6. Occhi 𝘪𝘯 alto - Pt. 2
6. Occhi 𝙞𝙣 alto – Pt. 2
«Ti annoi?»
La cannuccia mi scappò dalle dita.
Impegnata ad apprendere i flirt di Olivia, mi ero dimenticata che c'era ancora un mondo a circondare la mia spirale di solitudine. I barman non avevano mai fatto caso a me, né mi avevano chiesto se volessi ordinare altro, anziché continuare a brutalizzare dei cubetti ormai sciolti. Forse mi avevano presa per una di quelle statue di ghiaccio che venivano esposte ai gala: talmente immobili che ci si dimenticava della loro esistenza, scambiandole anch'esse per ospiti.
Immagino che "poche ore" non fosse una verità attendibile.
Voltai la testa nel modo più naturale possibile e incontrai un paio di occhi grigi. Era uno dei ragazzi che mi aveva inquadrata prima.
Ripasso: se non sono gli occhi, sono le sopracciglia.
Mi ci aggrappai. «Diciamo che mi piace stare da sola.»
Si sedette nel posto vuoto senza complimenti, ridendo. Io piansi dentro. «Scommetto che è un modo per chiedermi di andarmene.»
«Mh... poniamo pure il caso che lo sia.»
«Probabilmente insisterei, insomma...» Fece slittare il gomito sul banco e avvicinò un po' il viso al mio, un ciuffo di capelli biondi gli ricadde sopra le sopracciglia chiare. «... ne varrebbe la pena.»
Ignorai il rossore alle gote, abbassando lo sguardo.
«Ok, ehi, non volevo metterti a disagio» rimediò.
«Figurati, apprezzo il complimento.»
«Guarda che se sei già impegnata, tolgo subito il...»
«Tranquillo.» Sorrisi. «Nessun ragazzo, nessun impegno.»
Annuì, e tra noi calò il silenzio.
Quindi afferrai il bicchiere e lo roteai appena. In sottofondo, a percuotere le pareti, pulsava una canzone di Eminem rappata insieme a GRIP. Dettava un ritmo febbricitante, ruvido, i bassi sguazzavano in toni spietati, era impossibile cogliere a pieno il significato del testo. Tuttavia, qualsiasi cosa asserisse, era riuscito a ottenebrare la notte che sommergeva il nightclub. Persino le luci, per quanto intense ogni volta che lampeggiavano, apparivano meno... accese.
Osservai di sottecchi Olivia. Stava sussurrando all'orecchio del suo obiettivo. Chissà se è questione di istanti prima che se lo porti a letto. Spostando lo sguardo, tra la calca di ombre che danzava in mezzo a tavolini e deejay, riconobbi quell'Ian. Se la stava spassando con entrambe le ragazze che l'avevano invitato. Letteralmente. Prima baciava una e poi l'altra, seguendo la cadenza del brano. Ingoiai una risata – assurdo – e arrivai a studiare l'uomo che cercava di telefonare. Ora stava seguendo il mio mantra: travasare i tormenti in un bicchiere, forse sperando che si animasse e riempisse da solo.
E di nuovo, quasi l'avesse percepito, voltò il capo.
Stavolta evitai di farmi scoprire, allungando la mano allo sconosciuto. Se dovevo rimanere qui, se era destino che dovessi sopportare lo stomaco attorcigliarsi per la solita, orrenda sensazione di sentirmi esposta, tanto valeva impiegare il tempo con qualcosa che mi aiutasse a tollerarlo. Quattro chiacchiere non avevano mai ucciso nessuno, e poi non serviva che lo guardassi, chiunque egli sia.
«Ophelia.»
La strinse. Se sorrise o meno, non lo scoprii mai. «Liam.» Si avvicinò con lo sgabello, indicando un punto vago dietro di me. «Sai, il mio amico era scettico. Credeva che non riuscissi ad avvicinarmi.»
«Questa l'ho già sentita» lo schernii, mentre la cannuccia spingeva uno spicchio d'arancia rinsecchito sul fondo del vetro.
Finse di offendersi. «Dico davvero! Sono timidissimo.»
«Addirittura timidissimo.»
«Con il superlativo si è più convincenti.»
«Beh, questa non me l'aspettavo.» Azzardai uno sguardo. Piccolo, rapido. «Se hai usato un superlativo stai facendo proprio sul serio.»
«Perché sono anche serissimo.»
Repressi un sorriso. «E, sentiamo, come ci saresti riuscito?»
«Beh, i due Mojito sono stati un ottimo incentivo. Tanto pagava il mio amico. Già, sono anche un pessimo scroccone, ma senza superlativo, se no suonerebbe un po' strano, no?» Risi, stringendo all'inverosimile la plastica martoriata. «Allora... sei sola, stasera?»
Smisi di torturare, inumidendomi le labbra. «Sì.»
«Come mai? Se posso chiedere.»
«Ehm... decisione mia, esperimento sociale, qualcosa del genere. Volevo stare per i fatti miei.» Mi grattai il gomito. L'ultima cosa che volevo era ammettere di essere lì a fare la patetica sorellina che non sapeva come comportarsi senza la vicinanza della maggiore, senza il suo faro. Meglio mostrarsi una sfigata per pura scelta personale, anziché esserlo su commissione. «Perché me lo stai chiedendo?»
Fece spallucce. «Così. Mi sembrava abbastanza insolito che una ragazza tanto carina se ne stesse tutto il tempo da sola, e isolata.»
«Mi distinguo... dalla massa. Vediamola così.»
Da uno a improponibile, quante cazzate sto sparando in una conversazione iniziata neanche dieci minuti fa? Quante?
