5. Occhi 𝘪𝘯 alto - Pt. 1
5. Occhi in alto - Pt. 1
🔊Ps musicale: lettura più coinvolgente dalla seconda parte in poi, con l'accompagnamento delle canzoni citate ✨
La matematica, per quanto articolata, conteneva dei concetti elementari che potevano essere applicati anche nel linguaggio.
L'avevo realizzato in quell'arco di vita in cui il lato introverso aveva preso le distanze dal mio carattere, per poter lasciare spazio a una discreta spigliatezza. Se solo mi soffermavo a ripensarci, mi risuonavano le parole che Allan mi rivolgeva da bambina. Diceva che parlare funzionava come una palestra: più ti allenavi a farlo, più si irrobustiva il linguaggio e meno paura avevi ad approcciartici. Di conseguenza, le probabilità di bloccarsi diventavano minime.
Tuttavia, trovavo incredibile che esistessero combinazioni di lettere - prefissi e suffissi - in grado di ribaltare il significato delle parole, arrivando a sottrarglielo e rendendole difficili da pronunciare per delle persone come me. Nel mio mondo l'avevo interpretato come l'ennesima sfida: una volta superato il blocco che mi frenava da piccola e compreso che le parole avevano un peso non indifferente, avevo imparato a dosarle, a evitare quelle più denigratorie. Adesso, al culmine dei miei vent'anni, i prefissi più infelici erano diventati un monito costante. Anche ora, mentre cercavo di dare gli ultimi ritocchi al mio abbigliamento.
«Inadeguata.»
Ed eccole lì, addizione e sottrazione incanalate in un'unica parola. La formula era piuttosto semplice: bastava aggiungere "in", due lettere inoffensive eppure in grado di rovesciare il valore del termine. Si sottraeva positività aggiungendo negatività, scaturendo una conversione inarrestabile, che non solo anneriva il concetto, ma anche lo stato d'animo del soggetto a cui era rivolto.
«Inadeguata.»
Avanti così, per anni, un giradischi che si inceppava sul prefisso sciagurato. Riflettendoci, si poteva chiamare istinto di conservazione: crearsi uno scudo autodenigrandosi, affinché rimanesse inculcato in testa chi fosse l'artefice delle proprie disgrazie. Non gli altri, mai gli altri. Non esisteva alcun colpevole esterno, nessun capro espiatorio a cui addossare la colpa, nessuna giustificazione per comportarsi da vigliacchi. Mi era stato detto e ripetuto: la colpa, o il merito, era sempre di chi scatenava l'effetto farfalla. Desiderato o indesiderato che fosse. Anche Olivia condivideva quel filone di pensiero.
«Inadeguata, Ophelia, incredibilmente inadeguata.»
Lo mormorai ancora, davanti allo specchio affisso alla parete, quasi si trattasse di una preghiera. Mi posizionai di profilo, la mano sul ventre piatto, ora coperto dalla delicatezza di un top incrociato alla base del collo, che andava però a mettere in mostra le scapole.
C'era troppo caldo per indossare qualcosa con le mezze maniche. Contribuivano già ad accaldarmi dei jeans lunghi e attillati, e gli strappi alle ginocchia rappresentavano le uniche fessure che consentivano alla pelle di respirare. Li adoravo, ma fuori, seppur fossero le undici di sera, c'erano almeno venti gradi di umidità.
Speravo nell'intervento di una miracolosa nevicata.
Ma a giugno sarebbe stato da ritenere come l'anticipo di una fine del mondo imminente. Non che l'avessi ritenuto un problema.
Anzi.
«Merda» mi sfuggì in preda all'angoscia, a bassa voce, mentre continuavo a mulinare il corpo a destra e a sinistra, imitando le mosse di Olivia. «Come faccio a... Come diamine... Dio, come posso fare.» Mi strinsi le braccia nude e accalorate, in un abbraccio solitario. Non riuscì a confortarmi. Ero ancora troppo scoperta. Gente, casino, centinaia di occhi addosso, agganciati come uncini. «Fai ancora in tempo a fingerti malata, a inventarti qualcosa, dai.» Frizionai i capelli mossi in un gesto nervoso, lisciai una ciocca dietro l'orecchio, tamponai le viti degli orecchini. «Olivia, senti, io ho la febbre, non posso più venire, sì... è successo all'improvviso. I misteri della vita, già. Probabilmente gira un virus, capisci? Non vorrei mai che ti contagiassi e rovinarti così una serata tanto importante e...»
