Capitolo 1
Capitolo 1- Il primo morso
La mattina del ventuno settembre mi sveglio con un tremendo brontolio nello stomaco, mentre la bava alla bocca non fa che colare a picco sulle mia labbra. Mi ripulisco con un panno adagiato sul comodino e mi avvicino alla finestra perfettamente pittata di un colore bianco panna. Ne passo sopra il dito sfiorandone la consistenza volgendo però lo sguardo verso il giardino ornato da piccola rose rosse e da un paio di tulipani che crescevano da una poca distanza. E' mia consuetudine la mattina quella di uscire dal mio letto e guardare o meglio fissare il giardino che - con tanta cura - la sua famiglia aveva sistemato.
A piedi nudi cammino quasi saltando sul pavimento di legno fregandomi dei piccoli brividi che il gelido pavimento mi procura.
«Signorina Pennigtion non fa bene ad una signorina urlare e starnazzare così presto di mattina.» mi richiama Mrs. Thompson con la sua chioma sempre ben pettinata, le sue unghie perfettamente curate e il suo portamento da donna del tredicesimo secolo.
Capisco la sua vecchia età, ma anche lei è ormai troppo avanti per quel periodo.
«Mrs. Thompson sempre lieta di rivederla.» e mi inchino con fare regale nascondendo un mezzo sorriso di scherno. Prendere in giro la vecchia signora Thompson era diventato con il tempo uno dei miei passatempi preferiti così da poter ammazzare il tempo. Sollevo il viso soffermandomi sui suoi lineamenti stanchi e affaticati, sul viso aveva due profonde occhiaie sotto agli occhi per non parlare delle piccole e tenere rughe che con molto impegno cerca dannatamente di nascondere.
Dallo sguardo duro che mi sta rivolgendo comprendo che quella mattina non era in vena di scherzare, ma in fondo quando mai lo era.
«Signorina lei deve prendere seriamente ciò che è la sua natura. Da oggi in poi lei sarà in grado di poter controllare il suo potere, e sarà così libera di poter uscire da sola nel mondo esterno che tanto bramate di esplorare.» mi ricorda e al termine delle sue parole rivolgo il mio pallido viso verso la finestra.
Era l'unico mio attaccamento con il mondo esterno. E' proprio grazie ad essa che posso, anche se solo un po', vedere ciò che accade la fuori.
«Oh signora Thompson solo lei sa quanto ho atteso questo giorno. Finalmente sarò libera, proprio come è accaduto per le mie sorelle.» e arrivata a quella conclusione riprendo il mio rituale di gioia saltellando per tutta la stanza, e questa volta trascinando anche la povera vecchia signora Thompson che per molto anni ha dovuto assecondare ogni mio capriccio.
«Tu come ti sei sentita la prima volta?» le chiedo lasciando così andare le sue mani sedendomi sul mio letto. Lei all'inizio non mi risponde, e forse non ne aveva intenzione, ma deve aver cambiato idea perché sospira e si siede sulla sedia posta accanto alla scrivania.
«Avevo vent'anni quando è successo, esattamente come te. Era una notte molto buia e stava per annunciarsi una tempesta. Nonostante avessi paura della pioggia la mia fame si faceva sempre più forte e insaziabile. Dovevo uscire quella sera. Era un uomo di all'incirca trent'anni e portava un giubbotto marrone che gli copriva fin al ginocchio. Era una persona per bene, mi stava semplicemente chiedendo un indicazione, ma lui non poteva sapere che lo stesse chiedendo alla persona sbagliata al momento sbagliato. E' stata una morte lenta e per niente dolorosa. Ricordo ancora il suo sapore fin dentro alla gola, e il brividi di eccitazione che mi attraversavano lo stomaco. E' una sensazione che non dimenticherai mai nella tua vita.» e al termine del suo racconto avverto la mia di eccitazione aumentare a dismisura. Non so se potevo aspettare fino al calar del sole.