Ad ogni modo, per quanto apparisse bizzarro, quel ragazzo spuntato dal nulla continuò ad assecondare la valanga di frottole che mi usciva di bocca, ribattendo ora con una risata, ora con una battuta. Ero convinta che se avessi dichiarato, di punto in bianco, di essere una terrapiattista o la diretta discendente della dinastia dei Romanov, se la sarebbe bevuta. Non sapevo come prenderla, se rimanerne delusa o sollevata. D'altra parte, era un atteggiamento che non mi procurava pressioni su ciò che potevo o non potevo dire. Inoltre, la mia missione era quella di raggirare il tempo, nient'altro, e probabilmente quella conversazione poteva dimostrarsi un ottimo diversivo affinché la conclusione della serata arrivasse... presto.
Sempre che mia sorella si fosse data una mossa.
Superato l'impaccio iniziale, in cui non avevo fatto altro che rispondere a un bicchiere anziché al diretto interessato, mi imposi di alzare l'asticella delle precauzioni e impormi una prova di coraggio: sollevare lo sguardo, gradualmente. Iniziai dalla mano nodosa che aderiva al bancone, dove pollice e anulare erano ornati da un paio di anelli, poi l'attenzione si arrampicò sulle ossa sporgenti dei polsi, la porzione della camicia bianca mal arrotolata agli avambracci, infine su un volto allungato, dai lineamenti morbidi e gentili, segnato da profonde cicatrici dovute all'acne. Scoprii che, mentre raccontava uno dei tanti aneddoti della serata, non sempre mi prestava attenzione. Anzi, spesso perdeva il filo del discorso nel momento in cui si distraeva; finiva col puntarmi il petto, dove il top creava una X sul collo e lasciava un riquadro di pelle scoperto, le mie dita aggrappate alla cannuccia, oppure, insistentemente, un punto alle mie spalle, come se si stesse accertando che ci fosse una sua conoscenza.
Non ci diedi peso.
L'unica spiegazione plausibile era che fosse realmente timido. O almeno, che lo fosse in buona parte. Il che avrebbe spiegato le occhiate volte alla rinfusa, la frenesia nel tamburellare le dita sul ginocchio, il sottile nervosismo che traspariva tra le parole, o ancora, il velato tastarsi la tasca del pantalone. Erano tutti gesti che conoscevo a menadito, che distinguevano gli individui di natura introversa. Individui con cui non avevo mai parlato, ma che avevo studiato quando lavoravo ancora alla pasticceria del signor Cole. I clienti, come i dolci esposti, erano provvisti di peculiarità che li rendeva unici. Impegnati a consumare caffè o fette di torta, avevo avuto la libertà di apprendere e collezionare azioni e voci differenti.
Lo ritenevo l'unico aspetto positivo della mia condizione.
Tuttavia, sorridendo a questa o a quella freddura, non capivo per quale ragione l'uomo seduto poco distante da noi, alle spalle di Liam, continuasse a rifilarci strane occhiate. Strane o serie? Non lo capii. Ogni tanto pigiava le dita sul cellulare, se lo portava all'orecchio, ancora e ancora, come aveva fatto per gran parte della serata. Espressione avvilita, pugno sulla coscia, infine rassegnazione a bere un goccio del drink. Il tutto mentre, molto celatamente, ci esaminava.
Non intesi mai chi dei due.
Magari era una specie di... maniaco. E gli avevo pure proposto un brindisi a distanza... Al solo pensiero, avvertii la schiena sudare.
Basta, ti fai troppi film, smettila.
Comunque turbata, mi concentrai sulla figura del mio vicino. Stava cercando di attirare l'attenzione di un barista, accennando un indice alzato. Senza voltarsi, mi riferì: «Perdonami, non ti ho nemmeno offerto un bicchiere. Sono proprio un pessimo corteggiatore».
«Ah no» esclamai subito, inducendolo ad abbassare il braccio. «In realtà non bevo, ma è come se avessi accettato, davvero.»
Sventolò la mano. «Su su, poche storie. Offro io.»
«Sono seria: non bevo alcolici.»
«Astemia?»
«Ho vent'anni.»
Rise. «Non ci credo che non ne bevi.»
«Ma non quando sono fuori. Se dovessero fare un controllo nei casini ci vado io, mica tu.» Non mi scomposi. «E poi devo guidare.»
Liam meditò, squadrandomi dall'alto al basso con espressione beffarda. Eccola di nuovo, l'inadeguatezza. «Bene. Allora permettimi di offrirti qualcosa che non ti faccia passare per una criminale, ok?»
«Ci tieni così tanto a macchiarti la reputazione da scroccone?»
Fece l'occhiolino, la mano che di nuovo tornava a tastarsi rapidamente la tasca. «Per una volta me lo posso concedere.»
Ordinò due Sangria analcoliche, per solidarietà.
Nell'attesa digitò sul suo telefono, poi tornò a guardarsi in giro. Lesto, irrequieto. Ancora non mi spiegavo cosa avesse tanto da controllare. Dettaglio che non mi era sfuggito era che, ogni qualvolta Liam si girava in direzione di quell'uomo, questi tornava a fare ciò che stava facendo, con una disinvoltura spiazzante. Nessuno avrebbe mai potuto sospettare che ci stava ripetutamente fissando.
C'era qualcosa che non quadrava.
Ma cosa?
Poi accadde, con una puntualità spaventosa.
Il barista fece slittare i cocktail nella nostra direzione, Liam li afferrò al volo, al contempo qualcuno mi si buttò addosso, sulla schiena. Per l'impatto, lo sgabello oscillò e io rischiai di cadere.
«Oddio, scusami!»
Mi ero aggrappata per un pelo al bordo del bancone. Girando il capo, mi fronteggiai con un altro ragazzo – moro, ricciolino – che, dopo un'attenta analisi, riconobbi all'istante come l'amico di Liam.