Bussarono alla porta.
Senza staccare gli occhi dal riflesso, proferii: «Sì?».
«Posso? O non è un buon momento?»
La voce apparteneva ad Allan.
«No no, entra pure.»
La maniglia si abbassò e dall'uscio comparve la capigliatura rada di mio padre. Era un fruscio di capelli sbiancati dalla mezza età, occhi leggermente incurvati in parabole ridenti, e rughe che drappeggiavano una pelle scialba, ma che sortivano un effetto stranamente... brioso, come se in qualche modo volessero sorridere insieme al loro proprietario. L'impressione di chi lo incontrava la prima volta era identica alla mia: un angelo senza aureole.
«Wow, stasera qualcuno potrebbe rapire mia figlia.»
«Vedi? Ecco perché dovrei rimanere a casa!»
Chiuse la porta e piegò la testa all'indietro, scoppiando in una risata di gola. Poi, piazzandosi dietro di me, mi afferrò per le spalle e me le scrollò avanti e indietro, facendomi diventare una bambola di pezza.
«Fammi indovinare: non stai più nella pelle.»
Le mie mani erano ancora strette alle braccia. «È così evidente?»
Fissai lo specchio in uno stato di dolorosa rassegnazione. Allan non era il genere di persona che spiccava per l'altezza, gli arrivavo alle spalle, ma compensava con una personalità raggiante a torreggiare sul resto. Ero la sua fotocopia, fino a qualche anno prima.
«Diciamo che se mostrassi un entusiasmo più convincente allora non sarei qui.» Stirò un sorriso su delle labbra inesistenti, sottili, un tutt'uno con la pelle pallida. «Prima, a tavola, ti ho vista molto sulle tue... L'ha notato anche Cordelia, ma ha preferito non dire nulla.»
Gli osservai le pieghe del pigiama monocolore, di un bordeaux scolorito dai troppi lavaggi in lavatrice, poi le pantofole. Alla fine annuii, mordendomi il labbro. Ero sicura che cogliesse al volo.
«Il solito disagio?»
Annuii di nuovo.
«Se può farti stare meglio la gente guarda di continuo, ovunque e chiunque. Per quanto possa infastidire è qualcosa che non puoi privare a nessuno» spiegò candidamente, e alle orecchie fluì come un balsamo, in grado di addolcire i tormenti. «Osservare rientra nella natura umana, Ophelia, è un senso vitale. L'uomo, sin dalla Preistoria, si affidava alla vista non solo per preservare se stesso, ma anche per studiare il territorio, le abitudini degli animali da cacciare e, ovviamente, anche la prossima donna da andare a corteggiare.»
Riuscì a farmi ridere, lui mi seguì. Ma durò poco, la risata si affievolì e l'attenzione ricadde sulle sue pantofole. «Secondo te... rimarrò così? Con questa paura a bloccarmi?»
Pensarlo, mi provocò un brivido lungo la schiena.
«No, figlia mia. Niente rimane immutato.»
«Lo dice la scienza?»
«Lo dice la vita.»
«Eppure sono passati anni, e gli occhi della gente continuano a terrorizzarmi, papà...» Percepii le iridi pizzicare. «A volte mi convinco, sai, in quei momenti in cui ci penso... che se non avessi fatto quello, non lo so, a quest'ora sarei ancora un filo normale...»
«Ehi.» Alzai lo sguardo. «Tu sei normale e, credimi, sei migliorata tantissimo. Una volta neanche uscivi di casa, ricordi?»
Ricordavo, e ricordavo le sere passate ad affogare le lacrime nel cuscino, a impormi di smettere di parlare, che non volevo più farlo, come se esistesse un interruttore tra le corde vocali, un click capace di ripristinarmi a uno stato di quando ero bambina, quando nemmeno capivo perché non riuscissi a dialogare come qualsiasi altro coetaneo.
Inadeguata. Anche la mia voce si era sentita così.