«Adesso basta parlare e momento che si prepari.» sorrido e annuisco e con velocità mi dirigo verso il bagno.
La notte sarebbe calata presto.
***
Ricontrollo le lancette dell'orologio che segnavano appena le quattro le pomeriggio e affondo così il viso sulle braccia sospirando annoiata per l'attesa. Mi rigiro scocciata una ciocca di capelli arrotolandola tra le dita tirandomeli di poco, ma continuo imperterrita dedicandomi ad un altro dei miei passatempi per ammazzare il tempo. Rimanere chiusi per mesi e mesi in una casa, per la maggior parte sola e annoiata, dava tanti spunti alla creatività e all'immaginazione.
Da piccola avevo già un mio amico immaginario. Era un essere umano, ma anche se sapeva che un giorno mi sarei nutrita di lui rimaneva comunque al mio fianco. Però un giro anche lui mi abbandonò lasciandomi così definitivamente da sola.
Al compimento della maggiore età anche io potevo fare parte della loro battuta di caccia notturna e così mi avrebbero vista finalmente come una loro pari, come una degna figlia di David Pennigton.
«Afrodite!» mi sento chiamare e storco un po' il naso a quella esclamazione. Non amavo essere chiamata con il mio primo nome e quasi rimpiango il mio amico immaginario. Lui era l'unico che mi chiamava con il mio secondo nome: Veronica.
Era il nome di una mia bis-bis nonna da parte di mia madre e visto che il secondo nome è una ricorrenza sacra per la mia famiglia: Afrodite Veronica Pennigton è il mio nome completo.
Afrodite come la dea della bellezza, la quale noi Predatori di Anime diamo la nostra completa devozione. Le mie sorelle mi ripetevano che dovevo sentirmi onorata per avere lo stesso nome della nostra creatrice, ma non riuscivo in nessun modo a farmelo piacere. Preferivo di gran lunga Veronica. Semplice e maledettamente normale.
«Madre.» le rispondo assumendo un atteggiamento serio e ben educato imitando una di quella famiglie aristocratiche di cui avevo sentito parlare attraverso tanti film. La mamma solitamente accennava sempre una breve risata alle mie battute, ma come per la signora Thompson oggi non era in vena di giochetti.
«Tra poche ore finalmente calerà il sole, come fai ad non essere ancora pronta? Dov'è il vestito bianco che ti avevo fatto confezionare?» quasi rido a quella domanda. Credo che lui non noterà il se avevo o non avevo messo lo smalto quando mi addentrerò sulle sue labbra per togliergli il respiro.
«Non credo servirà.» rispondo nascondendo un accenno di sorriso. La donna sospira lasciandosi ricadere sulla sedia. «Non devi prendere la cosa con tutta questa leggerezza. Il primo pasto da sola è una cosa seria, devi stare attenta a non perdere il controllo, ma soprattutto non devi lasciare alcun tipo di traccia. Non devono scoprirci.»
Annuisco tenendo a mente tutto ciò che i miei genitori e le mie sorelle mi avevano insegnato. Noi Pennigton possiamo definirci invincibili, ma anche noi sapevano cosa era la paura e abbiamo sicuramente vari nemici nel mondo.
I ribelli li chiamavano. Perché si ribellavano della loro natura di essere dei semplici pasti, e non volevano accettare il loro destino e per questo ci ostacolavano da anni ammazzando vari membri della nostra famiglia.
Siamo rimasti in pochi in questo periodo.
«Me la so cavare mamma. Devi avere fiducia in me.» le dico affondando il viso sul suo petto ascoltando il battito silenzioso del suo cuore. Lei mi accarezza i capelli e beandomi di quelle carezze socchiudo gli occhi dopo però aver dato un occhiata all'orologio sul muro osservando lo scorrere del tempo.
***
Il momento. Il mio momento è finalmente arrivato.