Si sfregò la fronte, strizzò gli occhi. «Che imbecille, che cazzo di imbecille, mi dispiace, davvero, mi dispiace tanto, stai be...»
Volle toccarmi, forse per assicurarsi che non mi avesse fatta male, ma io arretrai, sulla difensiva. «Non... non è necessario. Fa niente. Capita.»
«No, sul serio, non volevo che...» Grattandosi la testa diede un'occhiata di sbieco al suo compare. «Sono inciampato, scusa.»
«Sarei stupita del contrario in un posto simile, quindi non preoccuparti» borbottai risentita e in imbarazzo, le guance roventi.
Stavo per voltarmi al mio posto, ma l'amico me lo evitò afferrandomi dalle braccia. «Ah, aspetta» farfugliò sbrigativo, esibendo un'espressione dispiaciuta, ma per colpa della vicinanza indesiderata mi innervosii, volli scappare, rinchiudermi in una stanza, farmi scivolare di dosso quell'ondata di attenzioni che mi pungeva la carne come un maglione di aculei. Per fortuna, prima che mi divincolassi, si staccò senza che glielo chiedessi, tendendomi il palmo. «Piacere, Noah, il cazzone allergico all'equilibrio che...» Gliela strinsi spaesata, lui squadrò l'amico, poi di nuovo me. «Vabbè, vi saluto! Spero di non aver interrotto nulla. Ciao, bro!»
Si dileguò.
Ma che diavolo?
«Non farci caso. È strano. Si sarà fumato minimo tre canne stasera» spiegò il mio vicino, allungandomi il bicchiere. «A te.»
Stordita, fissai la bevanda rossastra. «Grazie, penso.»
«Brindiamo?»
«Dovremmo?»
«Beh, questo incontro è fantastico, fra Sangrie analcoliche e amici che preferirei non chiamare tali... questo è il minimo.» Avvicinò il suo drink, facendolo tintinnare col mio. «Ai risvolti inaspettati.»
Scossi la testa, divertita. «Ai risvolti inaspettati.»
Le labbra cercarono la cannuccia. Ma appena prima di trarne un sorso, una mano spuntò dal nulla e mi tolse la bevanda dalla presa.
Prima c'era, poi non più, come fosse il trucco di un prestigiatore.
«Sì, tutto molto romantico e anticonvenzionale, ma temo vi stia sfuggendo un dettaglio importante.» Davanti a me spiccò una cravatta plumbea, un po' slacciata in cima. Capii che si era palesato l'uomo che ci aveva osservati per la maggior parte dell'incontro.
«Scusi, e lei chi sarebbe?»
Liam strinse le palpebre. Parve nervoso.
«Un tipo che ama intromettersi.» Sorrise, in contrapposizione a una voce che avvertii come una folata di vento siberiano. «Sapete, ci tengo sempre ad aggiornare le nuove generazioni sulle recenti disposizioni del galateo, sia mai che la tanto temuta disinformazione susciti inutili malintesi. Ultimamente ci cascano anche i più svegli.»
Scoccò uno sguardo penetrante a Liam.
«Prego?»
«Grazie, al massimo.» Gli occhi, sottili e di una conformazione appena incurvata, scattarono su di me. Fu un attimo, ma ebbero comunque il potere di farmi sentire sotto processo. Preferii nascondere il turbamento concentrandomi sulle sue labbra sottili. «In caso non ne foste ancora al corrente, questa simpatica normativa ha ricevuto l'approvazione da parte di tutti gli stati membri, escluso il Kentucky, e dichiara che in un incontro tête-à-tête è sempre meglio fare un piccolo test sulla fiducia. Evolutivo, no?»
«Sì, perché ci crediamo... e quando sarebbe entrata in vigore?» chiese Liam con tono sarcastico, passandosi una mano fra i capelli.
Eppure, quel filantropo spaccia-informazioni non esitò e lo prese alla lettera, fingendo di controllare l'orologio al polso. «Un minuto e venti secondi fa. Siamo anche in ritardo con le dimostrazioni.»
«Certo, come no.»
«Fossi in te non farei tanto lo scettico, ragazzino» mormorò con quella che avvertii come una velata intimidazione. I modi garbati cessarono e, senza mezzi termini, gli sfilò il bicchiere dalla presa per sostituirlo col mio. Il suo lo diede a me. «Che il test abbia inizio.»
Ci guardammo perplessi, e ci partì in coro un: «Come?».
«Giusto. Fate uno per volta.» Si infilò le mani in tasca, paziente, e fece un cenno a Liam. «Prima i gentlemen, ci mancherebbe.»
«Senta, se questo è uno scherzo, noi...»
«Bevi.»
Fu autorevole, senza più alcuna traccia di ironia.
Notai le dita del ragazzo subire un tremolio.
«Non ha senso. Le bevande sono uguali.»
«Forse non mi sono spiegato bene.» Chinò il capo. Alto com'era, dava l'impressione che si stesse piegando l'ombra di una quercia. «Non mi interessa se sono uguali. Tu adesso bevi» scandì roco.
Liam scrutò me, il drink, lui, di nuovo me.
Era combattuto, e io turbata.
Alla fine si diede coraggio con un'alzata di spalle e posò le labbra sulla cannuccia. Ma fu un attimo: la bevanda si scaraventò a terra, la Sangria e i cocci di vetro schizzarono ovunque, mentre lui, scattante come un ghepardo, saltò giù dallo sgabello per cercare di scappare.
L'uomo fu più rapido, acciuffandolo dal retro del colletto.
