2. LEI
Sarah
Giocherello con la forchetta nel piatto, spostando un mirtillo da un lato all'altro mentre cerco di capire se riuscirò a mandare giù un altro boccone oppure no.
I pancake cucinati da Hannah sono soffici e dolci ma quasi intatti. Sarebbe un peccato lasciarli.
Odio buttare via il cibo, ma per quanto mi senta a disagio di fronte agli sprechi, la nausea che si arrampica lungo l'esofago mi convince a non insistere.
Lancio un'occhiata alla piccola tv appesa tra i pensili della cucina come un quadretto e seguo con lo sguardo la nuvoletta animata che attraversa Manhattan sulla mappa delle previsioni del tempo.
Pioverà di nuovo nel pomeriggio e la cosa peggiora il mio umore all'istante.
La puzza di umidità che appesta New York durante gli acquazzoni è insopportabile. Mi toccherà restare chiusa in casa tutto il giorno e lo detesto. Mi sembra di essere in una prigione, a volte, sia dentro che fuori dal mio corpo.
«Se non hai fame, non devi finirli per forza, Sarah.» Jonathan tenta di consolarmi quando nota che fisso i pancake avanzati e io spero solo non si accorga anche dell'altro mio disagio. Lui è sempre pacato e gentile con me. Cerca di non soffocarmi di attenzioni come invece fa sua moglie, e deve essere difficile, lo capisco, ma gliene sono grata.
Anche se so che lo fanno a fin di bene, non riuscirei a gestire due genitori apprensivi.
«È uno spreco.» Poso rassegnata la forchetta sul tovagliolo.
«Sono solo pancake. Non è la fine del mondo.»
«Ma lei ci tiene tanto e mi dispiace lasciarli ogni giorno» piagnucolo avvilita con il jingle della pubblicità dei Cheerios in sottofondo.
Se Hannah mi lasciasse preparare almeno la mia colazione, la mattina, forse riuscirei a gestire la nausea con porzioni più accettabili. E poi vorrei provare anche qualcosa di diverso. I pancake mi piacciono, ma come faccio a capire i miei gusti, a conoscermi, se nessuno mi lascia sperimentare mai niente?
Guardo ancora la pubblicità in tv.
Chissà se i cereali mi piacciono...
Trattengo uno sbuffo per non sembrare ingrata o insofferente e non mi accorgo quasi del braccio di Jonathan che si allunga verso il mio lato del tavolo.
Trascina il piatto verso di sé e affonda la forchetta al centro di un pancake, liberandomi dall'impaccio.
«Grazie» sorrido riconoscente mentre papà mastica silenzioso, con gli occhi incollati sulle pagine di Le notti di Salem e, per la prima volta, forse, mi sento davvero capita. Mi sento meglio.
«Non posso Richard, te l'ho detto!» Hannah entra in cucina e si ferma alle mie spalle. Mi bacia frettolosa la testa e cammina verso una credenza per recuperare una tazza. «Devo restare qui per il momento.» Sfiora con due dita il bollitore lasciato sul piano cottura e versa l'acqua fumante fino all'orlo. «Possiamo fare tutto in streaming o registrare dei video, non mi interessa. Trova tu il modo.» Immerge la bustina di tè e l'annega con il cucchiaino. «Aspetta un attimo» dice poi puntando gli occhi su me e papà. «Jon, quelli erano per Sarah, perché li stai mangiando tu?»
Oh, cavolo. Guardo i pancake. Se n'è accorta.
«Lei preferiva le uova stamattina e abbiamo fatto cambio» risponde lui senza battere ciglio e continua a ingurgitare la mia colazione come se non fosse già sazio di uova strapazzate e pancetta.
Grazie, papà.
«Davvero?» Il volto di mia madre si illumina tanto che decido di sorridere anche io e fingere.
Bevo un sorso di Earl Grey con la speranza di essere convincente quanto mio padre.
«Allora forse sono gli zuccheri il problema, forse...» si interrompe, portando lo smartphone all'orecchio. «Sto parlando con mia figlia, Richard!» risponde stizzita e lo chignon sfilacciato ondeggia un paio di volte sulla testa. «Sì, ho capito, aspetta che controlli le e-mail.» Addenta un biscotto ai cereali e si avvia indaffarata verso lo studio, lasciando tutto il resto in sospeso.
