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21 - (Don't) Call me Daddy! || Bruno


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Inizio ottobre, 2022 | Dall'altra parte della Costiera Amalfitana


Per Bruno la cosa più bella era passare il suo trentasettesimo compleanno fuori dagli Stati Uniti con Gin. Accanto a lui scorreva un bellissimo panorama verde rigoglioso, la strada era immersa fra alberi, colline e casette di campagna. Aveva sempre desiderato poter vedere dove lei era cresciuta e per sua sfortuna, ci sarebbero rimasti solo per una notte. Un'altra sfortuna era stata quella di dover partire molto presto, per poter arrivare in quella zona rurale della Campania dove Ginevra passava l'inverno in compagnia di sua nonna. Avevano percorso già parecchie miglia e ancora dovevano arrivare, e intanto il sole era già sorto.

Guardò il finestrino pensieroso. Il signor Jenkins aveva fatto assumere una guardia del corpo sia per lui che per Bruno, lo stesso che lo seguiva a qualsiasi evento partecipava – ormai lui si fidava ciecamente di Taylor. Sarebbe stato lui ad accompagnarli fin laggiù, oltre a sopportare i chiacchiericci della famiglia di Gin e qualche loro occhiata sbieca.

«Perché sei così silenzioso?»

«Pensieri confusi. E tu, perché sei così nervosa?»

Era nervosa per quello che avrebbe potuto dire suo padre di loro, ma confidava nel suo buon cuore. Lui non le aveva mai impedito di vivere la propria vita, nonostante quel senso di abbandono che sentiva dentro, e si fidava ciecamente di lei. Il problema arriva solo quando vedeva sua figlia piangere ed era successo fin troppe volte.

«Spero che papà non abbia intenzione di rovinare tutto» si morse il labbro nervosamente. «Non è razzista, però...»

Bruno le prese la mano, guardandola col sorriso più bello di sempre. «Vedrai che lo capirà.»

Le sue parole avrebbero dovuto rincuorarla, e invece la sua paura s'ingigantì di più. Suo padre difficilmente capiva, e lui era fin troppo diffidente. Se gli avesse raccontato quella storia, avrebbe avuto un motivo in più per non accettarlo in famiglia. La differenza fra lui e Mr. Hernandez era abissale: se il primo era più protettivo, il secondo era più risoluto. Se si fossero incontrati il giorno del loro matrimonio, sarebbero anche potuti andare d'accordo. Tuttavia, c'era sempre un 'ma'.

Nel frattempo il panorama era cambiato, diventando sempre più sperduto e circondato da campi e serre che ricordavano molto quelle della Ventura County, con l'unica differenza che si coltivavano ortaggi diversi. Ogni area aveva la propria coltivazione e quella in particolare era una delle più importanti del Paese. Bruno era rimasto a guardare i dintorni da non accorgersi che la strada era diventata più stretta, le recinzioni di ferro a fare da guardrail.

Si trovavano in una piccola via di campagna, letteralmente circondata dal verde. Le villette circostanti avevano l'intonaco cadente, alcune ben ristrutturate – poche, ma un vero piacere per la vista e non guastavano troppo il paesaggio. A dividere una casa dall'altra c'erano cancelli in ferro battuto di forme e dimensioni diverse, collegate solo dall'asfalto.

Subito dopo, il SUV svoltò verso destra in una strada ancora più stretta. Gin stava dando le indicazioni a Taylor, poiché il navigatore satellitare stava per portarli altrove. Si fermarono di fronte un cancello alto in ferro battuto, i muri esterni di pietra e dai colori caldi. Bruno si sporse appena, scoprendo con sua grande sorpresa che erano arrivati a destinazione. Gin aveva riattaccato la chiamata, avvisando probabilmente sua madre del loro arrivo. Scoprì un'espressione preoccupata sul suo volto.

«Ci mancavano le gemelle... merda, dovevamo venire il tre, non l'otto!»

Lui raddrizzò le orecchie. «Hai altre sorelle?»

«No, sono le mie cugine più piccole. Gemelle trigemine, per la precisione.»

«Sono forse serial killer?» scherzò lui, ma lei sembrava essere davvero preoccupata.

«Ecco... ehm... sono tue fan. Spero che non si mettano ad urlare o peggio, saltarti addosso.»

Bruno non aveva timore delle fan scatenate, sapendo della presenza di Taylor. In quei lunghi anni di carriera aveva imparato a gestire gli schiamazzi delle ragazze, quando si accorgevano di lui. Una in più non gli cambiava niente.

«Scendo prima io, tu resta qui.» Sbloccò la portiera e scese. Per qualche minuto Bruno restò seduto sul sedile, impaziente di voler vedere il volto dei suoi futuri suoceri. Stava per avvicinare la mano alla maniglia, quando la ritrasse un po' ansioso. Sarebbe bastata solo una parola del padre di Gin per tenere in piedi o far crollare il castello di carte, ma ciò non gli avrebbe impedito di ricorrere a tutta la propria flemma e se fosse stato necessario.

Taylor aprì la portiera e Bruno scese, posando le Vans nere sulla ghiaia. Ci volle qualche minuto per ambientarsi e si sorprese nel notare che non era una sola casa, ma ben due e che seguivano la stessa architettura campagnola. Da dov'erano entrati, il terreno si divideva in due fazioni: a destra una villetta più piccola da un piano, mentre a sinistra una più grande che comprendeva diversi recinti. A dire il vero erano presenti anche dall'altro lato, ma più piccoli. Intravide qualche coniglietto in lontananza, qualcuno evidentemente scappato dalla gabbia.

I suoi occhi si posarono su una donna abbastanza in carne, un vestito scollatissimo e i capelli castani chiari raccolti. Dalle curve a clessidra sembrava essere proprio la madre di Gin. O meglio, la sua futura suocera. La guardò abbracciare forte sua figlia e le sue palpebre si spalancarono un secondo alla volta. Porca miseria, se si somigliavano! Stessa fisicità, stessa forma delle mani... non c'era nulla che le distingueva.

«E chi è questo bel ricciolino?» aveva detto la donna in dialetto napoletano, squadrando Bruno da capo a piedi.

«È l'uomo che hai visto in videochiamata la scorsa settimana.»

«Ehm... bofrènd?» storpiò malissimo la pronuncia e Bruno si ritrovò a sorridere come uno scemo.

A rispondere fu Ginevra. «Sì, mamma: è il mio ragazzo.»

Il ricciolino incrociò lo sguardo della signora D'Angelo e alzò una mano, salutando educato. Tutti i suoi parenti avrebbero parlato in italiano e lui non avrebbe capito una mazza. Tuttavia sapeva quanto fosse simile allo spagnolo, in un modo o nell'altro sarebbe stato in grado di capire qualche parola. O almeno, ci sperava.

«Carmela, pleasure to meet you.» Si presentò con un inglese terribile, ma le buone intenzioni c'erano.

Lui le si avvicinò per farle un baciamano di classe, come un vero gentiluomo. «L'onore è mio, signora.»

Le gote della donna diventarono rosse dall'imbarazzo. «Uanm, che piezz 'e omm'!»

Dalla sua espressione sembrava aver fatto colpo. Fantastico, ora faceva impazzire anche le signore di mezz'età.

A quanto pareva il padrone di casa doveva tornare dal lavoro, motivo per cui si sentiva la sua assenza. Per distrarsi dai chiacchiericci fra madre e figlia, Bruno si guardò intorno. Le palme alte non sembravano molto rigogliose, nonostante gli apparenti sforzi di mantenerle in vita e si vedeva. Il clima di quella zona non sembrava affatto giovare alla loro bellezza, il che era un peccato. A ravvivare quel giardino, tuttavia, erano le siepi rigogliose, i giochi intorno e i coniglietti che spuntavano improvvisamente dai cespugli.

Gin era molto più magra della madre, ma anche più bassa – le arrivava alla guancia. Avevano la stessa conformazione fisica, i lineamenti e la forma degli occhi. Qualcosa di suo padre c'era, ne era più che sicuro, ma a primo impatto non si notava. La differenza fra madre e figlia era il modo di vestire: la prima era più vistosa, a giudicare da quel vestito blu mare. La seconda, invece, era più... insolita. Il suo aspetto la faceva sembrare una ragazza qualunque, ma imparando a conoscerla, si scopriva identica ad una delle protagoniste più eccentriche della televisione americana.

«Hey, hey! Dove vai, Lucy? Torna nella gabbia.»

La voce stridula di una ragazza catturò l'attenzione dei presenti, che la osservarono prendere in braccio un coniglio nero. Successivamente, una seconda ragazza fisicamente identica alla prima le andò vicino richiamandola e poco dopo la raggiunse una terza. Tutte e tre coi capelli castano chiaro. Dovevano essere le gemelle di cui aveva parlato Gin.

Ci vollero dieci secondi esatti prima che le tre gemelle si accorsero della presenza degli ospiti, o meglio... l'ospite riccioluto con la camicia di seta hawaiana, i riccioli folti, gli occhiali da sole, il tatuaggio della donna sull'avambraccio sinistro. Una di loro spalancò gli occhi, riconoscendo l'unica e sola persona che sfoggiava quello stile isolano anni Settanta con tanta disinvoltura. «Mio Dio... è... è proprio lui?»