L'istante prima era in piedi che cercava una via di fuga, quello dopo con la guancia premuta sul bancone e i polsi bloccati dietro la schiena. La folla che ci accerchiava arrestò le proprie danze per poter assistere. Il divertimento sfumò, la musica si abbassò, presto brusii e allarmismo sostituirono la leggerezza che scaturiva un drink.
«Mi lasci! Non mi tocchi!» gridò il ragazzo, dimenandosi. Sotto shock, faticai a muovere i muscoli. «L'avverto: ho un avvocato, potrei farla rinchiudere! Ha capito? Guardi che chiamo la polizia!»
Rimase calmo.
«Lusingato da tutte queste attenzioni, ma mi piace pensarci da solo.» Con un autocontrollo incredibile, gli mantenne i polsi mingherlini dietro la schiena, con l'altra mano si sfilò rapidamente dalla tasca un biglietto. Lo passò a un addetto alla sicurezza, arrivato proprio in quel momento. «Chiami questo numero diretto, le risponderà il mio patrigno, stanotte pattuglia qui in zona. Riferisca pure che il ragazzo ha cercato di drogarle il bicchiere con...» Intanto che Liam sbatteva la fronte sulla superficie di marmo, a denti stretti, lui gli tastò le tasche posteriori dei pantaloni con una moltitudine di gesti ben pensati, come se in una vita precedente fosse stato anche lui stesso, un agente. Sfilò una minuscola boccetta, grande quanto un mignolo. «Penso sia GHB, dalla fiala. Riferisca pure di farla analizzare in laboratorio.»
L'addetto alla sicurezza annuì e afferrò Liam dalle spalle, facendosi aiutare da un collega affinché non cercasse di scappare.
Lo scortarono fuori, sotto gli occhi stralunati dei presenti.
GHB.
Osservai la pozzanghera rossa cosparsa ai miei piedi e i cocci che costellavano il pavimento come brina insanguinata. È impossibile, sono stata attenta, come può...? Ma incastrare i pezzi avvenne in automatico: i drink che arrivavano, l'amico che mi si buttava "casualmente" addosso, lui che si assicurava non mi voltassi, le mani sulle braccia.
Non mi sentivo bene.
Scesi dallo sgabello, raccattando la pochette e una vergogna mostruosa che affluì dritta nelle guance. Inadeguata... e stupida.
«Va tutto bene?»
Quell'uomo, anzi, colui che mi aveva appena evitato un disastro, mi posò una mano sulla spalla, ma me la scrollai. Ero ancora provata. Tremavo. Mi sollevò il fatto che nessuno stesse più badando a me. «No... non proprio.» Strinsi le labbra, mi mancava la voce.
Dio, che voglia di mettermi a piangere.
«Hai bevuto quella roba?»
«Cosa?»
Calmati, stai calma, rilassati, respira.
«Quella roba. Sangria, succo di frutta, quel che è.» La sua scarpa nera indicò un frammento di vetro. «L'hai bevuta, sì o no? Perché in caso faresti meglio a farti subito accompagnare al pronto soccorso.»
«No. Sì.» Mirai a destra, sinistra. Olivia, dove sei? «Cioè, no.»
«Non mi sembri tanto convinta.»
«No, volevo dire no.» Sudavo, il top mi si era appiccicato alla schiena. «Non ho bevuto. Non ho bevuto niente di quella roba.»
«Bene, a posto.» Infilò le mani nelle tasche, ma non riuscii nemmeno a guardarlo in volto. «Sei sola? Ce la fai a tornare a casa?»
«Sì.» Annuii, esaminando i tavoli, gli ingressi, il bancone. Non c'è. «Sì, ce la faccio. Da qualche parte c'è mia sorella magg...»
«Sorellina!»
Realizzare che Olivia, in carne ed ossa, mi stava abbracciando richiese al mio cervello più tempo del dovuto. Allora ci sei...
«Liv, ascolta...»
«Stai bene? Cos'è successo? Che ha fatto quel tipo?» sparò a raffica, facendo attenzione a dove mettere i tacchi, onde evitare di scivolare. Notò che mi trovavo in compagnia. Studiò il tale per pochi secondi prima di orientargli un'occhiata al limite della diffidenza. «Può anche andare, ci sono già io qui. Grazie per il suo tempo.»
«Nessun problema, buona serata.» Fece per andarsene, ma tornò indietro. «Ah, e si assicuri che si riprenda, è ancora sotto shock.»
«La ringrazio, ma so già come comportarmi.»
Non la poté ascoltare. Era già uscito dal nostro campo visivo.
«Liv, senti, non so com'è finita con quel tale, ma... ma preferirei che adesso tornassimo a casa... Vorrei dimenticarmi di questa serata» mormorai, cercando di riacquisire un filo di autocontrollo.
Le sue mani non le sentii più sulle braccia, non vollero più scaldarmi, dirmi che c'erano, confortarmi. Si era allontanata e, guardandomi negli occhi, la sua espressione mutò; la dolce apprensione si adombrò, distorcendosi in qualcosa che di rado le avevo visto adattarsi su quei lineamenti affilati. Eppure, mantenne un tono cordiale e le labbra ricurve all'insù, facendo apparire il sorriso come la sua versione più angosciante. «Missione? Quale? Intendi quella saltata per colpa dell'accaduto? In tal caso sì, la missione si è miseramente conclusa senza nemmeno l'ombra di un profitto.»
Corrugai la fronte. «Che cosa?»
«Voglio dire, sorellina, che per colpa di questo piccolo, inimmaginabile errore di calcolo, la mia unica occasione per partecipare alla sfilata più importante della mia carriera è saltata. Sai quanto mancava prima che quel deficiente ci cascasse? Poco, davvero poco. Ma poi... questo.» Indicò il pavimento, dove due camerieri stavano già provvedendo a ripulire con guanti e scopa. «Si è indignato, credeva di essere finito in un posto mediocre, con poca vigilanza, e se n'è andato lasciandomi pure pagare il conto.»
