1. COLORI, ODORI, SENSAZIONI
Sarah
"La prima cosa che ricordo della mia vita, dopo il risveglio, è un odore dolce e aspro allo stesso tempo: disinfettante. Lo odio. Mi ricorda sempre che c'è qualcosa che non va in me, anche se non credo di potermi definire davvero malata.
Sono passati due mesi dall'incidente, ma la situazione non è ancora del tutto chiara.
Sto fisicamente bene - più o meno - ma torno di continuo in ospedale dopo delle emicranie lancinanti che mi tolgono perfino il respiro.
Sto mentalmente male - senza memoria - ma nessuno riesce a capire il perché e l'unica cosa che sono riusciti a consigliarmi, finora, è scrivere... scrivere sciocchezze che servono solo a ricordarmi che non sono chi dovrei essere.
Non sono lei.
Non sono me.
Non sono e basta."
«Sarah» sento il mio nome mentre sottolineo con forza questa frase, bucando quasi la carta con la punta della penna. «Che fai?»
«Niente.» Chiudo la copertina rigida del diario e rivolgo lo sguardo a Hannah... no. Mia madre. Lei è mia madre, mi ripeto mentre cammina verso di me, avvolta in un cardigan verde che risalta la lucentezza dei suoi capelli biondi e lunghissimi. «Hai parlato con il medico? Posso andarmene?»
Dimmi di sì, ti prego.
«Sì.»
Quasi sospiro di sollievo.
Appoggia la Michael Kors di pelle marrone sulla poltrona accanto al letto e si china su di me per accarezzarmi i capelli. La lascio fare anche se queste attenzioni incessanti mi mettono a disagio. Mi tratta spesso come se avessi dieci anni e la cosa mi irrita un po', ma sopporto. Devo sopportare. Forse lo faceva anche prima e io non posso lamentarmi.
«Sembra tutto normale, quindi puoi tornare a casa, domani» dice col sorriso.
«Normale?» ripeto stizzita e sono tentata di tirare indietro la testa e negarmi alla sua dimostrazione d'affetto. «Non ricordo ancora nulla, ma è tutto normale...»
«Sai cosa intendo» sospira comprensiva. «È una bella notizia.»
«Sì, certo. Lo so. Scusa.» Sprofondo nel materasso e nascondo il diario sotto le lenzuola.
«Hai scritto qualcosa d'interessante?»
«E chi lo sa» sbadiglio stanca. «Magari diventerà un best-seller.»
«Tuo padre ne sarebbe orgoglioso.» Mi tocca ancora i capelli mentre io chiudo gli occhi stordita e mi sento d'improvviso troppo stanca per ribattere.
Sono esausta, come al solito.
Le medicine stanno facendo effetto.
«Riposati ora.»
«Non faccio che riposarmi. Perché sono sempre stanca?» Le palpebre sono pesantissime.
«Non importa. Puoi dormire tutto il tempo che vuoi.» Mi bacia la fronte. «Veglierò io su di te, sta' tranquilla.»
Sono sicura che lo farà, o che almeno ci proverà fino all'ultimo respiro.
Anche se io non la ricordo, nascosta dentro di me c'è sua figlia. La bambina che adora, che le assomiglia in tutto - almeno così mi hanno detto - e che io le ho portato via e non riesco a far tornare, nonostante gli sforzi.
Dentro di me c'è la vera Sarah, quella che probabilmente non si sentirebbe come mi sento io, ora, mentre sua madre le accarezza la testa e le dimostra un amore che a me toglie il fiato.
Non ho aria.
Non respiro e vorrei solo urlare, fuggire dal dovere di essere qui in attesa del suo ritorno: la ragazza perfetta che aspettano tutti.
Ma se non lo facesse? Se restassi per sempre solo io? Intrappolata in questa vita che non mi appartiene...
Avverto le dita di Hannah intrecciarsi ai miei capelli e trattengo a stento le lacrime. L'angoscia mi affranca le ossa e la pelle stiracchiata, trascinandomi verso luoghi lontani di cui vorrei tanto riconoscere qualcosa: una forma, un colore, ma di cui ricordo solo e sempre l'odore.