Bruno fece un cenno con la mano sorridendo, come faceva ad ogni Meet & Greet.

La più trascurata delle tre, strillò e accorgendosi del bodyguard dietro le spalle della coppia, indietreggiò intimorita e si rifugiò dietro le spalle della sorella come in cerca di uno scudo protettivo. Il coniglio che era fra le braccia della terza gemella saltò via spaventato, rifugiandosi fra i cespugli.

«Oh, cazzo, Bruno Mars è proprio qui davanti a noi.»

Non si chiesero il motivo per cui Bruno Mars in carne ed ossa era lì con Ginevra, nemmeno come ci fosse arrivato. I loro pensieri si erano mescolati fra loro e non riuscivano ad aprire bocca dallo stupore di averlo davanti. Non osarono nemmeno avvicinarsi, dopo aver visto la possenza dell'uomo in borghese e gli occhiali da sole che faceva loro da scorta.

«Non abbiate paura di Taylor, non vi farà del male» le rassicurò Gin e le ragazzine sembrarono calmarsi, mantenendo tuttavia lo sguardo vigile. «Bruno non parla italiano, perciò mettete in pratica il vostro inglese.»

Tutte e tre fecero un passo avanti, entrambe agitate e coi palmi delle mani sudatissimi.

«Piacere, mi chiamo Gioia! Puoi anche chiamarmi Joy» rispose la prima con un inglese piuttosto fluido, portandosi le mani dietro la schiena. Era un nome particolare, che descriveva un'emozione e anche la più bella. Si legava sempre i capelli con un fiocco rosso, facendosi una coda alta e disordinata.

«Io sono Kimberly.» La seconda, che aveva fatto un piccolo inchino come in un qualunque locale giapponese, aveva gli occhiali tondi e una maglietta verde acqua in tinta con il suo elastico per i capelli. A differenza delle sue cugine e sorelle era più trascurata, ma aveva un bel fisico curvo. Doveva essere chiaramente una cosa di famiglia.

«Isabella, l'onore è tutto mio» riuscì a dire la terza, marcando troppo l'accento italiano. Si distingueva dalle ciocche di capelli colorate, ne aveva un paio fucsia che partivano dalla tempia destra fino a ricadere dolcemente sulla spalla. Si era mostrata al naturale con l'acne in bella vista, non se ne vergognava affatto.

«Piacere di conoscervi, ragazze» rispose Bruno educatamente. Fortuna che qualcuno in quella famiglia sapeva parlare bene l'inglese, almeno non si sarebbe sentito solo. «Siete davvero carine.»

Tutte arrossirono, mantenendo sempre la distanza. Una delle due riuscì ad aprire bocca e rivolgergli una domanda, attorcigliandosi la ciocca colorata intorno alle dita con fare timido. «Perché sei qui?»

La signora D'Angelo rispose a nome suo, parlando in dialetto. «Non lo sapevate, guagliuncelle? Gin si sposerà con lui il tredici novembre, sono venuti qui insieme dall'America per portarci l'invito.»

Isabella arricciò il naso, guardando la coppia. «No, è uno scherzo. Impossibile!»

Bruno prese la mano sinistra di Gin mostrando loro l'anello che portava al dito, il che significava che era una cosa seria. Quando si accorsero che il brilluccichio proveniva da un diamante di sei carati, Kimberly e Isabella cominciarono a saltare gioiose, abbracciandosi. Sarebbero presto entrate a far parte della sua famiglia, un onore più unico che raro. Non riuscivano a credere che Gin fosse veramente fidanzata con il loro idolo!

«Come accidenti hai fatto a conquistarlo?» chiese Gioia sconvolta, le mani sulla bocca e gli occhi luminosi.

«Siccome Bruno si vergogna a dirlo, lo farò io: sono stata io a conquistare lui.»

Presa dalla troppa felicità, si morse il labbro e fissò il diamante brillare sotto la luce del sole. Oh, Ginevra doveva raccontarle tutta la loro storia, dalla prima all'ultima pagina! La sapevano, in realtà, ma volevano che fosse la loro cugina più grande a raccontarla. Magari con qualche dettaglio piccante in più.

«La mamma ha fatto una buonissima torta di frutta, dovete assolutamente assaggiarla!» soggiunse Isabella, ritrovando un po' di stabilità.

«Un buon motivo per conoscere meglio le tue fan, non credi, Bruno?» mormorò Gin a lui, dopo avergli tradotto a grandi linee le parole delle sue cugine.

Lui annuì. Perché no? Anche se avrebbe dovuto limitare i dolci, uno strappo alla regola non faceva male. Tenendo Gin per mano, seguendo la signora D'Angelo e le tre ragazze nella casa più grande, passando il sentiero di ghiaia. La porta di mogano nero si aprì, facendo spazio ad un ingresso stile toscano. Un'accoglienza a dir poco sublime.

«Mamma, posso fargli vedere la mia vecchia stanza intanto che aspettiamo papà?»

«Andate pure. Voi guagliuncelle, invece, venite con me.»

Le tre gemelle si allontanarono con la zia, mentre la coppia salì le scale. La ringhiera era in ferro battuto, si sentiva per quanto fosse fredda sul palmo della mano. Bruno non ci aveva fatto caso, si era concentrato più sulle pareti color pesca e l'arcata alla fine della scalinata. Da lì si aveva accesso alle camere da letto e al secondo salotto, quello che disponeva di una grande libreria e il pianoforte – di sicuro quello che Gin aveva imparato a suonare.

Spinto dalla curiosità, passò l'arcata e la prima cosa che notò appena entrato fu il pianoforte verticale di mogano rosso, posto sulla parete destra di fronte ai due divani di pelle coperti da un telo di seta arancione, cuscini ricamati e qualche aggeggio elettronico – dovevano appartenere ad una delle tre ragazze. Non si soffermò sui quadri appesi, il camino di pietra davanti il tavolino rotondo da caffè e la doppia porta di vetro che dava al giardino e alla vecchia altalena.

Alzò il coperchio del pianoforte e sfiorò i tasti, sorpreso nel vedere che fosse tirato a lucido. Nessuno lo aveva toccato, evidentemente nessuno era capace di suonarlo. Vedendo Gin avvicinarsi dal riflesso del mogano, inarcò le labbra. «Era qui che suonavi prima di me?» domandò lui, richiudendo con cura il coperchio.

«Già. Questo pianoforte è stato l'ultimo regalo del nonno. Lui voleva che andassi al conservatorio, ma io ho preferito la biologia.»

La risposta lo fece sorridere, ma anche schioccare mentalmente le dita. Se Gin avesse davvero inseguito quella passione, di sicuro il loro primo incontro sarebbe stato diverso. Le lezioni di pianoforte sarebbero state superflue, e forse avrebbero dibattuto di più sui gusti musicali e altre fesserie.

«Dovevi farmi vedere un'altra cosa.»

Gin inarcò un sopracciglio. Fargli vedere cosa? – «I vinili.»

«Ah... hai visto il giradischi, vero?»

«Sì, e ho notato una piccola collezione di fianco.» Si avvicinò alla consolle dietro il secondo divano, dov'era appoggiato un vecchio giradischi dal coperchio trasparente e accanto un quarantacinque giri dei Police. «C'è per caso qualche vinile di Michael Jackson che mi tieni nascosto?»

Gin confessò, rivelando due titoli – uno famosissimo e un altro risalente ai tempi dei Jacksons Five – entrambi regali di sua nonna. «Quelli sono nella mia cameretta. Vieni.» Gli prese la mano e lo accompagnò fuori la sala, arrivando davanti la terza porta sulla sinistra del corridoio. Aprendola, Bruno ammirò l'intonaco a fantasia floreale bianca su sfondo verde pastello.

La sua stanza era un mondo completamente diverso da quello che aveva imparato a conoscere nel tempo, una vera e propria scoperta. La gigantografia appesa accanto alla finestra era "La vita è bella" e a giudicare da come Gin la guardava, doveva essere il suo film preferito. Un film che faceva sorridere per la presenza del protagonista, rabbrividire per il contesto in cui era ambientato e piangere per il finale.

Percorrendo la libreria con lo sguardo, si accorse di due locandine metà illustrate e un nome a lui familiari, più precisamente le versioni rimasterizzate in VHS di Cover Girl e Singin' in the Rain – i titoli erano tradotti, ma le locandine erano quelle originali. Fu una scoperta per lui, ma ciò che gli suscitò più curiosità fu il ripiano sotto: era colmo di CD anni '90 e qualche vinile sperso non al suo posto. La sua era una collezione piccola e la maggior parte delle custodie erano consumate, scarabocchiate e strappate. Un vero peccato, avrebbe potuto dare un valore aggiunto a quella libreria piena di enciclopedie, dizionari e libri di narrativa.

