11 - Fighting Demons || Geoffrey
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"Don't ever say it's over if I'm breathin'
Racin' to the moonlight and I'm speedin'
I'm headed to the stars, ready to go far... I'm star walkin'"
♥
» Lil Nas X - Star Walkin' «
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Fine luglio, 2022
L'afa della città era asfissiante, ma Geoffrey aveva bisogno di respirare aria che non sapesse di disinfettante. Dietro di lui c'era un aiuto sociosanitario, lo sorvegliava in caso di malori o altri attacchi di panico. Aveva da poco finito di lavare i piatti, tra poco avrebbe dovuto continuare il programma terapeutico di gruppo e la seduta quotidiana dal suo personale psicoterapeuta – scelto dallo stesso Dr. Dre. Era stato lui a pagare tutto, con l'aiuto di Marsh e affini.
La riabilitazione gli stava costando cara, ma aveva deciso di mettersi in gioco e tornare ad essere se stesso. Le prime due settimane erano state un vero inferno, complice anche quella forte ansia che gli era venuta. Spasmi, occhi spiritati e rabbia incontrollata, aveva rischiato di non uscirne più. Solo una volta lo avevano tenuto a bada con un tranquillante, poi niente più. Non aveva mai creduto che combattere l'ansia fosse stato peggio del combattere per i propri diritti.
Non aveva più paura di fare coming out, era ad un passo dallo sconfiggere definitivamente la sua antropofobia. L'unica sua ansia era quella di ricongiungersi con sua madre, dopo che lo aveva ignorato e fatto pesare la morte di suo padre. Non si sentiva pronto ad affrontare il prossimo passo di quella terapia, ma se voleva liberarsi di quei demoni, doveva.
«Caldo?»
Una voce lo colse di sorpresa, alzò la testa per osservare meglio l'interlocutore: riconobbe la manicure d'argento. La donna aveva i capelli rosa e un trucco bellissimo, non portava i classici abiti vittoriani stravolti o attillati che indossava durante una performance. L'abitino che aveva era sobriamente adorabile.
«Ciao... Leah» la salutò timido, guardandola sedersi accanto a lui sulla panchina. Non riusciva a chiamarlo per nome, quando lo vedeva nei panni del suo alter ego femminile.
«Come sta andando la riabilitazione?»
«Uno schifo, mi sento tutte le ossa rotte.»
«Mi pare ovvio, il tuo corpo era dipendente da quella merda.» Era stranissimo sentire Leah dire brutte parole, quando in realtà era la più educata di tutto il gruppo – soprattutto coi suoi spasimanti.
Geoffrey inalò il profumo della sua pelle, un mix di frutta che gli accese i sensi. Gli era mancata, sarebbe stato falso e ipocrita dire il contrario.
«Per quanto ancora dovrai stare?»
«Fino al prossimo check-up del medico, deve assicurarsi che la terapia stia andando bene prima di cominciare la fase di reinserimento. Dovrò essere assistito da un tutore legale, siccome dovrò cominciare ad incidere il mio primo EP... oh, cielo, che ansia.»
Leah sorrise, Geoffrey si sfiorò il septum con un dito. «Mi dispiace che non sia potuto venire al matrimonio di Hayley e Phil. Avrei tanto voluto vedere quella ragazza in abito da sposa.»
«Ho scattato qualche foto durante il ricevimento, alla fine hanno scelto Santa Barbara per il servizio fotografico.»
Lui aveva un abito semplice ma elegante – probabilmente consigliato da Bruno – e lei con un dolcissimo abito da principessa ricamato a mano. La costa limpida di Santa Barbara dietro di loro regalava un'atmosfera romantica, il pancione di lei ben in risalto e il sorriso sulle sue labbra. Una biologa affermata futura madre e la spalla della punta del diamante degli Hooligans, era una coppia bellissima da ammirare.
Hayley Jones ormai non era più solamente una 'stan' di celebrità. Quando parlava, rideva e sfogliava un inserto di Vogue, era ancora la ragazza dai sentimenti semplici che tutti loro avevano conosciuto – quella che parlava di quanto le piaceva una coppia piuttosto che l'altra o che si imbarazzava immaginandosi di fianco a Shawn Mendes. La ragazza dal viso pulito e dall'animo nobile, seppur fragile.
«A quanto pare sono gli ultimi a sposarsi in chiesa, gli altri due soltanto quello civile.»
Geoffrey strabuzzò gli occhi. «Andy si risposa?!»