«Perché è così agitata?» La seguo con lo sguardo e stringo tra le mani la tazza di tè ancora piena a metà. Il calore sulle dita è piacevole e il brusio del televisore tiene a bada il ronzio causato dall'emicrania.
Ho dormito malissimo stanotte, ma non è una novità.
«Le hanno proposto di tenere dei seminari d'arte contemporanea e Richard insiste perché accetti» spiega mio padre.
«E perché non dovrebbe accettare? Non è una bella opportunità?»
«Ma dovrebbe tornare in Inghilterra per almeno sei mesi.» Pulisce gli angoli della bocca col tovagliolo. Posa la forchetta nel piatto e pettina all'indietro le punte ondulate dei capelli castani.
Sembra leggermente a disagio: perché?
«E allora?»
«Il volo sarebbe troppo lungo, Sarah. Non è il caso.»
«Lungo? Sono solo sette ore.» Faccio spallucce stranita e mi sento anche un po' emozionata dalla notizia.
Se mia madre accettasse quel lavoro, potrei andare anche io con loro. In Inghilterra i miei genitori forse sarebbero impegnati a occuparsi anche delle loro cose e io potrei respirare e vedere un posto nuovo, diverso, che non mi ricordi solo l'incidente, l'ospedale e l'inadeguatezza.
Sarebbe bello.
Perché non possiamo farlo?
«Da quando ha paura degli aerei?» controllo a stento il tono eccitato della voce e ripenso a tutti i viaggi di cui Hannah e Jonathan mi hanno raccontato entusiasti, le foto che mi hanno mostrato e la luce di soddisfazione nei loro occhi mentre mi parlavano di quelle esperienze meravigliose che li hanno resi eccezionali.
Mi piacerebbe farne parte, per una volta.
«Per te non è prudente viaggiare adesso e tua madre non vuole lasciarti, Sarah.»
«Oh...» Mordo le labbra a occhi bassi, e l'entusiasmo scema come una debole fiamma sommersa dall'acqua. «Quindi il problema sono di nuovo io?»
Ancora io.
Sempre io.
«Il problema siamo noi.» Jonathan mi guarda con gli occhi color nocciola carichi di comprensione, ma la gentilezza del suo sguardo non mi fa alcun effetto.
Si sporge in avanti per sfiorarmi la mano ancora stretta attorno alla tazza di tè ma io non la sento. L'emozione provata qualche secondo fa è scomparsa sotto il peso della colpa e la frustrazione.
Ancora io.
Sempre io.
«Ti abbiamo lasciata sola troppe volte quando eri piccola, Sarah. Siamo stati egoisti troppe volte.» Cerca di spiegarmi, papà. «È una nostra scelta. Non sentirti in colpa» capisce, ma ormai è troppo tardi.
Ritiro la mano dal palmo tiepido di mio padre e pettino indietro i capelli che ricadono sulla linea delle spalle, affranta da questa ennesima colpa che mi ammacca la schiena.
Lo stomaco borbotta e la nausea, tenuta a bada finora, risale fino alla bocca.
«Stai bene, tesoro?»
Non rispondo. Non posso.
Ancora io.
Sempre io.
Scosto la sedia sul parquet e scatto in piedi.
«Devi vomitare?» Jonathan mi guarda allarmato, quando copro le labbra con le mani.
Annuisco correndo in bagno e spero solo di rigettare ogni sentimento e scaricarlo giù nelle fogne, insieme a ciò che resta della mia bella colazione.
Di nuovo.
*
«Sei meno loquace del solito, oggi» dice il Dottor Park, dopo cinque lunghissimi minuti di silenzio, ma io non rispondo e continuo a nascondermi dietro uno dei cuscini quadrati che abbelliscono il divano in velluto. «Non c'è qualcosa di cui vuoi parlare?»
«No.» Lancio una rapida occhiata all'orologio sul tavolino qui vicino, accanto a una grande coppa trasparente piena di caramelle alla frutta.