Come aveva previsto, quelli del re del pop erano nascosti nello scaffale più basso della libreria. Ne aveva due: Bad e Thriller, entrambi tenuti in buste protettive e posti per pura coincidenza accanto a Destiny e Like a Virgin. Oltre ad alcuni italiani e compilation, c'era anche quello degli Alphaville. Le bambole di porcellana intorno fungevano da decorazioni, ma avevano comunque un grande valore – una era ancora nella sua scatola. Si rialzò e tornò a guardare il resto della stanza.

Il comò era pieno di cornici di legno e argento, la maggior parte ritraevano lei in eventi particolari. La più grande era la sua famiglia al completo: lei, suo fratello, i suoi cugini in prima fila – tutti piccoli, dovevano avere dai tre ai sette anni – e in fondo i suoi tre zii affiancati dalle proprie mogli e i genitori. Anche quella era una famiglia numerosa, ma solo se si contavano anche i cugini e i nipoti. A discapito della sua, che solo contando fratelli e sorelle, riempivano un'intera tavolata del giorno del ringraziamento e non ironicamente.

Un paio di quelle appese erano di lei con la sua famiglia e altre che ritraevano momenti felici e spensierati della sua infanzia, una Ginevra felice e ignara del suo futuro. Da piccola portava davvero l'apparecchio e gli occhiali tondi blu che stonavano su qualsiasi completo formale, tranne quello della comunione. Il vestito stile principessa le stava un amore, chissà se ne avesse scelto uno simile per il giorno del loro matrimonio.

«Guarda cos'ho trovato: la lettera d'ammissione alla UCLA.»

Quando Bruno si girò, vide Ginevra con in mano una lettera datata 2008, con essa alcune di rifiuto degli altri istituti. Aveva azzardato alla University of Southern California, Oxford, Yale e Harvard, ma solo in due era stata ammessa. La prima lettera diceva chiaro e tondo che avevano accettato la sua borsa di studio e che avrebbe frequentato i corsi a partire dal prossimo semestre. Era da quel foglio di carta che tutto aveva avuto origine. Lei confessò che era stato difficile scegliere fra la UCLA e la Hampton University, e aveva optato la più famosa fra le due.

«Chissà come avrei vissuto la mia vita, se fossi stata ammessa in un'altra università o avessi scelto la Hampton.»

Bruno non riusciva ad immaginare una vita senza di lei, eppure ci aveva provato. Non sapeva spiegarsi il motivo per cui aveva messo gli occhi addosso su una ragazza ordinaria come Gin, né tantomeno di innamorarsene al punto di guardare la luna in cielo per evocarla nei propri sogni.

«Ci saremmo incontrati in altre occasioni e chissà se ti saresti innamorata di me.»

Gin nascose un sorriso timido, sfiorandosi le labbra con due dita. Una speranza ci sarebbe stata, se in mezzo ci fosse stata la musica. Poco dopo, le braccia di Bruno si avvolsero intorno alla vita, lo sguardo rivolto verso una delle foto appese al muro di fianco la scrivania. «Parlami un po' di quella bambina sorridente con l'apparecchio ai denti.»

«Lei era solo una piccola peste che amava rincorrere i coniglietti per il cortile.»

«Una 'piccola peste' che conosce i film di Gene Kelly.» Lei avvertì improvvisamente una fitta terribile alla pancia, come se non mangiasse da giorni. «Perché hai aspettato dodici anni per dirmelo?»

«Pensavo fosse un'informazione non necessaria.»

Lo era, invece. Sapeva dell'esistenza di un'icona del cinema piuttosto importante, se non più di Elvis. La cosa assurda era l'averlo scoperto un decennio dopo. Per farla breve conosceva tutti i musical tranne quelli del king, il che era imperdonabile essendo stati diffusi anche in Italia. Perlomeno Bruno aveva rimediato, facendole vedere Jailhouse Rock.

La fece voltare verso di lui per guardarla attraverso i suoi occhiali. «Per stavolta ti perdono.»

«Perdonarmi per cosa?»

«Perché ora posso dire di avere un'altra cosa in comune con te.»

Un rumore li colse di sorpresa e a fare capolino da dietro la porta era la cugina Isabella. Visibilmente a disagio, abbassò lo sguardo e balbettò in inglese: «Non per i-interrompervi, ma... la.. l-la zia ha preparato il caffè. Vi s-sta aspettando giù.»

«Ci accompagni te?» le propose Bruno, rivolgendole un sorriso.

Lei fece un cenno col capo e si precipitò giù per le scale, senza voltarsi. Era timida quanto la sua cugina più grande, anche se qualche minuto prima non lo sembrava affatto. La coppia la seguì scendendo per le scale, tornando al punto di partenza.

Mrs. D'Angelo aveva fatto accomodare i suoi ospiti in quella che sembrava essere una sala da pranzo, che riprendeva lo stesso arredamento toscano che c'era in tutta la casa. La differenza erano le pietre in rilievo sulle pareti e qualche pannello in legno, che creavano un effetto rustico. Successivamente offrì la torta a tutti, con una tazzina di caffè vicino. Lo aveva versato da una moka rossa dal coperchio a forma di cuore e a giudicare dalle raschiature sui lati, doveva essere molto vecchia. Bruno aveva accettato volentieri quel piccolo brunch – erano le undici del mattino, effettivamente – dopo aver inspirato il dolcissimo profumo del dolce fatto in casa.

A quanto pareva, era un'usanza italiana quella di servire una tazza di caffè e mettere lo zucchero con un cucchiaino diverso, mescolare e poi bere a piccoli sorsi. Era buono se non più del caffè americano, quell'aroma intenso si sentiva in tutta la bocca. Per non parlare della torta alla frutta, doveva essere stata proprio la signora Carmela ad averla preparata. Non eguagliava quelle della figlia, ma era deliziosa.

Lasciò che madre e figlia parlassero, mentre lui prendeva una forchettata di dolce, fingendo di ascoltare. Era spesso taciturno e parlava solo quando veniva interpellato, soprattutto durante le reunion con gli Hooligans. Quella tregua sarebbe durata poco, almeno fin quando il paparino sarebbe comparso sugli schermi. Bruno sapeva già la prassi: domande scontate del calibro "come ti sei innamorato di mia figlia?" oppure "sei sano?", indice della loro diffidenza assoluta. Tutti quei colloqui con i padri delle ragazze che aveva frequentato da ragazzo e tutte le interviste fatte negli anni lo avevano preparato bene.

«Ti sei fidanzata con uno di Los Angeles, piccerella?»

«Peter non è di quelle parti, mamma. Viene da un paradiso tropicale.»

«Dai Caraibi?» tirò ad indovinare la signora Carmela, ma Bruno scosse la testa con un sorriso. «Le isole Canarie?»

«Hawaii, zia!» disse infine Kimberly con spavalderia, seduta sulle ginocchia di Gioia che faceva vedere le gambe scoperte e i sandali con un tacco piuttosto alto. «Lui è nato e cresciuto a Honolulu. Bisogna conoscere le basi!»

Isabella ridacchiò, seduta a destra di sua zia con la propria tazzina di caffè in mano. Per avere sedici anni, erano ragazze piuttosto eleganti e quella col fiocco rosso, fissava l'invito del matrimonio indirizzato alla loro zia. Nonostante l'entusiasmo, tutte e tre si tenevano il più distanti possibile dal bodyguard – in quel momento seduto con loro a godersi quel minuscolo brunch.

«Peccato non aver mai vinto la lotteria, un bel viaggetto me lo sarei fatto più che volentieri! Sarebbe stato bello andare a Kailua.» La signora Carmela sbagliò la pronuncia e Bruno sorrise sotto i baffi. Sapeva di essere maleducato, dal momento che rideva per la loro ignoranza. «Si vede che è di quelle parti, guarda che pelle scura.»

«Tutti gli hawaiani ce l'hanno così, vero?» domandò Gioia con un sorriso gigantesco. Intanto, Ginevra gli aveva tradotto la domanda e Bruno aveva scosso la testa in tutta risposta.

Un luogo comune come tanti. In realtà la sua carnagione era data dal fatto che fosse per metà portoricano, non perché andasse in spiaggia tutti i giorni e avesse tanta melanina. L'unico aspetto hawaiano che aveva era l'armonia spirituale, quella che mostrava in qualunque apparizione e la capacità di vedere la luce in fondo alle tenebre.

«Dunque, tu... ehm, iù...» La signora Carmela gesticolò verso Bruno che cominciò a ridere un'altra volta. «Iù end Gin... "boyfriend"?»

«In questo caso si dice "engaged", perché porto l'anello di fidanzamento.»

La signora D'Angelo riformulò la domanda, stonando la pronuncia ma usando le parole corrette. Nessuno della famiglia, a parte le gemelle presenti, conosceva l'inglese. A stento lo parlavano, facendo sentire quell'imbarazzante pronuncia maccheronica. Era più imbarazzata dal fatto che non sapesse formulare una frase di senso compiuto per farsi capire dal suo futuro genero, invece dei verbi mancati e degli accenti sulle vocali sbagliate.

«... bello! Carino!»