«Parlavo di Bruno e... di noi.»
S'incupì leggermente, togliendosi gli occhiali da vista per pulirti con imbarazzo. Che Leah avesse seriamente intenzione di sposarsi a Las Vegas? Non erano passati neanche sei mesi dall'inizio della loro relazione e neanche l'avevano resa ufficiale.
«Tuo nonno approverebbe?» chiese di punto in bianco, timoroso della sua risposta.
«Già gli piaci dalla foto. Dice che hai uno stile strambo, ma dal sorriso ha visto che sei un bravo ragazzo.» Gli prese la mano. Un tocco. Un semplicissimo tocco e tutto intorno a loro si dissolse. «A lui importa che io sia felice e con te lo sono, mi ha detto che vuole conoscerti.»
I palmi delle sue mani erano sudatissimi, dovette separarsi da lei e asciugarseli sulla maglietta nera decorata che aveva addosso. «A proposito, ho sentito che fai alcuni lavori socialmente utili per prepararti alla fase di reinserimento.»
«Pulizia dei bagni nei giorni dispari, pulizia delle spiagge e scrittura creativa nei giorni pari e il weekend lo passo a truccare e raccontare fiabe ai bambini con la sindrome di Down.»
A Geoffrey erano sempre piaciuti i bambini, specialmente i neonati. La cosa più bella era il sapere che non si era tirato indietro e aveva sfruttato la sua seconda passione per il bene comune. Chiunque lo conosceva di persona, sapeva bene quanto fosse esuberante ed entusiasta nel conoscere nuove persone.
«Non hanno esitato a stringermi la mano e farsi fare le ali da farfalla sulla faccia, sono dei bambini dolcissimi» disse successivamente, gli occhi lucidi e la voce leggermente incrinata. «Non è facile trattenere le lacrime, soprattutto dopo il cartellone che mi hanno fatto.»
Leah inarcò un sopracciglio. «Che cartellone?»
«Lo hanno disegnato e colorato loro, l'ho appeso nella mia stanza. Quando uscirò, lo porterò con me.»
Leah non riuscì a non trattenere un sorriso. Ogni giorno restava sempre più esterrefatto di come quella relazione con lui lo stesse segnando nel profondo, di come quel sentimento stesse diventando via via sempre più profondo. Riviveva il primo bacio nella camera d'ospedale ogni notte e sorrideva, trovava un senso di pace dentro di sé e sapeva che anche Geoffrey provava la stessa cosa.
Il momento fu interrotto da una chiamata di WhatsApp. Prese il telefono e aprì la schermata.
«Prontoooo...? Geffyyy!» La voce effemminata ma sexy di Petunia che sbagliava sempre il suo nome.
«Petty, come sei colorata!» esclamò con un enorme sorriso. Quanto gli era mancata!
«Dicono che quest'anno il fluorescente va di moda, e allora perché non approfittarne?»
«Sei bellissima» ammiccò con carisma.
«Così vuoi farti perdonare, sosia di Juice? Sai che sono arrabbiata con te?»
Non riuscì a seguirla. «Una coppia arcobaleno è sbocciata e non me lo hai detto.»
«Sono sempre stato innamorato di Leah, solo adesso ho avuto il coraggio di dirglielo. Mi dispiace averti delusa, amore.»
«Accetto di restare nella friendzone, ma solo perché sei tu.»
«Lo sai che ti adoro, Petty, sei la mia 'best queer friend forever'» e le fece il gesto del cuore con entrambe le mani. «Tutte voi ragazze!»
«Se lasci Leah, chiamami!» esclamò Violet da dietro la parrucca di Petunia, puntando una mano fra l sue cosce magre e depilate. «Farò anch'io a meno del tucking.»
«Andateci piano o gli verrà duro come l'altra sera!» Leah sogghignò, notando Geoffrey arrossire da dread a piedi. La situazione lo stava eccitando veramente, e l'episodio dell'anno scorso non aiutava per niente. Nessuna di loro lo aveva dimenticato.
«Geoff!» A guardare l'obiettivo, il ragazzo si stupì nel guardare un bambino biondo dal sorriso sdentato come suo padre.
«Ciao, ometto!» lo salutò, agitando appena la mano. Ray aveva in testa la parrucca bionda di Violet, quella che si metteva per le feste di addio al celibato – era la favorita del gruppo dopo Leah. «Hai intenzione di seguire tuo padre anche nei panni di un DJ prescelto?»
«A me piacciono i colori e più ne ho addosso, più mi gaso! Noi diciamo così.»