Indossavo un vestito lungo bianco che mi arrivava a metà gambe, e un paio di scarpe nere classiche. I capelli erano stati intrecciati in boccoli stretti e sottili che mi ricadevano sulla schiena. Senza voltarmi indietro mi richiudo alle spalle la porta di casa. Un respiro.
Sono fuori, da sola, ma fuori. L'ansia che con tutta me stessa aveva cercato di nascondere stava cercando di emergere con tutte le sue forze, ma niente avrebbe spento il mio entusiasmo questa sera. Faccio un primo passo, poi un secondo e poi un terzo fino a quando non mi allontano dalla residenza della mia famiglia e inizio a vagare per la città.
Era parecchio buia e abbastanza desolata da come me la immaginavo. Mi ero sempre immaginata una massa di persona pronta a spettegolare davanti a un bar, ragazzi che ritornavano dopo una partita, o da casa di qualche amici. Ma quella sera Riverside era silenziosa, quasi morta.
«Si tesoro sto tornando a casa. Certo che farò in tempo.» sento una voce che si avvicina verso la mia direzione. Una persona. Un'anima. E stava venendo da me.
Il battito del mio cuore stava accelerando ogni minuto che passava, mentre sentivo le mani fremere per l'eccitazione. Quasi mi vergogno per la bava che mi stava uscendo dalla bocca, ma in quel momento l'unica cosa che riuscivo a pensare era la fame irrefrenabile che provavo.
Era la mia preda. Doveva essere mia.
Non avevo mai provato una fama di questo genere, e sentivo che stavo completamente perdendo la testo. Ferma Veronica aspetta prima di agire, mi ripeto come un mantra appellandomi a quel briciolo di umanità che mi era rimasta. Però alla vista della mia futura preda anche quel misero buon senso che mi era rimasto stava per andarsi fottere.
Affilo i denti e silenziosa mi avvicino verso di lui. Doveva aver circa sulla quarantina di anni, e aveva tra le mani un pacchetto regalo ben confezionato. Stava parlando al telefono e sembrava molto felice di parlare con quella persona. Scaccio questo pensiero inutile dalla mente e a passo felpato mi dirigo verso l'oggetto del mio desiderio.
Potevo già sentire il calore della sua anima trapassarmi la gola.
Ti prometto che sarà una morte veloce. Non soffrirai, gli dico quasi come se potesse sentirmi. Stavo per avventarmi su di lui, era la mia occasione. Stava andando tutto così bene quando...
«Papà!» sento gridare in lontananza e una bambina di all'incirca sette anni esce da un abitazione e si lancia verso l'uomo allacciandosi al suo collo. «Sei venuto.»
«Te l'avevo promesso, ricordi?» la bambina annuisce stringendosi all'uomo affondando il viso sul suo petto asciugandosi le lacrime.
«Buon compleanno bambina mia.» le dice l'uomo dandole il regalo che prima avevo intravisto. Era un regalo di compleanno. La bambina urla dalla gioia e trascina il padre verso l'abitazione.
Avevo fallito. Ma questo non era l'unica cosa che mi preoccupava, ma il senso di inquietudine che mi attraversava il petto. Stavo per mangiarlo, stavo per togliere ad una bambina il padre il giorno del suo compleanno.
Gli uomini sono solo cibo giusto? Allora perché provavo questo senso di ribrezzo verso me stessa e contro la mia stessa fame? Rivolgo per l'ultima volta lo sguardo verso l'abitazione di quella famiglia che sarebbe rimasta nei miei ricordi per molto tempo.
«Un ladro! Aiutatemi un ladro!» sento gridare e intravedo un uomo con il viso coperto correre verso la mia direzione. Beh pazienza, di prede ne posso trovare altre.
E così mi dirigo verso la direzione dell'uomo incappucciato per pregustarmi finalmente il mio meritato pasto.
Avevo fatto una buona azione, me lo meritavo.
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