Disinfettante.
Vita.
O forse solo morte.
*
Quando apro gli occhi, il sole è calato e sui vetri che imbelliscono gli edifici di cemento di New York, la luce riflette pallida e quasi piacevole.
Giro la testa sul cuscino, sentendo un fastidioso formicolio lungo la spina dorsale, le natiche e i piedi gelidi, nonostante i calzettoni di flanella.
Chissà per quanto sono stata immobile in questa posizione. Ferma e statica come un cadavere.
Sbuffo tra me, attenta a non esternare alcuna emozione e rivolgo lo sguardo alla poltrona beige, qui accanto, dove Hannah ha riposato ieri notte, ma su cui non la vedo adesso. Non lei.
Sorrido mentre lui scrive con gli occhi azzurri incollati allo schermo dell'iPhone e mi sento subito serena.
Ha una gamba piegata sul ginocchio, le Beats nere sulle orecchie e l'espressione rilassata, come sempre quando siamo insieme.
Chissà se anche a lui piace la mia presenza, proprio come a me piace la sua.
È per questo che viene a trovarmi quando torno in ospedale? È per questo che era qui anche quando mi sono svegliata dal coma?
Lo fisso di nascosto e mi torna in mente la prima volta che l'ho visto. I suoi occhi sono stati i primi che ho incrociato quel giorno, mentre il corpo tentava di riprendersi da settimane di immobilità.
Ricordo di aver mosso le braccia sulle lenzuola tiepide e il braccialetto di gomma intorno al polso mi ha pizzicato la pelle.
Ricordo la sensazione di elettricità sull'indice e quel cappuccio bianco stretto al polpastrello come una molletta.
Ho tentato di parlare, quella volta, ma lo stato di confusione in cui mi sono svegliata, non me lo ha permesso. Ho solo volto lo sguardo all'interno della stanza bianca, asettica, satura di disinfettante e l'ho visto, seduto proprio accanto a me, con la mano stretta attorno al mio polso e gli occhi azzurri nei miei: esterrefatto, sorpreso, sollevato.
Sembrava così felice di vedermi, quel giorno, almeno finché io non l'ho guardato e non ho saputo riconoscerlo.
"E tu chi sei?"
L'espressione delusa che gli ha oscurato il viso quando gliel'ho chiesto, mi spezza ancora il cuore ogni volta che ci penso.
Josh: è questo il suo nome e non voglio dimenticarlo mai più.
Piego le gambe, sfregando i piedi sul materasso in cerca di un calore che scivola sempre via dal mio corpo, e basta questo movimento accennato a richiamare la sua attenzione.
«Ehi, ciao.» Abbassa le Beats sul collo. Infila il telefono in tasca e solleva le maniche della maglia nera sotto i gomiti. Ha sempre caldo. Beato lui. «Come stai?»
«Bene» rispondo in automatico e mi tiro a sedere sul materasso per risvegliare il fondoschiena appiattito. Che fastidio.
«Vuoi un altro cuscino?»
«No» mordo l'angolo inferiore della bocca e provo a sistemare i capelli, sperando di non assomigliare a uno spaventapasseri.
Chissà che aspetto ho. Ogni volta che ci vediamo ho sempre qualcosa che non va: occhiaie, vestiti fuori misura, camici d'ospedale...
Che strazio. Vorrei che mi considerasse carina almeno una volta, anche se non so precisamente perché.
Deglutisco impacciata per questo pensiero e tento ancora di trovare una posizione comoda per il mio corpo acciaccato. «Questo letto è troppo duro. Lo detesto!»
«Non dovrai sopportarlo ancora molto. Tua madre mi ha detto che ti fanno uscire, domani.»
«Domani, certo...» sbuffo, «sempre che non mi venga un'altra crisi.» Piego le ginocchia verso l'alto e l'idea di dover essere ostaggio dell'emicrania, mi dà sui nervi. Sono settimane che va avanti questa storia, ma nonostante gli esami, non riescono a capirne il motivo.