«Conosco bene il linguaggio dei Millenials, piccolo Ray.»
«Papà ha detto che guiderò la sua macchina al prossimo House Of Vans!»
«Mi sembra un tantino geloso di quella Bel Air.»
«L'ha fatta guidare a Titi, quindi penso sia geloso dell'altra sua macchina.»
Anderson apparve improvvisamente dietro le spalle di suo figlio. «Geoff, sai che ho installato il meccanismo sotto le sospensioni? Così può saltare come quella di Doc.»
«Fico! Non vedo l'ora di fare un giro per la PCH saltellando con Snoop Dogg in sottofondo.»
«Pensa a guarire, bello. Abbiamo tutto il tempo del mondo per sentirci come in Straight Outta Compton.»
«Ma tu sei di Oxnard» replicò Ray.
«E quindi?»
«Non dovresti fare il gangster.»
«Raynold, stai rischiando la cena.»
Ray gli fece una boccaccia e Andy rise, rimanendo comunque in guardia. «Tanto Petunia mi farà mangiare lo stesso.»
Geoffrey assistette a quella scena e rise di gusto, osservando l'espressione di Anderson prima corrucciata, poi sorridente. Ray lo adorava e Andy era un bravo padre, su questo non si discuteva. Gli mancava essere in mezzo a quei colori, gli ombretti e le parrucche sfarzose.
«Sai, mi piace questo tuo lato paterno, Andy. Non sei mai severo e sai come farti rispettare, usi le parole giuste e conosci i punti deboli di tuo figlio» commentò Leah.
«All'inizio non avevo tanta pazienza, ho imparato col tempo e devo ammettere che ho fatto progressi. Potrei anche fare l'insegnante.»
«E cosa insegneresti? Suonare la batteria o l'arte dei doppi sensi?»
«Quello l'ho già insegnato alla mia ragazza.»
Entrambi repressero un verso. Che sfacciataggine!
«Sei fortunato, Gey. Hai un amico etero niente male! Sai, Candy ha confezionato una parrucca per Pee Wee. Devi vederla, sembra la criniera di un leone.»
«Vuoi ingigantire il peso sulla testa?»
«Prima o poi sarebbe arrivato il momento.» Conoscendo le sue tendenze, Andy avrebbe abbinato la parrucca anche al suo outfit. Come se già indossare camicia e bermuda dalla stessa fantasia bon fosse già abbastanza sfarzoso. «Quando uscirai da lì, inaugureremo la nuova Thunderbird insieme.»
«Non vedo l'ora, cazzo. Ho sempre voluto salire su una di quelle macchine vintage! Dr. Dre non me lo ha mai lasciato fare.»
«Lascia perdere Doc, lo faremo io e te alla faccia sua!»
«Guarisci presto, amore mio. Ci manchi tantissimo!» Violet e Petunia salutarono la fotocamera con un bacio, il tipico saluto finale di ogni performance al Mattachine.
«Mi mancate anche voi, mie regine colorate. E anche voi due, Andy e Ray.»
La videochiamata si chiuse e Leah bloccò il cellulare. Geoffrey si sfiorò uno dei dread azzurrognoli imperlati con fare nervoso; si vedeva il reggiseno di pizzo dalla spallina calata del vestito, rosa cipria come il suo ombretto. Il ragazzo inspirò ed espirò nervosamente. Continuava a sentire le guance che ardevano feroci, senza scampo. Leah lo stava fissando in cerca di un contatto fisico, probabilmente avrebbe chiesto il motivo di tutto quel nervosismo. Da quando si erano messi insieme, aveva sempre paura di fare una mossa sbagliata e risultare... inopportuno.
«Geoffrey...» Si sentì sfiorare le dita della mano sinistra, quella appoggiata sul legno duro della panchina. «Ricordi l'ultima sera che ci siamo parlati?»
«Al Mattachine?»
«Sì.»
Ancora non capiva come fosse riuscito a reggere tutte quelle emozioni. A quel tempo aveva faticato persino a guardarlo in faccia, escludendo l'assenza del tucking e il solo ricordo gli provocò una fitta al bassoventre. «Ti eri tolto la parrucca.»
La sua risposta lo colpì in pieno viso, ma riuscì a rimanere serio. «Quando ti chiesi se ti piacevo più uomo o donna.»
«Non ti avevo risposto, a dire il vero. La tua però era una domanda stupida, Lee. A me piaci perché sei un uomo e una donna, come Ranma.»