Allan si allontanò da me e, spostando uno dei cuscini ornamentali, si sedette sul mio letto. «Vuoi saperla una cosa?» Appoggiò le mani sul materasso, premendoci sopra qualche volta, poi le giunse. «Oggi è venuto a fare una seduta di logopedia un bambino. È nuovo, molto timido, magrolino, i genitori mi pare siano portoricani, o comunque di quelle zone. E indovina un po'?»
Corrugai le sopracciglia in un lampo di confusione. Intuii con qualche secondo di ritardo. Se mi chiedeva di tirare a indovinare su un contesto del genere, non poteva che intendere soltanto una cosa.
Anticipai un sorriso, che subito imitò.
«Sì, Ophelia. Come te. A differenza tua, però, non si azzardava a guardarmi. Al che, a un certo punto, gli ho chiesto se era la mia brutta faccia a spaventarlo, se magari avessi dovuto nasconderla con una busta. Vedessi quanto ha riso.» Si grattò la barba, sospirando, gli occhi azzurri gli si riempirono di una dolce nostalgia. «Ad ogni modo... mi ha ricordato te, quando avevamo deciso di prenderti con noi. Gesù, eri così minuscola che quando avevi varcato casa nostra potevamo ricreare la scenografia di Jack e la pianta di fagioli.»
Presi posto accanto a lui. Istintivamente, posai la testa sulla sua spalla, che accolse circondandomi le spalle con un braccio. «A volte penso di esserlo ancora, piccola fra i giganti» mormorai.
«Perché continui a pensarlo?»
«Perché ho dato troppa importanza a qualcosa che mi ero costruita da sola, e che per questo avevo ritenuto grande.» Avvertii la presa sulla spalla stringere appena. «Poi ho visto che non era così e...»
Premetti le labbra fra loro, smorzando la frase.
Allan ebbe il tatto di attendere qualche istante prima di rispondere. «Lo so. La voce, per te, ha sempre avuto una valenza più, come dire, viscerale... e visti i tuoi trascorsi è comprensibile. Ma solo perché la gente non ne riconosce l'importanza, non vuol dire che tu debba privartene. Questa...» Unì indice e medio e li picchiettò due volte sulla mia gola, quasi stesse bussando a una porta invisibile. «... è di tua proprietà, Ophelia. La comandi tu, la usi tu, tu sola ne hai la chiave, mai gli altri. Se si rifiutano di starti a sentire, o se dovessero ridere di te, bene, lasciali ridere, lascia che si tappino le orecchie. Sii più testarda di loro: continua a fare quello che ti sei promessa di fare.» Mi allontanai dalla sua spalla per guardarlo. Sorrideva, e in quel sorriso sguazzavano tanti di quei incoraggiamenti che, come minimo, avrebbero dovuto sollevarmi. In quel momento, su di me, non sortirono l'effetto da lui sperato, bensì quello della pioggia sulla cerata, scivolando via. «Cerca di considerare quello che è successo come un caso isolato, non come una verità universale, va bene?»
Stavo per rispondere, ma tre colpi allo stipite della porta mi fecero sobbalzare. Olivia, impettita in un abito che le arrivava fino a metà coscia, era ferma sulla soglia. Ci fissava inespressiva, ma una lievissima flessione delle labbra determinò la comparsa di un sorriso.
«Non vorrei metterti fretta, ma si sta facendo troppo tardi.»
«Sì, giusto.» Scattai in piedi, infilando degli spessi sandali sabbia che si erano rintanati sotto al letto. «Cinque minuti e ti raggiungo.»
«Non di più.» Scrutò i miei indumenti, soffermandosi sulla parte superiore. Non mi passò inosservata la piccola smorfia che assunsero le labbra tinte di rosso, come se avesse assaporato qualcosa di aspro. Durò un nanosecondo, prima di salutare nostro padre con uno dei suoi sorrisi smaglianti. «ʻNotte, caro papà. Buona serata a te e a quel povero pigiama che necessiterebbe al più presto di un rimpiazzo.»
Si tese la maglietta, fissandosela. «Ehi, ci sono affezionato!»
«Tipica risposta degli accumulatori seriali.»