"Stress", ripetono tutti. Ma a me sembra solo una str...
Mi agito, censurando i miei stessi pensieri e sento l'ossigeno ruvido nei polmoni, mentre il cuore bippa veloce sul monitor accanto a me.
Mi giro a fissare la stupida macchina che informa sempre tutti di ogni mio minimo sbalzo d'umore e butto la testa all'indietro, sul cuscino. «Ho fame» dico per cambiare argomento un'altra volta e massaggio lo stomaco. «Ho fame, ma non ho voglia di mangiare. Ha senso secondo te?»
«Le medicine ti danno ancora fastidio?»
«Non riescono a indovinare il dosaggio.» Provo a ricordare l'ultima volta che ho mangiato senza vomitare quasi tutto, dopo.
Ma poi, chissà se è davvero colpa delle medicine o è solo il mio corpo che non funziona più. Magari cerca di rigettarmi come un organo trapiantato a forza in un organismo che non lo vuole.
Sono questo? Una specie di infezione? Un parassita? Se fosse così, avrei almeno una risposta tra le mille domande. Sarebbe consolante.
«Ally che ti ha detto?»
«Ally?» Cruccio le sopracciglia. «Intendi la Dottoressa Scott?»
Lui annuisce.
«Ma non è più il mio medico.»
«E da quando?» Raddrizza la schiena sorpreso.
«Da qualche giorno. Forse una settimana, o due, non sono sicura.»
Non ho più percezione del tempo che passa.
Mi giro sul fianco, appoggiando la guancia al dorso della mano spigolosa e lo vedo accigliarsi, pensando a chissà cosa. Perché sembra turbato? La Dottoressa Scott è un chirurgo. È normale che non sia più lei a occuparsi di me, no?
«Josh, che ci fai qui? Non serviva che venissi anche stavolta.» Provo a distrarlo anche se non so spiegarmi il motivo.
«Volevo farlo.»
«Non ti sei stancato di farmi da infermiere?» sorrido.
«No, affatto» dice subito a metà tra frustrazione e divertimento.
«Non hai di meglio da fare?» sbadiglio senza volere e le forme, nella stanza, ricominciano a sfocarsi. Maledizione.
«Vuoi che me ne vada, per caso?»
«No, affatto. Mi piace averti intorno.» Chiudo gli occhi. «Ma non voglio che ti senti obbligato a stare sempre con me. Siamo amici, ma non puoi starmi dietro ventiquattro ore su ventiquattro. Non è giusto.»
«E chi lo dice?»
«Io... io lo dico» sbadiglio ancora. «Dovresti uscire a divertirti, non stare in ospedale con la tua amica sfigata.»
«Forse sono anche io uno sfigato, non ci hai pensato?»
«Se decidi di startene qui senza motivo, lo sei di sicuro» sorrido assonnata. «Sei davvero strano.» Mi rannicchio su me stessa, cercando conforto nelle spalle e, anche se gli ho detto che non dovrebbe essere qui con me, in realtà sono felice che lui ci sia. Sono sempre felice di averlo accanto.
«Vuoi dormire ancora un po'?»
«Odio dormire» confesso a fior di labbra, «mi sembra di non fare altro da quando mi sono svegliata.»
«Sei solo stanca.»
«Sono le medicine. Continuo a dirgli che non voglio nulla, ma nessuno mi ascolta.»
«Io ti ascolto.»
«Allora portami via...» supplico tra il sonno e la veglia, ormai troppo stordita per controllare gesti e parole.
«Dove vuoi andare?»
«In un posto caldo e lontano, dove nessuno la conosce.»
«Chi?»
Ma io non rispondo e sprofondo ancora una volta in un sonno che non mi darà alcun sollievo perché mi sento di nuovo sola, abbandonata, estranea, finché un calore piacevole mi sfiora la guancia e un profumo familiare entra nei miei polmoni fresco come la brezza estiva, consolante come un abbraccio.
E io capisco che forse sto sognando.
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