«Sparane uno, Carmè!» La voce di Giuseppe, suo cognato, li colse alla sprovvista.

In lontananza Bruno vide due uomini sulla cinquantina ben in forma, nonostante i capelli grigi brizzolati. L'uomo con la camicia a quadretti doveva essere il padre di Matilde, vista la stessa conformazione fisica. Se lui si trovava lì, significava che Anderson aveva conosciuto il patrigno. L'altro, invece, non riuscì ad inquadrarlo bene per quanto fosse lontano. Sapeva solo che portava gli occhiali da lettura sul collo.

Gin ridacchiò, osservandolo andare incontro a sua cognata. «Dai, lo sai l'inglese» disse lui, poggiando una mano sulla spalla e tendendo l'altra verso Bruno. «Piacere, Giuseppe. Tu devi essere l'aspirante genero di Ettore, vero?»

Lui annuì, mai aveva sentito qualcuno definirlo tale. Decisamente un passo avanti.

La signora riprese. «So... ... iù arr gu

«Forse volevi dire "cool", zia?» la corresse Isabella, rigirandosi il pezzo di carta dorata luccicante fra le dita, per poi posarlo sul tavolo.

«A dire il vero, fa caldo qui» borbottò Bruno sorridendo, e ridendo per il suo stesso gioco di parole.

Carmela aggrottò la fronte, ma poi si limitò a fare una smorfia mista fra il divertito e l'imbarazzato. Rideva per caso di lei? A darle una risposta fu Ginevra. «Era una battuta squallida, mamma, in italiano non rende bene. Smettila, scemo!» sussurrò lei in inglese, dandogli un colpo di gomito sul braccio.

«Scusa, è stato più forte di me» si giustificò, portandosi la mano sulla fronte.

Poco dopo, la ragazza si rivolse sia ai suoi parenti che a sua madre. «Vi faccio una piccola lezione d'inglese: se volete dire a Peter che è il ragazzo più bello di sempre, dovete dire "handsome".»

«Non era "beautiful"?»

«Quella è la soap.»

Per una volta Bruno colse quella battuta e sorrise. Vent'anni di puntate che si ripetevano come un loop infinito, tradimenti su tradimenti e colpi di scena così cliché da essere prevedibili.

«Va bene, rifacciamo. ... Peter, iù arr endsòm

Bruno sogghignò, poi si schiarì la gola per non apparire troppo rude. Del resto, sarebbe stato scortese perfino per la suocera più bisbetica. «Grazie, signora. Anche lei è molto bella.»

«Eh, bell 'e mammà! Cinquantacinque e li sento tutti, altroché se sono bella

Lui inarcò le labbra, mostrando la fossetta destra. La signora doveva aver capito solo la parola beautiful. Non lo aveva detto apposta anzi, lo pensava veramente; per essere sulla cinquantina, aveva un sex appeal davvero invidiabile. Anche sua madre aveva la sua età, quando... scosse la testa. Non era il caso di ricordarla, non in quei frangenti.

Quando i due uomini di casa passarono l'arcata, finalmente Bruno riuscì a riconoscere l'uomo con gli occhiali da lettura appesi al collo. Aveva un aspetto simile a suo nonno: capelli ben tenuti, sguardo vigile e un portamento eretto. Il solo fatto che entrambi avessero lo stesso colore degli occhi non lo consolò affatto anzi, gli mise ancora più pressione. Sperò non avesse il suo stesso carattere.

«Ah, tesoro, hai fatto vedere la foto delle tue figlie a zì Peppino?»

Ginevra sobbalzò, sentendo addosso lo sguardo pungente di suo padre.

«Figlie?» esclamò Kimberly, alzandosi dalle ginocchia di sua sorella e tentando di rubare il cellulare di sua zia. Poco dopo si aggiunse sua sorella. «Voglio vederle! Ti prego, ti prego!»

Il loro zio le sentì squittire. «Calmatevi, voi due.»

«Allora, Carmela, ci lasci qualche minuto da soli?» soggiunse il marito con lo sguardo più freddo che avesse mai fatto, trattenendo però una delle tre gemelle. «Tu resta qui, Gioia. Mi serve qualcuno che traduca quello che dice il giovanotto.»

Per come il paparino aveva pronunciato quel "giovanotto" non prometteva nulla di buono. La signora D'Angelo acconsentì, alzandosi dal tavolo e lasciandogli la tazzina di caffè vuota. Bruno fu sollevato nel sapere che quella tortura alla Ti presento i miei stava per finire, anche se al posto di Robert De Niro e una macchina della verità, c'era un brunch e due occhi scuri spaventosi.

«Mi raccomando, Ettore, non essere troppo severo» sussurrò Giuseppe a suo fratello, prima di allontanarsi con le altre due gemelle – tenevano il cellulare della cognata tra le mani, guardando la foto delle due neonate con gli occhi lucidi.

Una volta scomparsi dal campo visivo della coppia, il signor Ettore si riempì la tazzina e zuccherò il caffè con calma e risolutezza. Ginevra conosceva bene quello sguardo apparentemente innocuo, ma penetrante e duro come una spada nella roccia. Sua cugina Gioia non era in grado di vederlo, lo si capiva da com'era tranquilla seduta di fianco a suo zio.

«Allora, Bruno, parlami un po' di te. Dove vivi, cosa fai.»

«Peter, papà. Bruno è il suo nome d'arte» rispose Gin, sentendo il cuore battere come non mai.

«Sì, giusto, Peter. Immagino lavori ancora nel panorama musicale, giusto?»

Il ricciolino si mostrò passivo, ma ogni suo organo interno si stava agitando e muovendo per la troppa ansia. «Sì, ci sto... ehm, lavorando.»

«Non sono mai stato a favore del razzismo, ma a vederti non mi sembri tanto responsabile.»

«Lo sono eccome. Io e Gin ci dividiamo le mansioni domestiche, cuciniamo insieme... se non è responsabilità questa, papà, non saprei.»

Lui lo fulminò con lo sguardo, posando la tazzina sul tavolo. Cos'era tutta quella confidenza? Con quella camicia anni settanta dalla fantasia calda, la scollatura ampia e tutti quegli anelli d'oro partiva già svantaggiato. Al ricciolino piaceva mettersi in mostra, oltre che a fare lo sbruffone. Usanza americana o meno, quel suo atteggiamento da so-tutto-io non gli piaceva affatto.

«Lascia che ti dia un paio di lezioni, sarracino. Numero uno: non sei autorizzato a chiamarmi "papà", mi devi chiamare "signore." Signor Ettore D'Angelo, padre di Gin.»

Bruno si stranì, ma si ricompose toccandosi nervosamente la punta del naso. Come lo aveva chiamato? «Sì, signor... Signor Ettore D'Angelo, padre di Gin.»

«Numero due: per guadagnarti la mia fiducia dovrai convincermi di essere un vero adulto e non mi sembri esserlo da come mi hai chiamato poco fa.»

«Mi... mi dispiace, se ho usato toni alti» si scusò, abbassando lo sguardo. Dannazione, sapeva di non dover parlare troppo!

«Non fare l'attore, ho visto qualche tua intervista su internet. Fai tanto lo spavaldo alla faccia di chi zappa la terra, solo perché hai avuto successo fra le ragazzine.»

Bruno cercò di restare quieto e sicuro di sé, anche se l'espressione seria del padre di Gin non aiutava molto. «Ho faticato tanto per arrivare dove sono adesso» sentenziò con voce calma, ricorrendo alla propria mana. Uno sguardo duro come il suo non gli avrebbe permesso di fargli perdere il proprio spirituale.

Lui per tutta risposta sogghignò amaramente, guardando Bruno con disprezzo. «Non me la dai a bere. Tu e tutti quelli come te non siete capaci di guardare oltre gli occhi di una persona, perché siete accecati dal denaro. Più siete viziati, più il successo vi fa sballare i neuroni e vi credete chissà chi. Non cambierete mai.»

«So che ha sbagliato a farsi trascinare dal denaro, ma ti assicuro che è Peter un ragazzo pulito e ben educato. L'ho perdonato e ci siamo promessi di non ripeterlo mai più» intervenne Gin, la voce bassa e tremante.

«Ginevra, non ha avuto a cuore i tuoi problemi di ansia sociale. Come posso fidarmi di lui, se ti ha fatta soffrire?»

La sua domanda era più che lecita. Anche lei aveva fatto fatica a fidarsi nuovamente di lui dopo la separazione, cercando modi diversi per alleviare il dolore – lo psicoterapeuta era arrivato tardi, ma in tempo per fermarla da una pazzia. Suo padre non sapeva niente, neanche della storia con la modella Brooklyn, di Shawn e tutto il resto. E non doveva saperlo. Non oggi.

«Voleva che mi allontanassi dal suo mondo dorato per farmi stare meglio. Sapeva quanto avrei sofferto.»

«Chi mi dice che sia davvero così?»