«Uno a zero per te» le concesse, ridacchiando. «E mi raccomando: cercate di fare attenzione, non si sa mai chi...» Olivia, sospirando, si era dileguata. Allan mi guardò. «Faccio così male a esprimere la mia preoccupazione da padre super stereotipato quale sono?»
«Penso detesti gli avvertimenti.»
«E gli stereotipi.» Olivia si riaffacciò. «Due minuti, sorellina.»
Sparì un'altra volta, stavolta sul serio. Io, davanti allo specchio, feci un respiro profondo e afferrai la pochette. «Allora vado.»
«Cerca di divertirti.»
«Ci proverò.» Mi voltai, rivolgendogli un'espressione derisoria. «Quindi, in caso qualcuno tentasse di rapirmi, acconsentiresti?»
«Facciamo di no, che le denunce sfiancano.» Mi fece ridere. Con lui è sempre così facile. Poi si diede due colpetti alla gola, come aveva fatto con me. Il nostro messaggio in codice. «Ok?» disse solo.
Copiai il gesto. «Ok.»
Inadeguata.
Inadeguata.
Inadeguata.
Da Chestnut Hill al famoso Down Nightclub ce l'eravamo cavata in una scarsa mezz'ora. Avevo ingenuamente pensato che si trovasse nel nostro beneamato quartiere, cosicché il viaggio di ritorno sarebbe stato altrettanto rapido, per la mia felicità. Invece, era locato a undici miglia da casa nostra, nell'elegante sobborgo di Rittenhouse Square. Era un quartiere altrettanto noto per la raffinatezza custodita nelle arterie cittadine e, in special modo, per il Rosenbach Museum & Library.
Tuttavia, per l'intera mezz'ora, avevo messo in atto le migliori strategie per placare l'esordio di un attacco d'ansia: attorcigliarmi le mani sudate, battere silenziosamente il piede sul tappetino, contare la trafila di lampioni che illuminavano la quindicesima strada mentre alla radio passavano Chantaje. Olivia, che guidava gasata, non aveva fatto altro che canticchiare questa o quella canzone con un'euforia tale da non far nemmeno caso alle parti in cui inventava le parole del brano. In altre circostanze avrei permesso ai muscoli di sciogliersi e di unirmi a lei.
Una volta vicine alla destinazione, posai la tempia al finestrino congelato. Fuori, spiccavano schiere di camicie sbottonate, cravatte allentate, scarpe lustrate. Senza contare degli orecchini elaborati, le acconciature vaporose, le borsette tempestate di lustrini, in sintonia con degli abiti che diffondevano più luce di quanto facesse la luna. Emergeva gente, soprattutto. I miei occhi non riuscivano a dislocare l'attenzione da quel dettaglio spaventoso: gruppi di persone che andava accumulandosi. Non ci voleva un genio per capire che stessero procedendo verso il Down Nightclub.
L'istinto di aprire la portiera e lanciarmi fuori dalla macchina mentre era ancora in corsa stava scavalcando qualsiasi priorità.
Non che ne avessi molte, al momento.
Le porte trasparenti del nightclub, da cui filtravano lame di luci variopinte, affacciavano sulla carreggiata. Trovare un parcheggio nei dintorni non si dimostrò semplice. Dopo aver ascoltato le imprecazioni di Olivia su un pedone che le aveva tagliato la strada e aver girato in lungo e in largo per le stesse strade secondarie, nella speranza fosse la volta buona, avvistammo un'Audi andarsene. Posteggiammo sul lato del marciapiede opposto al locale.
Mia sorella abbassò lo specchietto sopra il volante per darsi una ravvivata ai capelli, già perfetti di loro, e una ripassata con il rossetto scarlatto. Non potei fare a meno di guardare lei, e poi me.
Stramaledettamente inadeguata.
A valorizzarle il fisico, definito da lei stessa un tempio che non poteva permettersi di danneggiare, c'era un abito attillato, rigido, di un nero che ricordava l'ossidiana più pregiata. Eppure, nonostante lasciasse intendere pura durezza, su di lei il tessuto sembrava tramutarsi in una forma liquida; scivolava sul suo corpo come petrolio, risaltava le curve del seno, accarezzava il bacino, lambiva interamente le braccia. A marcarne la vistosità, ci si metteva una sfolgorante pioggia di pailettes, dando l'idea di essere la personificazione della notte rinchiusa in una palla stroboscopica, e una vertiginosa quanto sensuale scollatura a V da cui affioravano i seni, che a occhio esterno apparivano come due mezzelune opposte, quasi fossero state disegnate con la leggerezza di una matita.