«Lui cambiava sesso a contatto con l'acqua, io al calare e sorgere del sole. L'ho fatto per diciotto anni e non te ne sei mai accorto.»
Geoffrey lo rammentò soprattutto per l'intensità del suo sguardo. «Se me lo avessi detto subito, ci saremmo risparmiati tutto questo.»
«Ne è valsa la pena, invece. L'attesa ha ripagato.»
Si sentì improvvisamente a disagio e cercò di fermare il rossore. Dichiarazioni così sdolcinate lo mettevano sempre in imbarazzo, peggio se pronunciate da un uomo. Gli sembravano troppo intime, come parlare di sesso coi propri genitori. Lui stesso si faceva un'overdose di zucchero e panna quando scriveva rime d'amore, ma riusciva a produrli facilmente solo quando era sola. Geoff preferiva che nessuno lo vedesse, mentre si scioglieva al pensiero di provare un'emozione simile.
«La prima volta che ti ho visto ho sentito un forte batticuore, qualcosa che solo provandolo puoi saper descrivere. Mi sono sentito come te: timido, fragile... L'ho capito il primo giorno al Mattachine. Da allora ti ho inseguito col cuore e non mi sono arreso.» Divenne serio, accorciando di più la distanza. «Ricordo quando tu e Clayton vi siete baciati nel bagno degli spogliatoi, è un ricordo che ancora adesso sto cercando di rimuovere. Faceva male amarti, ma non avrei mai potuto smettere. I miei sentimenti erano sempre lì che aspettavano di uscire.»
Geoffrey aveva iniziato a intuire dove Leah stesse andando a parare, ma quando lo vide mettere la mano in tasca per tirare fuori una scatolina, trasalì. «Non è troppo tardi per rimediare, vero?»
Trovandosi senz'aria, si portò una mano sulla bocca. Iniziò a fare di sì con la testa, gli occhi che diventavano cascate. Sarebbe scoppiato a piangere da un momento all'altro. «Geoffrey Young, vuoi essere il mio ragazzo?»
«C-cazzo, sì! Mille volte sì!»
Tirò l'anello fuori dalla scatola, cercandogli l'anulare della mano sinistra. Geoffrey guardò prima il gioiello, poi la figura di Leah accanto a lui. Lei sapeva nascondere bene il suo wig-cap, usare la tecnica del tucking e armonizzare la voce per omaggiare alla perfezione Mama Monster Gaga. Avrebbe recitato volentieri la parte della fidanzata eterea, educata e dolce, che aveva un sorriso da regalare a chiunque... L'uomo dietro la maschera era un attore nato.
Portò una mano dietro la sua nuca, sfiorando i suoi dread azzurrognoli e biondi, e si avvicinò per baciarlo. Lui si tirò indietro, le guance più rosse di due pomodori maturi. «He... hey, ci guardano» sibilò, guardandosi attorno. Nessuno si era accorto della presenza di una coppia arcobaleno seduta su una panchina a scambiarsi effusioni.
Leah sorrise, rigirandosi un dread biondo fra le unghie finte. «Non dovresti vergognarti di mostrarti in pubblico con un Ranma Saotome truccato di rosa.»
«Ci sto ancora lavorando, però ho ancora un po' di paura.»
«Proviamo a farla passare, allora.» Gli raccolse il viso con delicatezza, come fosse fragilissimo e lo baciò a fondo, con una passione tale da rubargli ogni molecola di ossigeno. «Quando finirai la riabilitazione, verrai a vivere con me e mio nonno e quando avrai inciso il tuo EP, affitteremo un appartamento solo per noi due. Che ne pensi?» ansimò lei sulla bocca di lui.
«Non lo so» sospirò, guardandola intensamente con gli occhi lucidi.
«Ora che tua sorella è sposata, non puoi convivere con due ragazze alle prese con...»
«Quelle due non hanno mai usato mezzi artificiali per fare sesso» lo anticipò, liberandosi di quell'abbraccio troppo affettuoso. Sapeva che sua sorella odiava prendere in mano quei cosi, figuriamoci usarli. «E non penso lo faranno, perché conosco Claire.»
«Non sarebbe male provare ad usare uno di quei cosi vibranti.»
«Ugh, no, per l'amor di Dio!» sogghignò, immaginando la scena. La prima volta che ne aveva visto uno gli aveva fatto senso, non lo aveva mai usato davvero. L'idea lo aveva un po' fomentato all'inizio, ma poi aveva lasciato perdere. Molto meglio l'originale.