Per quanto contradditorio, mi sentii in colpa.
«Io... Mi dispiace, Liv. Ma vedrai che...»
«Vedrò cosa?» Lo disse con un'intonazione estremamente calma e compassionevole, una carezza che non era una carezza, e gli occhi assunsero una piega che facevano presagire un pianto imminente. «Sai bene quanto questa serata fosse importante per me... Non la serata di domani, non quella fra un mese, ma quella di oggi. Invece no, invece no...» sussurrò svariate volte con voce rotta, tirando su col naso. «Sembra che tu non te ne renda conto, Ophelia... sembra che tu abbia sempre bisogno di qualcuno che ti controlli. Ma ti rendi conto che il motivo per cui tutti ti guardano è proprio per questo tuo non stare al mondo? Da' un'occhiata in giro: ti stanno fissando pure ora.»
Quella visione fu una pugnalata al petto, e finii col sanguinare altri sensi di colpa che andarono ad accatastarsi sugli altri. Ma ciò che dichiarò fu ancor peggiore: una tremenda sensazione di freddo mi avvolse, nonostante fossimo in un posto che scaldava a fuoco lento. Era il terrore. Terrore che combaciava con il gelo del Polo, e mi si inerpicava sui muscoli, le ossa, cartilagine dopo cartilagine.
«Ti prego...» mormorai. «Andiamocene e basta.»
Trasse un respiro profondo – sembrò costarle una gran fatica – e si sfregò le palpebre inferiori, in modo da non smontarsi il trucco.
«Prima passami le chiavi.»
«Ma non dovevo guidare io?»
«Le chiavi, per favore» replicò pacata, e per paura di peggiorare il suo stato d'animo gliele porsi, con le mani tremanti. «Per oggi correrò il rischio e guiderò io, per me stessa.» Cosa? «Mi piange terribilmente il cuore, Ophelia, ma per stasera è meglio che tu prenda un taxi.»
«Liv.» Il panico mi mozzò il respiro. «Liv, ma che stai...?»
Mi posò le mani sulle spalle, e mi rivolse ancora quello sguardo colmo di una compassione... vuota. Contradditorio, eppure non avrei saputo assegnarle altra definizione. Perché non mi arriva la tua compassione? Eppure ti guardo, che con te posso concedermelo, che i tuoi occhi li conosco da quando eravamo piccole... Allora perché sembrano appartenere a un'estranea? Perché sembra che vogliano separare le tue emozioni... dalla mia comprensione? Perché sembra vogliano dividerci? «Odio, odio essere così dura con te, lo sai. Ma è necessario affinché tu apra una buona volta gli occhi e impedisca che capitino altri errori simili. E te lo dico, sorellina, perché ti voglio tanto, troppo bene. Lo sai che te ne voglio, no? Vero che lo sai?» Ingoiai il magone, pesante quanto un blocco di cemento, e annuii, fissandole il collo nudo. «Meno male, grazie. Allora per stasera rimaniamo così.»
«Almeno...» Trattenni le lacrime, rimasero ferme lì, sull'orlo delle ciglia, in bilico dello strapiombo. «Almeno lo sai quello che è appena successo?»
Attese un po', poi mi diede un bacio sulla fronte. Ci cercai disperatamente una dimostrazione d'affetto, un gesto che avrebbe dovuto sapere di vicinanza, familiarità, ma che invece avvertii così distante che per un attimo credetti di avere di fronte una sagoma di cartone. «Certo che lo so. Ragion per cui è meglio che tu non dica niente a mamma e papà. Se dovessero notare che non sei tornata insieme a me, racconterò loro che volevi rimanere un altro po', che avevi conosciuto un bel tipo, qualcosa del genere.» Strinsi le labbra, forte, fortissimo. Non scendete. «A loro farebbe male il cuore se dovessero apprendere che, a vent'anni, non sei ancora capace di badare a chi ti sta intorno, di capire quando la gente vuole approfittarsene... Vuoi che ne rimangano delusi? Vuoi che ti sentano ancor più come un peso? Vuoi questo, Ophelia?»
Sono un peso.
Mi salì il cuore in gola, mi parve di soffocare, le lacrime che premevano di uscire, io che resistevo, stringevo i pugni, le unghie nella carne. Negai con la testa, senza parlare. Se l'avessi fatto, sarebbe stata la fine di quella subdola prova di resistenza emotiva.
«Bene. Allora ci vediamo a casa, ok?»
Se ne andò, facendosi spazio tra la calca che, intanto, era tornata a badare ai propri interessi. Però il freddo persistette, e io desiderai un giubbotto, una sciarpa, qualsiasi cosa trasmettesse del sano calore.
Mi accontentai di farlo da sola, incrociando le braccia al petto. Mentre uscivo dal locale a testa china, feci caso a due cose. Sono un peso. La prima era che Olivia si era sbagliata: nessuno aveva mai fatto caso a me. Sono un peso. La seconda era che aveva ragione: ero un peso, e temevo che presto lo sarei diventata anche per lei.
Non era l'idea di prendermi un taxi da sola e in piena notte a farmi paura, era già capitato in altre situazioni che mi arrangiassi con il trasporto. A riempirmi di sconforto era, piuttosto, la possibilità che Olivia non mi perdonasse quanto era successo, che la sua più grande occasione andata in fumo comportasse un allontanamento fra di noi.