"Guardatemi, sono qui, sono la luna che illuminerà la vostra favolosa serata" pareva volesse urlare tutto quel nero sfolgorante.
"Non guardatemi, vi prego, sono solo un oggetto aerospaziale che le sta passando vicino per puro caso, ma adesso me ne vado, lo giuro" pareva volesse invece giustificarsi il mio outfit anonimo, privo di particolarità emergenti. Ma in fin dei conti era voluto.
Meno occhi addosso.
Attraversammo la strada, qualcuno corse a pagare il posteggio intanto che estraeva il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni, altri uscirono dall'ascensore lateralmente al locale, che presumevo conducesse al parcheggio sotterraneo. Quindi, superata la calca iniziale, Olivia ed io ci rintanammo dietro a un gruppo di quelli che davano l'aria di essere dei liceali, massimo matricole. Alcuni di loro, probabilmente, non avevano ancora compiuto ventun anni e, fra gli sghignazzi, trapelarono complotti su come riuscire a bere alcolici servendosi dell'unico membro della banda che poteva permetterselo.
Sorrisi. Anch'io avevo escogitato una cosa simile quando...
Mi rabbuiai, guardando a terra. No, meglio non pensarci.
Una ragazza della combriccola, dall'accento spagnolo e la pelle olivastra, si voltò mentre stava ancora chiacchierando. Non appena gli occhi si soffermarono su Olivia, impegnata a scorrere il pollice sul telefono, li sgranò. Diede una gomitata alla sua vicina, facendola girare. Io, per quanto possibile, mi allontanai di qualche passo.
«Santa Madre de Dios, è lei.»
«Ma chi?»
«Come chi? È...» Roteò le mani alla cieca, schioccò le dita anellate. «Su Cosmopolitan! Dai, non ti ricordi? Il numero con Gossip Girl, l'abbiamo comprato insieme la settimana scorsa!»
«Oddio, aspetta...» L'amica volle verificare sul cellulare, smanettò qualche istante, fece su e giù sulla schermata, allargò qualsiasi cosa avesse sotto mano, e poi, dopo un ultimo accertamento, spalancò la bocca. «Cazzo, non ci voglio credere!»
Olivia, che nel frattempo aveva assunto un'espressione che rasentava il fastidio, cacciò il telefono nella sua borsa in malo modo. Non sembrava contenta, qualsiasi cosa avesse visto. Notando però che quelle ragazze stavano letteralmente pendendo dalle sue labbra, tornò subito composta e accennò un «Sì?» con un sorriso di cortesia.
Le due si lanciarono uno sguardo entusiasta.
«Olivia Burns? La modella?»
«In persona.»
«Oh mio...» si stava agitando una di loro, ma si ricompose. «Sono anni che ti seguiamo con Cosmopolitan e Teen!»
L'altra sollevò una borsa dall'aria costosa. «Questa l'ho presa grazie a una delle tue sponsorizzazioni. Però a te stava meglio...»
«E sei fantastica, una fonte di ispirazione!»
«Bellissima, oltretutto. Dal vivo ancora di più!»
Olivia si portò con diligenza la mano davanti la bocca e accennò una risata delicata. «Siete adorabili. Certo, comunque, fate pure.»
Si diede una sistemata studiata ai capelli, trascinandoli su una spalla sola, e inclinò leggermente la testa. Le ragazze si appostarono davanti a lei, cosicché fosse al centro. Occhi seducenti, ciglia a mezz'asta, labbra che abbozzavano un sorriso... freddo, in contrapposizione con la temperatura che impregnava la città.
Credetti fosse più un'allusione, la sua.