Geoffrey rialzò la spallina calata con delicatezza, prendendosi del tempo nel guardare il tatuaggio sul suo braccio, un insieme di decorazioni barocche e parole in greco. Aveva sempre avuto una fascinazione per la cultura europea: la Grecia Antica, l'era vittoriana e la Belle Époque. L'inchiostro su pelle bianca era affascinante da vedere, ogni dettaglio era stato studiato per sposarsi alla perfezione col bianco della sua carnagione.
Trattenne il fiato, mentre Leah percorreva la linea deformata della sua cicatrice con due dita. Toccarsi era normale tra persone che si volevano bene. Eppure in quei frangenti sembrava esserci qualcosa di molto più profondo, una sensazione che aveva quasi dimenticato.
«Ti vedo più sereno, adesso. Sei anche più carino da sobrio.»
«Sto bene fisicamente, ma non ci sto ancora con la testa. Ho ancora quegli incubi di notte e ripenso alle parole di mia madre.»
«Devi farti coraggio, è una fase che si può superare insieme. Tua madre capirà e ti accetterà così come sei.»
Inizialmente anche lui era convinto di quelle parole, che l'influenza di suo padre l'avesse in qualche modo deviata. Non era in grado di dimenticare ciò che aveva detto a lui e sua sorella dopo l'incidente, il fatto che se ne fosse andata senza guardarlo più in faccia. Era triste per averla persa, deluso per aver scoperto il suo lato più tossico, ferito per averla ascoltata.
Un fischio interruppe quel momento, l'ora delle visite era finito.
«Vedrai, piano piano tutto diventerà più facile. Non ti accorgerai più di nulla.»
«Pensi che possa farcela? Anche se sono in una specie di manicomio?»
«Geoff, ti stai solo curando. Non sei un malato mentale.» Gli prese amorevolmente le mani, la manicure d'argento che scintillava meravigliosamente fra il contrasto delle loro carnagioni. «Riuscirai a superarlo, è questione di tempo. Prima di addormentarti, prova a fare il mio nome.»
«Quale dei due?»
«Di colui o colei che ti rende felice.»
Gli lasciò un ultimo bacio sulle labbra e si alzò dalla panchina, Geoffrey la guardò andare via, agitando appena la mano. Era lontana solo pochi metri e già gli mancava.
L'unico svago che Geoffrey poteva permettersi prima di una qualunque sessione di terapia era lanciare un paio di dadi rossi sul pavimento, la radio portatile di fianco che ad ogni ora trasmetteva Save Your Tears dei The Weeknd.
Più l'ascoltava, più si rendeva conto che quelle parole descrivevano perfettamente il suo stato d'animo dopo Clayton. Si era ripromesso di non pensarci più, ma dopo l'ultima sessione dallo psicologo era stato costretto a ripercorrere quella brutta fase della sua adolescenza. Quel frammento di philofobia che aveva dentro derivava dall'ultima volta che si erano visti. Aveva già immaginato il matrimonio a Las Vegas, come un qualunque adolescente avrebbe sognato ingenuamente, nonostante il terrore di legarsi a qualcuno per sempre.
Il disturbo ossessivo compulsivo che derivava dalla sua paura delle persone pareva un caso scientifico: dover somigliare ad un'altra persona per farsi apprezzare, fare ciò che voleva senza dover preoccuparsi dei pregiudizi. Di solito chi era perfezionista aveva questo genere di problemi, e non chi temeva le parole della gente.
Secondo fattore: l'insonnia e le periodiche paralisi del sonno, il secondo motivo per cui il suo ex psicoterapeuta gli aveva prescritto lo Xanax. Per colpa degli incubi, il suo sonno si era azzerato. Sognava demoni incappucciati, la figura cicciottella e rugosa di suo padre. Fuggire non era facile, specialmente se prendevano quelle sembianze.
Parole piene di odio. "Dovresti vergognarti! Io m'impegno al massimo per conservare la tua verginità e tu hai osato trasgredire la natura!"
Grida colme di rabbia. "Non osare mai più metterti contro tuo padre! Sono io che ti do da mangiare, pago io la tassa scolastica e sono stato io a vestirti come un bambino modello!"
Il suo sguardo schifato. "Quel maledetto ti ha depistato! Ti ha contagiato la malattia dei gay!"
La dignità che poco alla volta si sgretolava... "Tu e tua sorella siete la vergogna di questa famiglia. Dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto per voi, ci ringraziate così?"