La preoccupazione di quello che mi sarebbe potuto accadere fino a poco prima era stata scavalcata da una preoccupazione che, la gente normale, avrebbe categorizzato come secondaria, risolvibile, della serie: "Sì, è importante, ma ci penso dopo". Ma conoscendo mia sorella, poteva anche non esserlo. E non l'avrei sopportato, tantomeno che si appellasse al gioco del silenzio, che in casa facesse finta non esistessi, che ignorasse i miei messaggi, le telefonate, che mi lasciasse in pasto alle tarme del rimorso, a far sì che divorassero giorno e notte le mie uniche certezze rimaste in piedi. Era già capitato in passato, sempre a causa degli errori che mi faceva presente. Era stato devastante fare i conti con la mia inettitudine.
Senza contare che mi ricordava spesso come Allan e Cordelia non prendessero mai, in mia presenza, il discorso di come stessi diventando un peso per la famiglia, perché non era nella loro natura essere così diretti. Ed era una verità assodata: non li avevo mai visti alterarsi o, semplicemente, alzare la voce né a me, né alla loro vera figlia biologica. A seguito del mio incidente di percorso, erano diventati più remissivi nei miei riguardi, mi confermava pregna di dispiacere, come se la cosa riguardasse lei e non me. Diceva che mi ritenevano troppo fragile per sopportare una verità tanto scomoda.
Da quando me l'aveva confessato avevo cominciato a vedere con occhi diversi i miei nuovi genitori, a comprendere che la loro gentilezza era un mezzo per non farmi sentire come quella di troppo. Oppure, riprendendo il concetto delle in, come quella inadeguata.
Per questo motivo avevo bisogno di stare fuori di casa il più tempo possibile. Meno ci sarei rimasta, meno problemi avrei creato.
Fissai il telefono, uscendo dall'applicazione Get A Cab.
Mi aveva informata che il taxi era già per strada.
Per prendere tempo, girai in tondo su un marciapiede dove qualcuno aveva ben pensato di farsi un tiro in serena compagnia. Rimasi a braccia conserte, lo sguardo puntato a terra. Vecchi mozziconi schiacciati, schegge di vetro verdognole che brillavano sotto ai lampioni, volantini inzaccherati dalle orme dei passanti.
Mi fermai sul ciglio del marciapiede.
Muoviti ad arrivare, muoviti ad arrivare.
Poco distante, sostava ancora la macchina biancastra della polizia, i lampeggianti rimasti accesi scatenavano sovrapposizioni di rosso e di blu nell'area circostante. Da ciò che avevo appreso, dopo i dovuti accertamenti con i due addetti alla sicurezza ed essersi assicurati che io stessi bene, il ragazzo adesso sedeva sui sedili posteriori, e un agente in divisa stava scambiando due parole con l'uomo che era intervenuto. Visto lo stemma a stella, probabilmente era uno sceriffo.
Non udii nulla, se non dei borbotti. Lo sceriffo ci impiegò qualche minuto di troppo prima di congedarsi, non prima di assestare un paio di pacche sulla spalla del tipo, che compresi essere il figliastro.
Quando l'auto ripartì e divenne un punticino luminoso che si accendeva e spegneva nel grigiore urbano, si premette nuovamente il telefono all'orecchio, fissando la strada dinanzi. Fissando il nulla. Nel frattempo, dalla porta di ingresso sbucò pure il suo amico con sottobraccio le ragazze della serata. Se ne stavano andando, a quanto capivo, ridacchiando come adolescenti che avevano alzato un po' troppo il gomito. Perlomeno qualcuno si era rallegrato, in serata.
Ian, ormai lontano, gli urlò lo stesso un "E dai, vieni con noi, che la notte è ancora giovane!". L'altro, rimasto al telefono, gli rispose con un gesto sbrigativo della mano e un "Mi devi venti dollari".
Sparirono. Lui, invece, rimase lì; fece avanti e indietro, calciò un sassolino, l'altra mano estrasse un pacchetto dalla tasca. Incastrò il cellulare tra collo e spalla e, rapidamente, si accese una sigaretta.
Ci vado?
Mi attorcigliai le dita, fissai la strada, il taxi non arrivava.
Ma sì.
Prima che cambiassi idea lo raggiunsi, ma indugiai a pochi passi di distanza dalle spalle del tale. Che situazione assurda.
«Segreteria del cazzo» lo udii borbottare, sfilandosi il mozzicone con impeto nervoso e sbuffando una nuvoletta di fumo a una notte priva di stelle. La trafila di lampioni distribuita lungo le vie era l'unico firmamento di cui godeva la città. Voltò appena il viso di profilo, emerse un naso dritto, poi si bloccò e diede un altro tiro. «Lo sapevi che è da maleducati origliare le conversazioni degli adulti?»
Ci impiegai qualche secondo in più per capire che la domanda era riferita a me. Feci un passo avanti. «Non stavo affatto...!» Frenai la lingua, sostituendo le scuse con: «In realtà avevo capito fosse una telefonata andata a vuoto, non una conversazione vera e propria».
«Allora hai origliato bene.» Ci colsi una sfumatura triste tra le parole, per quanto avesse cercato di celarla con una leggera risata. Si rassegnò a riporre via il telefono. «Pazienza, qualcuno mi odia.»
«Lei non ha più risposto?»
Si voltò completamente. Piegò un po' la testa di lato, gli occhi li ridusse a due fessure, fra le sopracciglia folte si creò un solco. «Sarei tanto, tanto curioso di capire come tu faccia a sapere che è una lei.»
«Ahm, giusto.» Mi inumidii le labbra, col pollice indicai l'entrata da cui rimbombava una hit del momento. «Prima. Là dentro. Per caso ho sentito qualche stralcio di conversazione col tuo amico.»
«Mh-mh» mugugnò con la sigaretta tornata a prendere posto in bocca. Ottimo, mi concentrerò lì. «Hai un udito molto acuto.»
«Me lo dicono spesso.»