Ho la nausea solo a guardarle, ma provo a pensare qualcos'altro.
Ancora venti minuti.
«So che hai avuto un altro episodio, qualche giorno fa.» Il Dottor Park cerca di avviare il discorso, incrociando le dita al centro del quaderno aperto sulle gambe.
«Sì, ma a quanto pare è tutto normale, quindi perché parlarne?»
Non voglio parlarne.
«Cosa pensi l'abbia scatenato?»
«Non lo so.»
Non lo so!
Sfrego le mani sul velluto verde del divano e incrocio le caviglie strette dai lacci bianchi delle Converse. «Stavo scrivendo quando è successo.» Mi costringo quasi a confessarlo.
«Il diario che ti ho consigliato?»
«Sì.» Il parquet è scuro e lucidissimo. Conto le assi di legno che quantificano la distanza tra me e lo Psicoterapeuta, e fisso i suoi mocassini marroni.
Non mi piacciono i mocassini e non mi piace scrivere quel maledetto diario.
«Posso smettere?»
«Di scrivere il diario?»
Annuisco abbracciando di nuovo il cuscino contro lo stomaco.
«Non ti aiuta nemmeno un po'?»
«Mi avvilisce.»
«Perché?»
«Non è ovvio?» rispondo seccata e tiro indietro i capelli con le mani. «Mi ricorda che non sono chi dovrei essere, ma questo già lo so. Non mi serve un promemoria.»
Proprio non mi serve.
«Scrivere non è un compito, Sarah, ma un aiuto. Se non vuoi, non farlo. Puoi usare il diario come preferisci. Puoi anche disegnarci sopra.»
«Non mi va» sospiro triste. Avverto un piccolo spasmo tra pollice e medio, e sfrego le dita tra loro come se cercassi la presenza di qualcosa che non è al suo posto. «Mi manca, credo.»
«Disegnare?»
«Sì.» Stringo le braccia attorno al raso scivoloso. «Mi manca, ma ho paura che se lo facessi, tutti capirebbero ancora di più che non sono lei.»
«Lei? Intendi te stessa, Sarah?»
«Come faccio a saperlo?» sbotto avvilita.
Basta. Non ce la faccio più.
«Se non ricordo chi ero, come faccio a sapere se sono lei o no?» Butto il cuscino di lato e mi incurvo su me stessa. Le costole si scontrano quasi tra loro quando appoggio i gomiti alle ginocchia fasciate dai jeans acquistati ieri: ormai i miei vecchi vestiti mi stanno quasi tutti troppo larghi. «È passato un mese ormai, perché non ricordo ancora niente?»
Perché?!
«La memoria tornerà quando sarai pronta.»
«Ma lo sono! Sono pronta!» grido. «Ho fatto tutto quello che mi hanno detto. Mi hanno bucato, tagliuzzato, analizzato al microscopio come un virus, ma non è cambiato niente! Io voglio ricordare tutto e che questa storia finisca! Voglio essere lasciata in pace.»
«A chi ti riferisci?»
«A tutti!» confesso avvilita, affranta da questa colpa impronunciabile che mi accompagna giorno e notte, e che mi impedisce di riposare, mangiare, vivere. «Voglio solo che torni tutto normale e, dormire... Non riesco a chiudere occhio.»
Sono così stanca.
«Per questo posso aiutarti, posso...»
«Non voglio altre medicine» scatto dritta, «voglio i miei ricordi. Lei è qui per questo, no? È per questo che vengo tutte le settimane. Vuole aiutarmi? Allora mi ridia i miei ricordi e la faccia tornare!»
Il Dottor Park sospira, incastrando il quaderno nero tra la poltrona e la gamba. Sfila i piccoli occhiali dal viso spigoloso e recupera un fazzoletto di stoffa dalla tasca dei pantaloni. «Io penso di poterti aiutare, Sarah. Se vuoi. Se pensi di essere pronta davvero» dice cauto, pulendo le lenti. «Ma devi esserne sicura perché non sarà facile.»
Per me niente lo è. «Cosa devo fare?»
«Hai mai sentito parlare d'ipnosi?»
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