La paura che era seguita dopo... Lo stesso giorno in cui suo padre aveva scoperto di lui e Clayton, le urla di dolore mentre lo puniva fra uno schiaffo e una spruzzata di acqua santa. "Mi hai deluso, Geoffrey."
Il ragazzo strinse gli occhi per non piangere. Se un sociosanitario lo avesse visto in lacrime, probabilmente non sarebbe più uscito da quella stanza. Doveva resistere fino all'ora della seduta quotidiana dallo psicologo. Lanciò i dadi e finirono a pochi centimetri dalle scarpe di un uomo di mezz'età abbastanza robusto. Alzò la testa, incrociando due occhi neri come la pece in un viso consumato dall'alcolismo.
«Hey, Marley. Stai bene oggi?»
Nicholas J. Scott era l'unico che lo chiamava solo "Marley", omettendo il suo cognome che componeva il suo nome d'arte. Glielo aveva affibbiato dopo aver visto i suoi dread cresciuti a causa del tempo e che sciolti, sembrava l'acconciatura di Bob Marley.
Si affrettò ad asciugarsi le lacrime col palmo della mano. «Ciao, Nick. Non... ti avevo visto.»
«Ancora con quei dadi?»
«Li lancio per noia.»
La prima volta che aveva visto Nick in faccia, era stato quando aveva tirato i dadi sul pavimento della clinica il terzo giorno di ricovero. Erano andati a sbattere violentemente contro la punta del suo anfibio destro, mostrando il numero dieci – sei e quattro – e il tizio gli aveva chiesto perché lanciasse continuamente i dadi a terra.
"Per capire come andrà la mia giornata" aveva risposto, evitando il suo sguardo torvo.
"Non dovresti farti manipolare dalla Casualità. Il dado non sempre ti consiglia scelte positive."
Da come aveva sputato acidamente quelle parole, sicuramente anche lui aveva letto quel libro.
«Perché non chiacchieri un po' con un amico, anziché perdere tempo con quei cubi?»
Il ragazzo si alzò da terra e lo seguì, intascandosi i dadi. Nick amava stare all'aria aperta a guardare gli altri ragazzi della comunità svagarsi in mille modi, chi facendo lavori socialmente utili e chi leggendo. C'erano ex tossicodipendenti che cercavano di ristabilire contatti sociali e altri che ancora avevano paura e restavano nelle proprie stanze, come ad esempio Geoffrey. Se non avesse mai seguito le parole dello psicoterapeuta, sarebbe stato uno di quei reclusi che continuavano a lanciare le monete sul muro per centrare il bicchiere di carta usato.
«Nick... tu credi in Dio?» gli domandò senza pensare.
«Certo, come credo nell'amore eterno e nella reincarnazione.»
«E credi anche nella Casualità?»
«Il caso non esiste, Young Marley. Ho capito fin dall'inizio perché usi quei cubetti rossi, ho letto anch'io The Dice Man alla tua età.»
Geoffrey si voltò verso di lui e tra una confessione e l'altra, svelò involontariamente la causa della sua riabilitazione dopo la sua overdose di Xanax. La prima volta che lo aveva letto aveva tredici anni, scoprendolo fra i vecchi libri di suo padre. Lui leggeva tantissimo, specialmente le opere più difficili, insolite e i classici come Guerra e Pace o Il conte di Montecristo.
"Il Dado è Dio."
Dopo aver letto quel passaggio, aveva deciso di seguire il suo esempio. Era andato avanti per tanti anni, fino alla sua ultima scelta: continuare la terapia di Xanax da solo o smettere, come il suo ex psicoterapeuta gli aveva bellamente suggerito. La sua antropofobia lo aveva spinto a cedere alla Casualità, come prendere la mano dell'angelo caduto e seguirlo lungo la discesa negli Inferi.
«Quindi, sei andato in overdose perché te lo ha detto il dado?»
«Ero indeciso e ho fatto in modo che scegliesse lui al mio posto. Se il numero fosse stato pari, avrei gettato le pillole nel cestino. In caso contrario, avrei continuato.» Picchiettò l'indice sulla sbarra di metallo davanti a loro, quella che delineava la struttura dal cortile. «L'ho lanciato sul mobile della cucina ed è uscito il numero tre.»
«Il Dio Dado è un cazzo di manipolatore, non avresti dovuto affidarti a lui.»
«Lo so, per questo sono finito qui. Ho lasciato che il dado scegliesse il mio destino e non ho tenuto conto delle conseguenze.»