Bruno si sentì improvvisamente a disagio, forse anche lui sapeva qualcosa. La storia aveva fatto il giro del mondo e ne era stato testimone, quando Chester gli aveva schiaffato addosso la prima pagina di quella maledetta rivista di gossip. Era un irresponsabile perché aveva fatto tanti sbagli nella vita, ma non era per quello che aveva accettato di andare in quelle campagne sperdute. Voleva che la sua famiglia vedesse di persona chi fosse Peter Gene Hernandez, dimostrar loro che dietro la propria maschera si celava un uomo adulto, maturo.

«Sia chiara una cosa, papà: dei suoi soldi non me ne frega niente. Lo amo perché è fiero dei miei traguardi, mi fa sentire unica e speciale anche se ho le maniglie dell'amore. Bruno è la mia famiglia, Malie e Melissa sono la prova che mi ama e mi sostiene. Lo amo perché sa farmi sorridere, mi ama per quello che sono e non gli importa se sono bianca o nera, che abbia qualche chilo in più o in meno.»

Le dolci parole di Gin lasciarono suo padre sbigottito e anche la sua cuginetta rimase sorpresa, anzi commossa. Tuttavia, non bastarono a fargli cambiare opinione al riguardo.

«Senti, Gin... per quanto io ti voglia bene, non posso assolutamente accettare questo matrimonio. Non mi va di lasciarti fra le braccia di un uomo insensibile, soffriresti più di quanto abbia sofferto tua madre in passato.»

«Ho rispettato i sentimenti di Gin, signore» obiettò Bruno, fronteggiando l'uomo davanti a sé. «Avevo scoperto di essere la causa delle sue paure, scoprendo a mia volta di essere diventato quella più grande. Il mio nuovo stile di vita l'avrebbe fatta precipitare negli abissi e non mi piace vedere una persona soffrire, specialmente se la ami.»

Parlando, gli tornò in mente tutto: dalla storia tormentata di Elvis e Priscilla fino a quel fatidico inizio di dicembre, quando aveva lasciato Gin sotto la pioggia noncurante delle sue emozioni. Entrambi sfruttati dalla persona che avrebbe dovuto supportarli dall'esordio fino al tramonto, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia, e con fedeltà. Due storie d'amore difficili, da una parte travagliata e dall'altra distante, dove l'unico comune denominatore era il serpente dorato chiamato celebrità.

Il signor D'Angelo si limitò ad annuire, nascondendo una smorfia di disgusto. Quel buonismo becero gli stava facendo venire il voltastomaco. Certo, il re del rock n roll aveva avuto a cuore la fanciullezza di quella ragazzina, aspettando il giorno del matrimonio. I suoi principi erano stati puri, nonostante le numerose feste e champagne, ma ciò non gli aveva impedirlo di tradirla nel peggiore dei modi.

«Se lei è consapevole dei suoi principi puri, allora perché crede a queste stronzate?» sentenziò il ricciolino, incrociando le braccia. «Elvis ha rispettato tutte le donne con cui ha avuto a che fare, era una persona devota e religiosa. Per lui le donne erano un dono di Dio, disse che bisognava proteggerle e farle ridere. Se ne si era capaci, ti avrebbero amato per sempre.»

Il signor D'Angelo sbuffò. «Finiamola con questa storia, tutti sappiamo quanto in realtà sia stato un ciarlatano. Vita facile, tante donne, bagni di champagne... nelle sue canzoni era il contrario di quello che è stato davvero.»

Un'altra affermazione errata. Aveva sbagliato numerose volte, ma quel che nessuno sapeva era l'esistenza di un vero e proprio demone che lo stava prosciugando. Non erano soltanto i farmaci, ma anche chi gli guardava le spalle facendo la doppia faccia. Un demone di nome colonnello Tom Parker, colui che spillava i soldi ai propri clienti per giocare d'azzardo. Quando qualcuno si faceva toccare la testa da lui, firmava indirettamente la propria condanna a morte.

«So che è successo anche a te. È così, vero?»

«Sì, signore. In un certo senso Chester ha detto la verità sul conto di Gin, perché non si dovrebbe mai temere chi si ama. Per questo mi sono fatto da parte, seppur pagandone le conseguenze.»

«Con tutto quello che mia figlia mi ha raccontato negli anni, non mi stupisce che tu abbia voluto seguire le orme dei tuoi idoli, diventando la loro copia esatta.»

Oh, certo, Bruno aveva seguito le sue orme. Aveva indossato una replica dell'Aloha Eagle a cinque anni vivendo la sua "Aloha from Hawaii via satellite", e a ventitré anni aveva conosciuto il suo colonnello che anziché toccargli la testa, gli aveva afferrato le spalle e augurato una carriera prospera e longeva. La sua fortuna era stata quella di esser stato cresciuto in una famiglia amorevole e con principi spirituali, che lo aveva aiutato a non crollare emotivamente dopo quel terribile scandalo. Aveva le stesse movenze del re del pop, tanto da essere considerato il suo figlio illegittimo, ma non sarebbe mai stato in grado di eguagliarlo.

Come Michael adorava i bambini, gli animali e faceva attivismo, anche lui regalava amore e speranza seppur in segreto. Ciò avrebbe potuto fare di lui un malpensante, secondo le persone? Chi guardava la maschera era solo un'anima corrosa e lui lo sapeva, dopo essersi visto negli occhi di Elvis e di Michael. Quest'ultimo voleva vedere le persone felici e desiderava essere amato, era una persona troppo buona per poter vivere in pace. La società odierna non è altro che un insieme di anime sporche d'invidia e avidità che andavano a contaminare quelle pure, ingabbiandole a loro volta.

«Ti ostini a difenderli, dopo tutto quello che hanno raccontato di loro?»

Bruno posò la forchettina da dolce sul piatto, si tolse gli occhiali da sole e si mostrò al naturale. Ciò che seguì pochi istanti dopo, fu il round definitivo di quella battaglia generazionale. «Perché tutti e due erano prigionieri di una gabbia dorata, così come lo sono stato anch'io.»

Elvis era stato all'oscuro di ciò che si nascondeva, mentre Michael ci era entrato con la forza. Entrambi vittime dell'avidità dello show business, chi in un modo e chi nell'altro, imprigionati in gabbie dorate soffocanti, opprimenti e ben più strette della sua. La gente non era in grado di guardare lo spirito di una persona, mentre Bruno ne aveva visto il riflesso attraverso i propri occhi. Non l'aveva solo vissuta fra un gossip piccante e una voce di corridoio, un giudizio o una carezza sulla testa da chi proveniva dai piani alti.

Se Bruno aveva avuto il coraggio di parlare a Mr. Jenkins, era perché le loro anime gli avevano parlato. "Tienila stretta, prima di perderla per sempre" e non parlavano della sua chitarra, ma di Gin. La sua chiave di salvezza.

Poco dopo la sua mano si strinse a quella della ragazza, lo sguardo fiero e determinato. «Non posso rinunciare a Gin, ma posso rinunciare alla mia carriera e al mio patrimonio. Se è quello che vuole, signor D'Angelo, lo farò, purché lei rimanga con me e le mie figlie.»

La risposta di Bruno lo lasciò senza parole, e anche con l'amaro in bocca. Non poteva impedirgli di coltivare i propri sogni, soprattutto se era ciò che gli piaceva davvero. A Giuseppe era stato proibito tante volte da giovane, ma dopo aver conosciuto sua moglie era cambiato in meglio. A guardare Bruno e Gin tenersi la mano, la sua espressione severa si ammorbidì; sembrava lo specchio di lui e Carmela: anche lei avrebbe rinunciato al suo lavoro da estetista per lui, ma non era mai stato così geloso. L'amore per lei era stato più forte.

Gioia decise di dire la sua, dopo tutto quel tempo passato ad ascoltare. «Bruno non ha mentito poco fa, zio. La sua carriera consiste nella condivisione. Non puoi imporgli un ultimatum del genere, è irrispettoso.»

«E perché ti sei imposto questo obiettivo?» domandò lui, ancora dubbioso.

«Perché quando sei felice con te stesso, sei in grado di regalarne un po' anche a chi vuoi bene. Il denaro non è mai stata la mia priorità, non mi è mai importato dei grammy o dell'appellativo di 'nuovo Michael Jackson'. Voglio condividere le mie emozioni più pure con il mondo, regalare speranza e amore.»

«Non c'è mai stato nessuno che ti abbia fatto dubitare del contrario?»

«No, mai. Sono fiero di ciò che penso e non provo odio nei confronti di nessuno, va contro la mia morale.»

Il signor D'Angelo ritrovò l'umanità dentro di sé e guardando la felicità negli occhi di sua figlia Ginevra nel modo in cui guardava il suo ragazzo, il suo cuore si sciolse e la sua espressione cambiò, rivelando un sorriso genuino. «Sei proprio una persona sincera, Peter. Ti ho sottovalutato.»

Per Bruno furono delle bellissime parole. Per una volta mostrare il proprio orgoglio era servito, soprattutto se si doveva mettere a confronto se stesso e la sua più grande ispirazione. Quando il colloquio si concluse, le tre gemelle e la loro zia ricomparvero con qualche pasticcino.