«Comunque no, ma grazie per l'interessamento.»
Alzai le spalle. «Nulla. È che immagino quanto sia frustrante quando tu provi a cercarli e loro non vogliono essere trovati.»
Mi chiedo se anche voi, quando cercavate di ricontattarmi e io mi costringevo a non rispondervi, vi siate sentiti come lui.
Stette in silenzio per un po' e poi spedì il mozzicone a terra. «Nel mio caso frustrante non è il termine adatto, ma... sì. Ti ci sei avvicinata.» Annuii, in lontananza la violenta sgommata di un motorino si insinuò in quella bizzarra quiete. «Passato lo shock?»
Mi grattai il braccio, facendo oscillare la testa. «Non del tutto, ma sto meglio di prima, grazie. Anche se mi chiedo come...» Mi morsi la guancia, incerta se farlo o meno, ma alla fine mi decisi e lo guardai dritta negli occhi. Aguzzi, scuri, impassibili. «Come lo sapevi?»
«Come l'ho visto, intendi.» Infilò le mani nelle tasche. «Notato nulla di strano durante la chiacchierata con quel fenomeno?»
«Qualcosa, sì, ma non ci avevo dato importanza... Anzi, a dire il vero ero certa che il suo fosse un atteggiamento da persona insicura.»
«Beh, sicuramente non vengono lì a sventolarti la droga sotto al naso urlandoti che sono dei criminali. Sarebbe un bel colpo di scena, in effetti. O un bel colpo di stupidità.» Si tamponò il naso arrossato, rivolgendo lo sguardo altrove. «Si toccava troppo spesso la tasca, scambiava certe strane occhiate con un altro suo compare, poco lontano, ma tu non potevi vederlo. Io, dalla mia prospettiva, sì.»
Ecco perché si guardava in giro di continuo.
Mi strinsi le braccia al petto. Ancora. Persi il conto di quante volte l'avessi fatto nel corso della serata. Credevo che, in qualche modo, mi proteggessero, mi facessero sentire meno nuda di quanto non mi sentissi già. «Dovevo immaginarlo» mormorai amareggiata. "Ma ti rendi conto che il motivo per cui tutti ti guardano è proprio per questo tuo non stare al mondo?" «Forse se non avessi dato l'impressione di essere una che si trovava a disagio, magari...»
«No, ehi, ferma.» Mi scoccò un'occhiata penetrante, il palmo della mano sollevato. «Quei figli di puttana, chiamiamoli pure con il loro vero nome, credimi che non avrebbero fatto distinzioni caratteriali. Potevi essere tu, come poteva essere chiunque altro.»
«Pensi che avrebbero potuto puntare una persona più audace?»
«Chiunque. Nel 2004, non so se hai presente, si era aperta un'inchiesta per il tentato avvelenamento da diossina nei confronti del presidente ucraino che c'era allora, quindi parliamo di una persona particolarmente influente. Secondo te, ai tempi, si erano domandati se fosse il caso di azzardare una mossa simile per il tipo di carattere? Uno come Juščenko non dava di certo l'aria di essere una persona, come dire, poco attenta.» Sfregò la suola sulla sigaretta, a destra e a sinistra, finché non divenne un cumulo deteriorato dalla cenere. Dopodiché si fermò e puntò lo sguardo su di me. Parve leggermi dentro. «Non è stata colpa tua, ragazzina, non pensarci. Gente come quella segue i suoi scopi, infidi o meno, riflettendo poco con chi ha che fare.»
Fissai i resti del mozzicone, in trance.
Diceva che non era colpa mia, ma mia sorella mi riteneva in parte responsabile. La sentenza di uno sconosciuto contro quella di una persona che mi conosceva da una vita. Sebbene il ragionamento del tale non facesse una piega, sentivo che Olivia non avesse tutti i torti. Insomma, dovevo già sospettarlo sin da quando il ragazzo, tal Liam, si era avvicinato a me, me, a una che stava tentando di mimetizzarsi col bancone del bar, le luci psichedeliche, le voci dei presenti.
Il telefono vibrò. Voltandomi, vidi un taxi che sostava davanti al marciapiede. Lungo la portiera c'era scritto Get A Cab. Era arrivato.
Glielo indicai. «Io vado. Grazie ancora, per tutto.»
Feci lo sforzo di sorridere al mio salvatore, anche se nel profondo, dopo tutta quella serie di considerazioni, continuava a farmi male il modo in cui mia sorella aveva deciso di punire la mia disattenzione. Per un attimo avevo creduto che le questioni sfilata e Tom Ford fossero slittati in secondo piano per me, che ero sua... sorella.
Sorellastra, mi ricordò il subconscio, un peso.
«Cosa? Un taxi?» domandò l'uomo, studiando la vettura con un principio di confusione a corrugargli la fronte. «Perché proprio un taxi, scusa? Non eri in compagnia di tua sorella maggiore?»
«Ah... sì.» Mi morsi il labbro. «È complicato.»
«Complicato...» ripeté. «Perdonami, magari sarò io a non capire, ma non riesco a fare un ragionamento che si regga in piedi.»
Iniziai a indietreggiare in direzione del taxi, salutandolo in fretta. «Non ti preoccupare, non è la prima volta che lo prendo» gli urlai.
Davanti all'automobile, salutai dal finestrino il conducente. Ma appena strinsi la maniglia, udii alle mie spalle un: «Aspetta, ferma».
Dal vetro, mi sorpresi a vedere il riflesso del tipo frugare nella tasca posteriore dei pantaloni scuri. Nel momento in cui mi girai stava sfoderando un portafoglio di pelle, poi toccò a un paio di banconote che mi tese. Capita l'antifona, gli spinsi via le mani.
