuovo quel suono. Mi alzo e vado alla finestra. Balzo all'indietro appena vedo qualcosa venirmi addosso e colpire il vetro con un tonfo secco. Lancio un'occhiata sul balconcino e noto almeno una decina di sassolini grigi. Apro l'anta e metto un piede fuori, stringendomi nel pigiama per non congelare. È ancora buio, eccetto per la luce dei lampioni che proviene dalla strada.
«Era ora, accidenti!» sento bisbigliare dal giardino.
Connor è dietro uno degli alberi, con una manciata di pietruzze in mano.
«Che diavolo ci fai qui?» domando stupita trattenendo una risata.
«Stavo collaudando la resistenza dei vetri» risponde lui.
Con un cenno del capo gli indico la finestra della camera di mio padre e mi porto un dito davanti alla bocca intimandogli il silenzio.
Connor allora estrae il cellulare e mi fa capire di prendere il mio. Torno dentro e mi arriva subito un messaggino.
Vestiti, io ti aspetto in macchina.
Dove andiamo?
Sorpresa. Abiti comodi.
Per curiosità guardo l'ora sul display. Le sei? Che cosa ci fa Connor Brown nascosto nel mio giardino alle sei del mattino di sabato? Punto dritta all'armadio. Abiti comodi, dice. Può significare tutto e niente. Perciò tiro fuori un paio di leggings e un maglione azzurro cielo a maglia grossa lungo fino ai fianchi in modo che nasconda un po' le curve che non ho. Poi mi fiondo in bagno: mi lavo in fretta e furia, passo un velo di mascara sugli occhi, poi spazzolo vigorosamente i capelli che diventano elettrostatici e salgono intorno alla mia testa come un'aureola. Cercando di ignorare questo piccolo inconveniente, mi vesto, metto gli Ugg, prendo la borsa, il giaccone color cachi, sciarpa, berretto di lana e facendo meno rumore possibile scendo le scale e mi fiondo fuori di casa. Corro verso la macchina e mi abbandono sul sedile del passeggero.
«Buongiorno!» mi saluta Connor regalandomi un sorriso smagliante.
«Dimmi come fai a essere così perfetto a quest'ora?» rispondo sbadigliando.
Il suo giaccone è buttato sul sedile posteriore e lui indossa una felpa grigia, le maniche tirate fino al gomito, e un paio di jeans neri infilati dentro gli stivaletti scamosciati. Rimango per un istante a fissare il tatuaggio che si dirama sul suo braccio e che non avevo mai visto così da vicino. Al polso ha un braccialetto d'oro e uno di cuoio spesso, infine un anello in metallo al pollice.
«Ti ho buttata giù dal letto?» domanda innocente sapendo benissimo la risposta.
«No, figurati, di solito mi alzo alle quattro.»
«Accidenti, allora potevo passare prima!» Ride e ingrana la marcia.
«Si può sapere dove mi porti?»
«Prima di tutto pensavo di andare a fare colazione. Che ne dici?» chiede lanciandomi un'occhiata.
«Ho proprio bisogno di un caffè.»
Appena entriamo nella caffetteria vengo investita da un piacevole tepore e dal profumo di caffè e zucchero. Ci accomodiamo a un tavolo vicino a una delle vetrate, e leggiamo il menù. Connor ordina un caffè e un muffin ai mirtilli mentre io opto per una ciambella alla crema.
«Non si può iniziare una giornata senza un buon caffè» affermo stringendo le mani intorno alla ceramica.
«A una splendida giornata» brinda lui alzando la tazza.
Adoro questa nuova versione di Connor: è spensierato, allegro, divertente, i suoi occhi scuri, di solito così penetranti e indagatori, adesso brillano di divertimento e piccole rughe compaiono ai loro lati quando sorride. I capelli ricci gli cadono continuamente davanti al viso ma lui sembra non accorgersene. Addento a mia ciambella e subito mi si riempie la bocca di crema: che delizia.