L'uomo rispose alla sua sincerità. «Per carità, a volte ci troviamo in situazioni in cui non sappiamo scegliere. Ci sentiamo anche in colpa, qualsiasi cosa accade dopo.»
«Tu hai mai provato una sensazione simile?»
«Tante volte, e la peggiore è stata quella di darmi all'alcol. Credimi, Young Marley, vorrei poter tornare indietro e fermare il me stesso del passato. A quest'ora sarei stato meglio di adesso. Mia moglie ha provato a fermarmi, ma ormai ero caduto in quella spirale e mi cacciavo continuamente nei guai.»
«E da quanto sei qui?»
«Sette mesi, fra qualche giorno tornerò finalmente a casa.»
Geoffrey era contento di sapere che Nick avrebbe presto lasciato la clinica, ma un po' meno sapere che forse non lo avrebbe più rivisto. In quelle settimane era stato di compagnia durante i lavori socialmente utili, gli aveva perfino insegnato ad usare la pittura sul viso per far divertire i bambini. Sarebbe stato un buon modo per riconciliarsi con la sua figura paterna – l'alcolismo lo aveva spinto a commettere violenza domestica – e vedere in lui un potenziale figlioccio.
Da un lato aveva rivisto in Nick il lato buono e premuroso di suo padre, forse per quello gli dispiaceva l'idea di perderlo di vista dopo la riabilitazione. «Con tutti i pazienti che ci sono, perché hai voluto parlare proprio con me? Non sono chissà chi.»
«Perché sai ascoltare, sei divertente e hai anche una bella fidanzata.» inarcò le labbra, ma poi spense il sorriso. «Tranquillo, non ci proverò con lei.»
«È un "lui", in realtà. Si chiama Liam nella realtà. Di notte fa spettacoli al Mattachine, il locale gay della West Hollywood.»
«Ti ha regalato lui quella fedina d'argento?»
Geoffrey allargò le dita per farglielo vedere meglio. «S-sì... Poco fa, quando stavamo parlando.»
Nick osservò la sua mano sorpreso. Ciò spiegava tutta quella felicità.
«Non sei indignato?»
Lui scoppiò in una risata divertita. «Ci si indigna quando un uomo picchia una donna, non per un ragazzo che indossa la gonna e un paio di tacchi alti. Si vede proprio che sei innamorato.»
«Come fai a...?»
«Te lo si legge in faccia, Marley. E poi sono stato giovane anch'io. A volte chi è fuori sa meglio di chi vive in prima persona.»
Quello che aveva detto lo psicoterapeuta, alla fine, non era poi così discostante dalla realtà. Le persone potevano guardare fuori molto meglio di quanto si potesse vedere da soli. Loro riuscivano a vedere tutti i difetti e la vittima, quando provava un certo tipo di sentimento per qualcuno, o qualcosa, non ci vedeva mai nulla di sbagliato. La vittima era sempre cieca, le sue mani non avevano sensibilità – ciò che toccava, non sentiva – e tratteneva il respiro fino a lasciarsi cadere all'indietro.
Non poteva retrocedere, per tutto il percorso pregava sempre di non precipitare. Calmare l'ansia senza una pillola o una goccia stava diventando via via più difficile, il suo psicoterapeuta diceva di pensare oggettivamente prima di poter prendere in mano un frammento di droga. Sarebbe morto sul serio, e lui aveva già visto l'oscurità che si celava dietro la morte: fantasmi neri, il gelo sulla pelle e la vista annebbiata.
«Mi sono bastati quei due minuti per capire quanto i tuoi amici ti vogliano bene, t'invidio tanto per questo. Io non ho mai avuto amici veri.»
«Ne hai trovato uno, però: un ex tossico aspirante rapper che tira un paio di dadi» scherzò, passandosi le mani fra i dread.
C'era stato un altro passaggio di quel libro che lo aveva devastato. "Il grande vantaggio di crescere in una cultura di violenza è che, in fondo, non ha importanza chi si uccide." Una frase che riassumeva perfettamente la sua infanzia e adolescenza fra le strade spericolate di Compton. Nick non aveva idea che fosse nato lì, benché meno fosse pansessuale – non sapeva neanche cosa volesse dire, ma Geoffrey glielo aveva spiegato, mentre tornavano nella struttura.
La prima volta che aveva fatto il nome del Beat King, l'uomo aveva spalancato gli occhi. All'inizio non ci aveva creduto, ma poi aveva riconosciuto la collana d'oro che portava al collo, la stessa che sfoggiava anche lui. Per un attimo si era sentito lusingato, come se avere a che fare col prodigio di Dr. Dre fosse come fare l'inchino di fronte la regina d'Inghilterra, e lui detestava ricevere troppe attenzioni per quel motivo.