«Va tutto bene?» domandò quest'ultima, sporgendosi da dietro le spalle del marito.

«Sì, tesoro. Tutto bene» la rassicurò il signor D'Angelo, alzandosi dalla sedia. «È stata una discussione molto accesa.»

Sarebbero venuti tutti al loro matrimonio, cugine comprese. Quest'ultime erano le più elettrizzate. A volte voleva tornare ad avere il loro entusiasmo, quando ancora non c'era nessuna responsabilità a sovrastarlo. Girando il capo dall'altro lato, notò Bruno che parlava col proprio bodyguard – quest'ultimo con in mano una busta nera. Non era riconducibile ad un invito esclusivo, poiché sapeva che lui posava la sua firma sopra il colore rosso cardinale e l'oro.

Si rivolse ai suoi futuri suoceri, prendendo in mano la busta e posandola sul tavolo. «Prima di andare, ci tenevo a darvi questa.»

Quando la signora D'Angelo l'aprì, scoprendo il contenuto, la richiuse e gliela restituì. «Non possiamo accettare tutti questi soldi, Peter, davvero.»

Lui gliela porse nuovamente. «Insisto, servono più a voi che a me. Potete dividerli, se vi fa più comodo.»

Lei decise di non opporsi e tirò fuori quella piccola mazzetta di denaro, guardandola col cuore in gola. Sì, era generoso da parte sua... anzi, troppo. Poco dopo, le sue mani vagarono ancora e allungò tre biglietti sigillati in una busta dorata e luccicante. C'era scritto il nome delle tre gemelle con la grafia di Bruno. Gin sorrise, intuendo cosa fossero. Ecco cos'aveva nascosto negli ultimi giorni. Quell'uomo aveva letteralmente un cuore d'oro.

«Questo, invece, è un regalo per le mie piccole cognate e fan speciali, ma dovrete aprirlo il giorno di Natale. Chiederò a vostro padre di metterli in una cassaforte, così non sbirciate prima del tempo.»

Le ragazze fecero partire un coro di "nooo". «Mi spiace, bimbe. Vi assicuro però che l'attesa ripagherà.»

Avrebbe ripagato eccome, se la sorpresa erano mille euro ciascuna, una sua dedica scritta a mano e i biglietti VIP per il concerto della prossima estate ad Amalfi. Bruno non ci aveva mai pensato fino a quel momento, si era sempre limitato alla capitale della moda e della storia. Una tappa nel luogo dove regnava l'amore e la dolce vita era più che perfetta.

Il bodyguard fece cenno loro di andare, il suo protetto lo seguì, ma non prima di aver rivolto un ultimo saluto alla famiglia di Ginevra. «Vi ringrazio tanto per l'ospitalità. Spero questi soldi possano aiutarvi, comunque.»

Gioia batté le mani. «Perché non restate a pranzo? Stavamo preparando tutto per la grigliata.»

Gin tradusse a Bruno quelle parole, sussurrandogli all'orecchio. Lui non pensò due a volte ad accettare la loro proposta, per quanto adorasse le grigliate. Ci sarebbe stata abbastanza carne per andare in letargo e a lui piaceva rimpinzarsi di carne arrostita.


«»


Quando Ginevra trascorreva l'inverno da sua nonna e sentiva nostalgia del mare, approfittava delle giornate di sole per prendere il treno fino a Vietri sul Mare. Dove si trovava in quel momento era un posto abbastanza isolato, il bodyguard che si assicurava che nessuno si avvicinasse al mezzo e ai suoi protetti dietro di loro. Si erano fermati per una breve pausa post brunch – quello vero, anche perché tutta quella discussione li aveva metaforicamente prosciugati e la carne li aveva riempiti come un tacchino prima del ringraziamento.

La coppia ammirava il mare e il panorama della città di Salerno in lontananza, il porto in bella vista. Il pensiero di dover far ritorno in America li premeva, anche perché non avrebbero voluto lasciare quel piccolo paradiso che Ginevra chiamava "casa". Bruno sarebbe partito per il suo piccolo tour a Sydney e Osaka e ne avrebbe avuto per tutto il mese di ottobre, mentre lei sarebbe rimasta a casa con le gemelle. Tanto valeva godersi quegli istanti d'intimità assoluta fino alla fine. O meglio, le ultime settimane da fidanzati.

Lui avrebbe approfittato del piccolo tour per il suo addio al celibato e non aveva idea di cosa aspettarsi dai ragazzi, a parte il troppo alcol. Aveva lasciato loro carta bianca, anche se con tanti dubbi.

Si voltò verso Gin, in quel momento concentrata sul panorama di fronte a lei. «Senti, Gin, ehm... cosa significa quella parola? Quella che ha detto tuo padre, una cosa del tipo 'sar'...»

«"Sarracino"?» inclinò il capo di lato, poi lo raddrizzò sorridendo. «È una ballata napoletana che racconta di un ragazzo riccioluto che faceva impazzire le donne.»

Bruno sogghignò. Allora gli aveva fatto un complimento. Poco dopo il suo sorrisetto si spense, quando lei riprese a parlare: «Dal tono era più dispregiativo, per questo avevo arricciato il naso.»

Ecco, aveva parlato troppo presto. — «Perdonalo, Peter, papà non è cattivo. È solo diffidente, soprattutto per quello che è successo fra noi.»

«Ci siamo promessi di mantenere viva la nostra amicizia, ricordi?»

Gin guardò il mignolo intrecciato al suo, quello che portava l'anello d'oro. Il ricordo le regalò una sensazione di calore e pace, quella che entrambi condividevano. Intorno a lei si conoscevano tutti, c'era solidarietà a tutti gli effetti – gli era bastato osservare due anziani barattarsi ampolle di vino casereccio durante il tragitto – e da un lato Bruno aveva visto l'origine della sua bontà.

«Non pensavo condividessimo così tante cose.»

«Neanch'io, infatti ero stupita nel sapere che la tua cultura fosse simile alla nostra.»

«Però voi siete più... come dire, rurali

«Non abbiamo lo spirito Aloha, ma ci diamo sempre una mano. Qui la parola d'ordine è "amore e rispetto", seppur con parecchie eccezioni.» Gin poggiò la testa sulla sua spalla. «Non fidarti di chi sostiene il contrario.»

Bruno approfittò dell'occasione per toccarle il mento e alzarle la testa, ammirando l'oceano nei suoi occhi. Seguì un bacio profondo, lasciando sprofondare Gin in una calma assoluta e un profumo inebriante. Ormai tutti sapevano la loro storia, e di quante volte erano stati paragonati ad Elvis e Priscilla.

La verità era una sola: era stato un amore sbagliato, un effetto domino che aveva rovinato la vita a due esseri umani – il primo per colpa del suo mentore, la seconda come un susseguirsi di conseguenze ed azioni. In un certo senso anche loro avevano vissuto qualcosa di simile, ma Bruno aveva impedito che accadesse, sbagliando a sua volta.

«Mi sembra così strano avere accanto una persona quasi uguale a me.»

«Stavo per dirlo anch'io» sogghignò lui, rafforzando di più quel dolce e amorevole contatto fisico. «Alla fine ci ha separati solo l'Oceano Atlantico, poi il destino ci ha fatti conoscere.»

«Innamorare» aggiunse lei, passando l'indice su quel lembo di pelle color caramello scoperto e circondato da seta pregiata e fresca.

«E ritrovare» concluse lui, sfiorandole la punta del naso con la propria. Un gesto semplice e così romantico da farli sorridere. Era vero che il destino sapeva riservare sorprese inaspettate, come una seconda possibilità.

Stavano per baciarsi una seconda volta, quando il cellulare di Gin non suonò la classica suoneria dell'iPhone. Lo prese dalla tasca dei suoi shorts e osservando l'icona di FaceTime, capì che si trattava di Matilde. Fece scorrere il dito verso destra e si aprì una schermata troppo illuminata.

«Hey, voi due! Ancora non siete tornati?»

Bruno guardò l'ora dal suo Rolex. Erano solo le tre del pomeriggio. «Siamo da poco arrivati, in verità. Abbiamo deciso di passare un po' di tempo fuori prima di tornare.»

«Ma siete a Vietri sul Mare? Così lontano?!»

«Sì, ma è solo una breve sosta prima di ripartire. Siamo di ritorno da un pranzo a base di carne, Peter adora la cucina di mia madre.»

«Se lo avessi saputo, sarei venuta anch'io!»

«Ti sei dimenticata che Anderson è vegano?»

«Merda, hai ragione» borbottò in risposta. Lei sapeva quanto andasse pazza per la carne grigliata, specialmente di bistecche di manzo e salsicce. Sua madre ne era la regina indiscussa.

Anderson apparve dietro le spalle della sua ragazza. «Non osate parlare di carne in mia presenza, assassini!»

Bruno intervenne, guardando quel contagiosissimo sorriso sporgente sullo schermo. «Non cederò alle grigliate di frutta, Paak. Quelle puoi fartele da solo.»

«Tranquillo che non sarai mai invitato a casa mia, la cosa è reciproca.»