«Tuo padre si è accorto di qualcosa?»
«No, altrimenti ora non sarei qui. Hai rischiato grosso.»
«Non ho paura di tuo padre.»
«Dovresti. Non sembri stargli molto simpatico» ribatto sull'onda del buon umore.
«Scherzi? Di solito i genitori mi amano» risponde lui fingendosi offeso.
«Be' Christopher Anderson sarà la tua eccezione» rido.
Ci guardiamo negli occhi per qualche secondo. All'improvviso mi tremano le mani e il cuore accelera i battiti.
«Sei sporca» dice lui indicando il mio viso.
Mi passo la lingua sulle labbra, mentre Connor continua a fissarmi. Poi allunga una mano e mi sfiora l'angolo della bocca con il pollice. Credo di svenire! Abbozzo un sorriso imbarazzato, lui invece rimane impassibile. Sembra sempre così padrone della situazione. A volte mi destabilizza.
«Quando ti sei fatto il tatuaggio?» domando per attenuare la tensione.
«Quest'estate.»
«E rappresenta qualcosa?»
«Be', qua c'è un dragone stilizzato» replica portando una mano all'altezza della spalla, «che si trasforma nel ramo di un albero sulla schiena. Il resto è abbellimento. Quando mi viene in mente qualche idea vado a farla aggiungere.»
«E non hai paura che un giorno non ti piaccia più?»
«Fosse per me mi riempirei tutto il corpo.»
«Sul serio?» chiedo. «Diventeresti brutto.»
«Anderson...» commenta scuotendo la testa.
Probabilmente ai suoi occhi sono solo una timida ragazzina fuori dal mondo. Una di quelle che non proverà mai niente nella vita perché troppo razionale e posata. Come facciamo a stare insieme? Quanto impiegherà prima di stancarsi di me? Ecco che cominciano a tormentarmi i cattivi pensieri.
«Vado a pagare» annuncia alzandosi.
Quando raggiungo l'uscita lo Connor con un grande sacchetto di carta in mano.
«Il viaggio è lungo, potrebbe venirci fame» dice sollevandolo.
«Viaggio lungo?» ripeto. «Dimmi dove andiamo» gli chiedo battendogli un pugno leggero sulla spalla imbottita dal giaccone.
«No.»
«Un indizio» tento allora.
Saliamo in macchina e Connor accende il motore.
«Vediamo...» Si picchietta un dito sul mento con aria pensierosa. «Again» dice poi con un sorriso che mi toglie il respiro.
Guardo l'imponente facciata grigia con le quattro colonne e l'ingresso ad arco.
C'è un gran viavai di gente, mentre io sono letteralmente pietrificata. Il mio stomaco è in subbuglio e la gola secca. «Perché mi hai portata qui?» balbetto.
«Non ci arrivi?» chiede Connor al mio fianco.
«Proprio no!» sbotto. Mi volto verso di lui. «Se l'avessi saputo non ci sarei mai venuta!»
«Per questo non ti ho detto niente» continua lui tranquillo.
«Cosa? Vuoi dire che hai organizzato questo viaggio solo per farmi dispetto?» Inspiro a fondo cercando di mantenere la calma.
«Dài, andiamo a visitare museo.»
«Io lì dentro non ci entro» ribatto.
«Che ti ha fatto di male?»
«Mi prendi in giro?»
«No, spiegami cos'ha questo povero museo di così terrificante?»
«Non è il museo, il problema» comincio a dire, ma mi fermo subito.
«E cosa?»
Lo guardo di nuovo. Lui sta fissando l'entrata, eppure sono sicura che lo stia facendo apposta. Lo sa benissimo qual è il problema, anche senza farmelo dire ad alta voce. Oppure è proprio quello che vuole. Vuole sentirselo dire?
«Sei tu il problema» ammetto. «Quello che è successo là dentro.»