«Se Dr. Dre ti ha messo sotto contratto, un motivo ci sarà. Giusto?»
A dire il vero era stato Geoffrey a decidere e poco dopo la sua overdose, glielo confessò poco dopo. Lo considerava un figlio, tralasciando l'omonimia fra i loro cognomi – una vera e propria coincidenza! – e il fatto che fosse stato il suo migliore amico Anderson ad insistere sulla cosa. Scriveva, sapeva fare freestyle e sul palco mostrava un'energia pazzesca.
«Allora perché farti spingere dalla Casualità? Ascolta il tuo cuore e sii te stesso.»
«Se solo lo avessi capito prima...»
«Non è mai troppo tardi per aggiustare il presente, ragazzo. Se hai imparato a farne a meno della droga, stai pur certo che nulla ti fermerà più.» Raggiunta la porta della sua stanza, Nick indietreggiò. «In bocca al lupo per il tuo futuro EP, allora.»
«Ti manderò una copia autografata da Dr. Dre in persona! Nah, che dico... non lo farà mai.»
«Magari! Sarebbe un sogno. Sai, lo ascolto dai tempi di The Chronic e ho seguito la vicenda con la Death Row. Bella merda.»
Geoffrey non aveva mai più parlato di quella vicenda, dopo che Dr. Dre gliel'aveva raccontata il terzo giorno che si erano conosciuti. Non era facile ascoltare una storia di malavita, soldi e fame di potere – poteva essere definita una sorta di "mafia dell'hip-hop" – e che nonostante l'enorme successo ottenuto in quattro anni, nascondeva un'ombra scura e fredda. Dre non era mai stato favorevole alla figura del gangster violento, a chi usava metodi scorretti per avere denaro. Era arrivato a fidarsi delle persone sbagliate e aveva avuto il coraggio di lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare da zero, dimenticando quella brutta faida con Eazy.
«Buon reinserimento, Nick.» Chiuse la porta e si buttò sul letto. Mancava mezz'ora alla seduta dallo psicologo, avrebbe contato i minuti stando a pancia in su.
La riabilitazione era cominciata ad aprile e secondo il calendario, sarebbe continuata per un altro mese. Doveva tenere duro, se voleva tornare fra le braccia del suo ragazzo. Avrebbe oscurato le caselle del calendario col pennarello, in attesa del giorno in cui avrebbe lasciato la clinica. Guardò il soffitto e sospirò languidamente, ripensando all'incontro con Liam.
Quei baci erano stati dolci, teneri, come se avesse baciato per la prima volta. Quando finalmente lo aveva avuto tra le braccia, non era riuscito a smettere di guardarlo negli occhi. Si morse il labbro inferiore, soffocando un altro sospiro. Finalmente poteva ammetterlo a mente lucida: era pazzo di William Campbell.
Infatuato dal suo stile, incantato dalla sua dolcezza... innamorato del suo Se.
Era l'anima gemella l'ultimo pezzo del puzzle, quello che da anni aveva cercato di costruire con degli ansiolitici. Ciò che gli era davvero mancato, Anderson lo aveva saputo fin dall'inizio. Aveva finalmente capito la differenza fra l'amore e la droga, soltanto il primo poteva far battere il cuore.
N.A.
Buongiorno o buonasera, popolo wattpaddiano! Vi sono mancata? Un pochetto, dai :P
Scommetto che anche Geoffrey vi sia mancato. So che è il vostro preferito dopo Bruno/Bryce, per cui ho deciso di postarvi questa OS prima del tempo. Infatti sto aggiornando da cellulare, perdonate eventuali errori. L'ho scritto ascoltando "Fighting Demons" di Juice WRLD (motivo per cui ho scelto questo titolo) e ne è uscita una OS metà sdolcinata e metà drammatica. Ve lo anticipo fin da subito: i #geoliam saranno più zuccherosi dei #brinevra, ma il primato va a questi ultimi.
La prossima OS non so quando uscirà, forse il giorno del compleanno di Gin. Dipende se farete i BRV (cit. Trono del Muori). Staremo a vedere. Detto ciò, torno a farmi la terza doccia della giornata e dopo... pizza! Restate sintonizzat* su questi schermi, perché vi anticiperò tante cosine. E buon weekend!
- Gloria -
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