Gin osservò lo scorcio di spiaggia dove si trovavano Anderson e Matilde, non riconoscendo il posto. Dall'intonaco bianco e le decorazioni blu, pareva familiare. «E voi dove siete, a proposito?»

«Al Lido delle Sirene. Te lo ricordi? Ci lavorava un amico del nonno.»

«Oh, sì, sì! Ci portava a mangiare lì prima della gita in barca.»

«Ho solo incontrato suo nipote, ti manda i suoi saluti.»

«Ricambio. Teneteci il posto sulla terrazza dell'albergo, tra un po' ci rimettiamo in carreggiata.»

«Non possiamo garantirvelo» rispose Anderson con fare snob.

«Non tenere tutto per te, razza di egoista!» replicò Bruno, urtando Gin con la spalla per guardare bene colui che avrebbe osato togliergli un posto esclusivo sulla terrazza dell'hotel.

«I mangia-carne a tradimento non dovrebbero meritarsi tanto lusso.» Il primo fece una smorfietta contrariata e l'altro rise. Quel bastardo prodigio di Dr. Dre si stava beffando di lui! – «Scherzi a parte, fate attenzione sulla strada di ritorno. Abbiamo visto che è parecchio trafficata.»

Il ricciolino decise di fare il suo gioco. «Tranquillo, torneremo prima delle cinque. Voi continuate pure a fare i piccioncini in spiaggia. Muah-muah

Anderson fece una pernacchia, ma Bruno riattaccò prima che avesse smesso. Che scemo, e dire che al concerto di Lisbona sembrava un ragazzo serio.

«Senti da che pulpito viene la predica» commentò Gin, guardandolo con aria truce. «Ben ti sta, così impari a fare l'idiota.»

«Anche noi siamo due "piccioncini", perché quando c'è l'amore, l'uccello tira» ammiccò strizzando un occhio, alludendo a qualcosa di sconcio.

Lei arrossì. «Peter Gene!»

«Scherzavo. Rimettiamoci in marcia, prima che tramonti il sole. Ho intenzione di godermi questa bella giornata.»



La cena con vista sul mare era stata romantica, entrambi si erano vestiti eleganti e per la prima volta non era stato necessario preoccuparsi troppo della gente intorno a loro. Avevano mangiato, brindato al loro amore e guardato il tramonto sul mare. Tra un bacio, una carezza e un "ti amo", il tempo era passato così veloce che si era già fatto buio. Tra meno di cinque ore sarebbero tornati a casa, ma Bruno era ancora pieno di energia.

Sorta la luna, si erano chiusi nella suite per godersi gli ultimi istanti di quella notte e lui voleva fossero magiche. La vide slacciare il cinturino dei suoi tacchi e se li tolse, lasciandoli vicino la toeletta bianca. I tacchi che aveva erano alti e tenerli per più di quattro ore era come una tortura medievale.

«Quanto ci metti, Gin? Qui c'è qualcuno che ti sta aspettando.»

«Sei diventato troppo impaziente, ultimamente.»

Bruno sogghignò, ciccando la sigaretta vicino il comodino dov'era appoggiato un posacenere di ceramica decorata. Fece in modo che le maniche della sua vestaglia nera non si sporcassero, quando allungava il braccio. «Lo so, tesoro. Mi sto facendo viziare parecchio.»

«Mi hai appena chiamata "tesoro"?»

«Sì, perché fra trentatré giorni esatti sarai mia moglie.»

«Solo su carta.»

«Non importa, mi basta questo e anche di aver convinto tuo padre.»

Lei sorrise, mettendosi la crema idratante sul viso. «Sapevo che avresti tirato fuori il tuo orgoglio per una causa così nobile.»

«Ti ho promesso che lo avrei fatto solo per questo.»

Lui fece l'ultimo tiro di sigaretta, fino a spegnerla. La guardò togliersi lentamente l'accappatoio e vide che sotto era nuda, ma si coprì poco dopo con una vestaglia rosa cipria – quella che aveva conservato per l'occasione. Aveva ancora un velo di abbronzatura che le dava un tocco più vivo.

Bruno era felice di poterla rivedere con quelle forme che tanto amava percorrere con le mani, baciarne ogni singolo centimetro e avere una scusa per inebriarsi di quel buonissimo profumo di tiaré che aveva addosso. Il pensiero lo fece fremere e d'istinto, la sua mano si posò sopra il lenzuolo che copriva il bacino. L'attesa stava iniziando a spazientirlo.

«Quanto ancora vuoi farmi aspettare?»

«Il tempo che ci vuole, papino.»

Al sentire quella parola, il ragazzo si lasciò sfuggire un ghigno malizioso. Ginevra se ne accorse e rigirò completamente il discorso. «Non fraintendere, ti sto solo ricordando che sei padre di due gemelle.»

«Lo so, però... credevo non ti piacesse.»

«Mi è sempre sembrato un nomignolo troppo... beh, erotico. Non volevo che tu prendessi la cosa seriamente.»

«Che peccato, l'idea m'intrigava.» Nel mentre si girava, osservò il suo petto e le sue guance gonfiarsi. «Sto scherzando.»

«Oggi sei in vena di scherzi, eh?» commentò sogghignando, mettendosi seduta di fianco a lui. Si lasciò abbracciare, il muso infilato nell'incavo del suo collo. Quel profumo di Versace era ancora sulla sua pelle, nonostante si fosse fatto la doccia qualche minuto prima. Come faceva Bruno a profumare sempre di buono?

Pensò a Malie e Melissa, chissà se stavano bene. Finché erano fra le braccia di Trudi, poteva stare tranquilla – del resto le sue cognate si erano affidate a lei, come una di famiglia. Quando lei e Bruno si sarebbero liberati degli ultimi impegni, si sarebbero dedicati solo ed esclusivamente alla loro piccola 'ohana. Non pronunciava quella parola da tanti anni. Una parola semplice, ma con un significato profondo. Era difficile crederci, eppure era tutto vero: stava per sposare l'uomo della sua vita e avevano già una famiglia.

I condotti d'aria sopra le loro teste fecero improvvisamente riecheggiare quello che sembrava essere sesso selvaggio, come se già mezz'ora di performance non fosse bastata. La coppia alzò la testa, sentendo i rumori diventare più intensi. Gemevano entrambi, lei di più. Avevano quasi dimenticato che l'altra coppia alloggiava nella stanza accanto, ogni tanto si sentiva il rumore della testiera del letto che sbatteva contro il muro. Fortuna che la camera di Taylor il bodyguard era dall'altra parte del corridoio.

«Certo che quei due ci danno dentro come conigli» commentò Bruno sottovoce.

«Chissà come sarà andata con zia Milena, spero non abbiano litigato.»

«Perché?»

«Lei è sempre stata gelosa di Titi, per questa ragione è scontrosa con tutti i ragazzi che le ronzano intorno.»

«Nel mio caso, invece, è stato tuo padre. Mi ero dimenticato come ci si sentisse di fronte al paparino di turno.»

«Però alla fine ti ha accolto in famiglia.»

«Ripetendomi quanto sia egocentrico.»

Oh, quello era tutto vero. Romantico come Elvis, altruista e talentuoso come Michael Jackson, ma egocentrico come Amadeus Mozart. «Però sei stato bravo, non è per niente facile stare in guardia con uno come lui.»

«Un po' capisco la sua gelosia, vista la sua bella figlia» sogghignò, lasciandole un bacio sul collo. Ecco che ricominciava con quell'atteggiamento da latin lover mancato.

Gin si lasciò abbracciare e poco dopo si ritrovò sotto di lui, pelle contro pelle, uniti sia col cuore che con il corpo. Gin mosse appena il bacino, al sentire le sue braccia intorno al girovita. Il lenzuolo li copriva dalla vita in giù e questo bastava a tenerli legati per tutta la notte, fin quando non sarebbero stati costretti a lasciare quel grande specchio azzurro. Era giusto che anche lei tornasse a casa una volta all'anno, proprio come lui. L'avrebbe seguita e non solo per vedere tutta la costiera amalfitana.

«Sai una cosa? Mi piace l'Italia. È un paradiso terrestre, proprio come me l'hai descritta. Non potevi fare regalo migliore. Adoro i dolci che fanno qui.»

«Solo quelli? E che mi dici della pizza?»

«Insuperabile.»

«Bravo, vedo che lo hai capito.» Fece scorrere l'indice sulla punta del suo naso, osservando il suo sorriso ingigantirsi e rivelare le fossette. «Qui non vedrai mai quella all'ananas.»

«Gin, ti ho promesso che non l'avrei mai mangiata o solo guardata.»

«Spero tu mantenga la parola, altrimenti ti lascio.»

«A un mese dal matrimonio e con due figlie? Così mi fai del male.»

Lei gli fece una boccaccia, e lui rispose con un altro bacio sul collo. La peluria sul labbro superiore e le guance le facevano il solletico, tanto da farle sfuggire un risolino. Quel che non sapeva era che il profumo di tiaré addosso lo stava accendendo come il fuoco in inverno, più del fatto che le sue gambe fossero avvolte intorno a lui.