I ricordi irrompono prepotenti alla mia memoria. L'ultima volta che ho varcato la soglia del museo di Storia Naturale ero una ragazzina spensierata ed entusiasta per quella gita tanto attesa. Guardavo ogni pezzo esposto con meraviglia e ascoltavo la guida con interesse. Poi mi ero allontanata un momento per raggiungere la sala della Preistoria: papà aveva la passione dei fossili e io volevo scattare più foto possibili per mostrargliele quella sera. All'improvviso Connor era spuntato alle mie spalle. Avevo sorriso, distratta, senza dargli importanza.
«Ti piace?» mi aveva domandato, aveva la voce ancora un po' infantile e il fisico asciutto.
«Da morire!»
«A me piaci tu, invece» era stato il suo commento.
L'avevo guardato sgranando gli occhi, confusa. «Tu piaci a Isabelle» avevo replicato.
«Lo so. Ma a me piaci tu» aveva insistito. Poi aveva fatto un passo verso di me, mi aveva poggiato una mano sulla spalla e mi aveva guardato negli occhi. «Tu non sei come le altre.» Un attimo dopo mi aveva baciata.
Non avevo fatto nemmeno in tempo a chiudere gli occhi che Connor si era già staccato da me. Eravamo circondati dai nostri compagni che ridacchiavano e si davano le gomitate. Isabelle era bianca come un cadavere, Logan sembrava un cane abbandonato.
«Coraggio andiamo» dice Connor, riportandomi al presente.
«Non verrò la dentro con te.»
«Anderson, ti ho promesso una bella giornata ed è quella che avrai.»
«Allora siamo ancora in tempo per andarcene.»
«No, dobbiamo entrare.» Mi tende la mano, ma io indietreggio.
«Era questo che intendevi? Again? Significa che ti prenderai ancora gioco di me?»
«No.» Il suo sguardo è quasi mortificato. «Intendevo che siamo qui, ancora, e che possiamo ricominciare davvero.»
A quelle parole qualcosa dentro di me si scioglie.
«Fidati» sussurra.
Guardo la sua mano. Fiducia. A volte può essere una cosa difficilissima. Ma ci voglio provare.
«D'accordo» dico afferrando la sua mano.
Varchiamo la soglia e ci dirigiamo nella sezione della Preistoria. Davanti a noi si stagliano le mastodontiche ossa degli animali vissuti milioni di anni fa. È come una magia: da un momento all'altro dimentico ogni paura, ogni ricordo, ogni remora nei confronti di Connor e mi lascio completamente assorbire da ciò che mi circonda. Ho l'impressione di essere immersa in un mondo incantato. Mi sento di nuovo bambina, rivivo la parte migliore della mia infanzia, quella della fantasia e dell'incanto. A un certo punto mi trovo di fronte all'entrata della sala dei mammiferi estinti e un freddo gelido mi attraversa la schiena quando vedo la statua del mammut. La raggiungo, ci giro intorno un paio di volte prima di trovarmi davanti Connor.
Abbozza un sorriso e io ricambio.
«Ti piace?» mi chiede.
Sgrano gli occhi. È impossibile che anche lui ricordi tutti i particolari!
«Da morire» balbetto mentre gli occhi cominciano a pizzicare.
Faccio davvero fatica a mantenere il controllo.
«A me piaci tu.» Mi afferra le mani. Io sono paralizzata
dall'emozione. «Non sono bravo con queste cose» dice serrando la mascella. «Speravo che sostituire un brutto ricordo con uno più bello potesse essere un bel gesto. Spero di non aver combinato un casino» e sorride timido. Il mio cuore scoppia di gioia per quello che ha fatto. Queste sono le scuse migliori che potesse farmi, che mettono davvero la parola fine a ciò che è successo. Gli stringo le mani e, quando lui alza lo sguardo e incrocia i miei occhi, avanzo verso di lui e premo le mie labbra sulle sue. E questa volta sono io che lo bacio, sono io che lo voglio.
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