«No, non li accetto, non se ne parla.»
«Questo lascialo decidere a me.»
«Davvero, lo apprezzo, ma me lo posso permettere da sola.»
«Non è per una questione di permetterselo o non permetterselo.» Mi afferrò il polso, una presa sicura ma cauta, e cacciò sopra il palmo i soldi, contro la mia volontà. «Ma è per una questione di principio, specie dopo l'accaduto. Non conosco tua sorella, non so quanto sia maggiore, nel vostro rapporto, ma il minimo che avrebbe dovuto fare era assicurarsi che tu tornassi a casa sana e salva, per stasera.»
Fissai la carta tra le mani, in subbuglio. «Non...»
«Prendili e non discutere. Dovrebbero bastare.»
«Almeno posso sapere il tuo nome? Così te li potrò restit...»
«Non accetto resi, mi spiace.» Mi aprì la portiera, appoggiandoci sopra il mento, e mi fece segno di entrare. Nello stato confusionario in cui ero, avevo già messo un piede dentro, quando, con tono più serio, lo sentii continuare: «Quegli occhi tienili alzati, ragazzina.»
Perplessa, sbattei le palpebre. «Come hai detto?»
«È stato un particolare che non ho potuto fare a meno di notare, quando parlavi con quel tipo. L'avrai fatto sì e no un paio di volte in tutta la sera. Ma il mio prendilo come un consiglio: guardare la gente in faccia ti fa capire meglio con chi hai a che fare.» Tamburellò le dita sulla portiera e, con un sorriso, si allontanò. «Insegnamenti del mio patrigno: non aspettarti mai che ci sia sempre il mondo a farlo al posto tuo. Oggi è stata una fortuna, ma un domani toccherà a te.»
Nonostante tutto, gli indirizzai un sorriso di riconoscenza.
«Cercherò di tenerlo a mente.»
Mi salutò e, intanto che il taxi si spostava in carreggiata, continuai a pensare alle sue parole. Osservando con una certa malinconia la città scorrere attraverso il finestrino, mi chiesi se era un consiglio che era possibile adattare su chiunque. Guardare in faccia una persona avrebbe dovuto far capire meglio con chi si aveva a che fare, affermava. Allora perché, guardando il dispiacere di mia sorella, prima, in quel nightclub, non riuscivo a capacitarmi di avere davanti una persona che conoscevo sin da quando era una bambina?
Perché allora fissando attentamente quelle iridi verdi, in cui germogliavano foreste dov'era facile perdere la bussola delle proprie certezze, sembrava di aver visto l'ombra di una sconosciuta?
ANGOLO AUTRICE
Buonasera, nightingales! 🕊
Ed eccoci qui con la fatidica parte due, come promesso.🖤 Insomma, a quanto pare se dovessimo sommarla alla prima parte sarebbero uscite la vergogna di dodicimila parole. Che schifo, unico commento che mi sento di fare a riguardo.
Tornando a noi: in questa seconda, corposa parte accade un fatto che, seppur abbastanza cliché nei romance, l'avevo trovato come unico espediente "sensato" per una serie di cose che mi serviranno più avanti. Effetto a catena, chiamiamolo così. E avevo bisogno che non fosse una cosa leggera, per intenderci. A causa di ciò, Olivia non può andare fino in fondo con la sua missione e, frustrata, addosso parte del suo fallimento a Ophelia. Dopodiché segue tutto il "discorso anti-motivazionale" che le fa, lasciandola sola, in modo tale che "rifletta" sulla sua perenne disattenzione. Qui, purtroppo, non posso sbilanciarmi. 😬
Dall'altra parte, invece, Ophelia ha modo di scambiare due chiacchiere col suo salvatore, che è di tutt'altro avviso. Anche qui, non posso sbilanciarmi.
Questions:
♪. Olivia avrà dei rimorsi? Ci ripenserà?
♪. Ophelia ne parlerà con la sua famiglia?
♪. Ma questo tipo sembra proprio un ancieloH cascato giù dal cieloH. Chissà se avrà modo di riapparire. Oppure, magari, è stata solo una botta di culo provvisoria, della serie: Ophé, visto che sei così sfigata, almeno ti do una mano, dai, almeno mi sento meno in colpa.
♪. Questo è importante, non è tanto una domanda-domanda, ma mi preme chiedervi se il modo in cui all'inizio Liam ci prova con Ophelia non abbia destato sospetti in voi, come lettori. Perché il mio scopo ultimo era proprio quello di insabbiare le sue vere intenzioni, all'inizio della chiacchierata perlomeno, perché poi diventa palese. Anche perché penso che il dubbio sia iniziato ad arrivarvi quando Ophelia osservava i suoi comportamenti strani. Chiariamoci: nella realtà, come dice l'uomo stesso alla protagonista, non si mostrano mai palesi... E se nel caso, sin da subito, lo abbiate pensato, ditemelo. Così in revisione saprò che devo sistemarlo e insabbiare ancora di più. 🖤
Fun fuct: mi sono ispirata, anche per l'andamento dell'incidente, a un esperimento sociale che il servizio delle Iene, anni e anni fa, avevano trasmesso in tv. Esperimento che, chiaramente, si ispirava a un caso realmente accaduto.
A voi la parola! A presto! 🍓✨
Spero di pubblicare il prossimo capitolo presto, anche perché sarà di passaggio. ✨
Curiosità:
▪ Negli Stati Uniti, la carica più alta nella polizia locale è lo sceriffo.
Playlist:
Walkthrough! - GRIP feat. Eminem (prima parte fino a quando si scontra l'altro amico di Liam)
Got Well Soon - Breton (da lì fino alla fine della prima parte)
The Only Way - Tricky (seconda parte)
Instagram: The_blackcatshadow
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