«Sai dove potremmo andare in vacanza, la prossima estate?» La ragazza scosse appena la testa. «A Positano. Potremmo festeggiare il primo compleanno delle gemelle laggiù, oppure il nostro primo anniversario di matrimonio... ah! Potremmo andare a Capri e vedere la Grotta Azzurra.»

«Non siamo ancora sposati e già pensi al nostro futuro anniversario?»

Lui rise. «Lo so, sto impazzendo.»

«Non vedi l'ora che arrivi novembre, vero?»

Sì, decisamente. Fremeva dall'emozione di poter vedere quella meraviglia dai capelli castani con l'abito da sposa e il bouquet fra le mani, ammirarla mentre percorreva la navata accompagnata da suo padre. Bruno era più che sicuro che sarebbe stata bellissima se non di più. Lo sognava tutte le notti.

Le diede un bacio e la sovrastò col proprio corpo, ma Gin lo interruppe. Prima di fare l'amore, doveva ancora aprire il suo regalo di compleanno. Allungò la sua mano e lo prese dal comodino a sinistra, dove c'era ancora il cesto dello champagne vuoto. Gli porse una busta rossa e lui si mise su a sedere, osservandolo dubbioso. Sapeva che il suo regalo di compleanno era stata quella gita fuori porta, non se ne aspettava un secondo e un terzo.

«Che cos'è?»

«Non lo so, prova ad aprirlo.»

Curioso, aprì la scatola più piccola e fece uscire un piccolo anello d'acciaio dov'era appeso un corno rosso a peperoncino. Lo aveva visto troppe volte nelle bancarelle e nei negozi di souvenir, doveva essere un simbolo tradizionale partenopeo. Averlo in mano era una sensazione strana, come se tutta la fortuna fosse concentrata in quella specie di peperoncino rosso. Gin gli spiegò che si trattava di un curniciello, un amuleto tipico napoletano. Quello che aveva scelto era un portachiavi né troppo piccolo né troppo grande – abbastanza da occupare tutto il palmo della mano.

«Come sapevi che mi serviva un portachiavi nuovo per la Cadillac?»

«Lo avevo visto dietro alla porta di casa, era tutto ingiallito e consumato. So quanto sei perfezionista e ho voluto anticiparti.»

Bruno se lo rigirò fra le dita, inarcando le labbra in un sorriso dolce. Era carino, non lo negava, e in effetti un po' di fortuna serviva. Quando riaprì la busta rossa, scoprì un secondo regalo. Posò il portachiavi sul letto e tirò fuori l'altro regalo, osservandone la forma rettangolare. Lo scartò velocemente e con la curiosità che saliva sempre di più. Quando scoprì il disegno sopra la scatola bianca, spalancò gli occhi: non riuscì a credere che Gin gli avesse regalato l'ultimo iPhone, proprio ora che doveva cambiarlo. Doveva averlo letto nel pensiero.

Alzò il coperchio e tirò fuori il telefono, lo girò e osservò l'oro luccicare sotto la luce della notte. Certo che lo conosceva davvero bene. «Non avresti dovuto spendere così tanto per me.»

«Lo fai anche tu, direi che adesso abbiamo finalmente regolato i conti.»

Lui nascose un sorrisetto. Per lui regolare i conti significava tutt'altro, almeno con lei.

«Grazie, era proprio quello che mi serviva.»

«Vuoi cambiarlo adesso prima di partire?»

Lui scosse la testa, rimettendo l'iPhone nella sua scatola e nella busta rossa assieme al portachiavi. «Ci penserò domani, ora ho bisogno di coccole.»

Tornarono nella posizione iniziale, lui sopra e lei sotto. Quel cornetto lo avrebbe portato con sé il giorno della partenza per Sydney. Mancavano tre giorni esatti, in quell'arco di tempo avrebbe dovuto godersi gli ultimi momenti a casa con lei.

Gin gli accarezzò il petto, sfiorando i due nei all'altezza dello sterno. Piccoli, ma delicati. Quando indossava le collane d'oro e quel ciondolo rotondo d'oro rosa, era difficile vederli. Toccandolo, un senso di tristezza si fece strada in lei. Doveva proprio partire per quel mini tour? Certo, erano solo quattro date. Mr. Jenkins gli aveva promesso libertà fino all'anno prossimo, in modo che avrebbe potuto dedicare tempo alle sue chiquititas e alla sua bebita. Quei nomignoli la fecero sorridere.

«Perché, hai paura che tutto questo possa finire?»

Lui appoggiò la fronte contro la sua. «No, non più. Dopo la nostra ultima notte, ho capito cosa voglio davvero: restare al tuo fianco fino a quando le stelle non si spegneranno.»

Lei sollevò una mano e iniziò a percorrergli il contorno di un sopracciglio. L'odore del collo di lui, il respiro calmo e silenzioso, le braccia che la stringevano, il seno senza costrizioni contro il suo petto... non poteva desiderare di meglio in quel momento. Sentiva, però, che non bastava.

«Dimentichi un altro regalo.»

«Mi hai già regalato un iPhone, un corno rosso e una cena buonissima, mi hai permesso di vedere il tuo mondo. Quanti altri regali vuoi farmi?»

Lei si slegò il nodo della vestaglia rosa cipria, guardandolo mordersi il labbro eccitato. Si vergognò, sospirando tremante: era la richiesta più audace che gli avesse mai fatto. Era stato lui ad insegnarle tutto ciò che riguardasse l'Eros, ma sentiva di non essersi mai aperta in maniera così emotiva.

«Manca solo un'esperienza indimenticabile, come tu hai fatto con me. Puoi fare di me quello che vuoi» sibilò lei con voce tremante, sentendo la mano libera e calda sotto la seta decorata.

Poteva fare di lei tutto quello che voleva, e lui aveva in mente mille e uno modi.

Voleva che fosse un'esperienza indimenticabile per entrambi, come giusto che fosse. L'avrebbe baciata, toccata... avrebbe contemplato quei seni materni con le mani, venerato il profumo della sua pelle candida. Bruno affondò il viso nell'incavo tra i seni, baciandoli in segno di apprezzamento. Gin si aggrappò ai suoi riccioli, il caldo respiro che le aggrinzò la pelle fino a farla rabbrividire. Un istante dopo e le vestaglie di entrambi erano a terra.

Con lui aveva imparato ad amare sempre di più il suo corpo, ad apprezzare il valore di qualunque imperfezione – che fossero le maniglie dell'amore o la sua pelle bianca come la farina. Bruno l'apprezzava per quello che era e non la faceva mai sentire male per le dimensioni del suo fisico. Lo venerava come una creazione divina, lo contemplava fra un bacio e una carezza.

Lui vedeva la meraviglia anche nelle piccole cose, proprio come lei. Bastava la sua presenza ad appagarlo, era stato così fin dal primo momento. Sapeva che Gin amava la posizione classica, così nobile e pura, che le permetteva di vederlo negli occhi mentre si univano con il corpo e con la mente. L'amò come la prima notte in quella vecchia stanza, l'ammirò come la notte sulle spiagge bianche delle Bahamas.

Quell'unione spirituale e fisica li trasportò fuori da quell'universo monotono e scialbo, in quello che veniva definito il paradiso. Le aveva promesso di amarla ogni istante, di proteggerla e farla ridere. Lo aveva fatto nella maniera più romantica, un episodio che tutti e due avrebbero ricordato per tutta la vita.



N.A.

Buon sabato a voi, cari gattin* blu. In primis mi scuso per il ritardo, sapevo di averlo programmato per giovedì, ma non ero convinta della parte finale. Non avevo previsto la scena erotica, poiché il dibattito genero-suocero ha già rubato parecchio la scena. Strano, ma vero, ma mio padre la pensa esattamente come il signor D'Angelo (motivo per cui l'ho reso caratterialmente simile a lui :P).

Con questo capitolo si conclude l'Amalfi-Gate, ma il bello ancora deve venire. Il successivo sarà quello che i fan dei #matandy aspettavano da 12 anni ad Azkaban, e io lo so perfettamente. Cercherò di finirlo per fine mese, in modo tale da finire la TBR di luglio. Sappiate che il matrimonio dei #brinevra è vicinissimo, e ho intenzione di prendermi tutto il mese di agosto per revisionare la scaletta e aggiungere qualcosina in più. Come disse il vecchio saggio, "è tutto prontoh!"

Detto ciò, vi lascio con una carinissima immagine AI dei #brinevra sulla costiera amalfitana. Chissà se Bruno Mars ci andrà mai davvero, e spero tanto nel periodo in cui vado anch'io. Forse mai... ghaaahh, che ingiustizia. (┬_┬)

- Gloria -



~♥~

𝑨𝒏𝒅 𝒘𝒉𝒆𝒏 𝑰'𝒎 𝒃𝒂𝒄𝒌 𝒕𝒐 𝑨𝒎𝒂𝒍𝒇𝒊, 𝑰 𝒇𝒆𝒆𝒍 𝒊𝒕... ♥

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