La ringraziarono, la surclassarono di complimenti, le augurarono di guadagnare ancora più fama, che se lo meritava. Mi resi conto che molti si erano voltati per studiare l'origine di quell'entusiasmo; alcuni la riconobbero assumendo sguardi di adorazione, altri rimasero confusi. Un ragazzo sbucò tra la folla e raggiunse le due, posandogli scherzosamente le mani su entrambe le spalle, attirandole a sé. Lui, tutto tatuaggi, squadrò Olivia dai tacchi a spillo ai capelli.
«Che coincidenza, sono anch'io un tuo grande fan.»
Poco distante, qualcuno urlò: «Ci si fa le seghe sulle tue foto!».
Risata generale.
Olivia non si scompose.
Le due ragazze che si erano scattate la foto le lanciarono occhiate colme di scuse e trascinarono il tale insieme a loro. Avanzammo verso l'ingresso che, intanto, si era svuotato. Quello che dedussi essere il proprietario, in mise formale, cacciò educatamente fuori un ragazzo perché non rispettava il codice di abbigliamento.
Lo accompagnò alla porta, dove gli indicò sulla vetrata la lista degli abiti che non tolleravano si indossasse. L'uomo fece cenno ai pantaloni troppo larghi, tipici degli skaters, il giovane la prese male.
«Poppanti» mormorò Olivia, gelida.
«Ti ha messa a disagio?»
«Cosa?»
«L'allusione di prima, cioè...»
«Le seghe? Sapessi quanto me ne importa.» Rise a bocca chiusa. «Sono consapevole che un corpo come il mio non lasci indifferente. Peccato che lo faccia anche su certi esemplari di homo sapiens con le braghe a terra. In effetti, dovrei esserne quasi offesa. Quasi.» Riprese il cellulare in mano intanto che una donna dello staff, dopo essersi assicurata che rientravamo nel codice, ci faceva segno di entrare.
Vergognosamente inadeguata.
Il primo pensiero una volta piombata dentro.
Se la formula semplice prevedeva l'aggiunta del prefisso "in" a ribaltare valori e significati, quella complessa prevedeva l'accompagnamento di un avverbio di natura... tragica. Doppia aggiunta, effetto doppiamente soffocante. E io mi sentivo asfissiare lì, nelle viscere di un immenso spazio psichedelico, dove l'oscurità incarnava la vitalità di un muscolo cardiaco. Bum, bum, bum, bum. Celeri palpiti di buio che si alternavano ad altrettanti palpiti di luce. Bum, bum, bum, bum. Stilettate di viola e di blu che colpivano centinaia di teste in movimento, corpi che si muovevano sgraziati, bicchieri che si scontravano, bevande che strabordavano. Bum, bum, bum, bum. L'avidità del buio che andava e tornava come un amante insistente, sputando e inghiottendo volti con l'ingordigia di un animale. Bum, bum, bum, bum. I bassi di una canzone dei GRIP facevano vibrare le pareti in mattoni, gabbia toracica che imprigionava un cuore di risate e respiri mozzati. Bum, bum, bum, bum. E le orecchie assimilavano, i muscoli bramavano dal desiderio di danzare, i sensi subivano un'amplificazione al limite del mistico.
Avevo rimosso cosa significasse trovarsi dentro la mischia.
Ad ogni modo, la fatica che riscontrammo per poterci muovere rasentò l'improponibile. Olivia, a differenza mia, era disinvolta; scansava a testa alta, regalava sorrisi artefatti, i tacchi scandivano una camminata sicura, di chi voleva far sentire la sua presenza. Era una dote, sospettavo, l'entrare in simbiosi con un ambiente tanto opprimente, non aver paura dell'adattamento, essere una calamita in qualsiasi circostanza. Infatti, chi le stava attorno non poteva resisterle; si voltava, si lasciava sedurre dal nero che indossava, sebbene l'oscurità già presente nel locale. Ma la sua era più potente, attraente. Brillava, paradossalmente. Non era chiaro se fosse per la quantità spropositata di lustrini addosso, o se per l'aura accattivante.
Profondamente inadeguata.
Proseguendo con le braccia schiacciate al petto, capii che l'unica fonte di illuminazione proveniva proprio dal bar situato al centro del locale. Creava un quadrato perfetto; all'esterno le persone sedevano indisturbate, all'interno barman acrobatici si prodigavano a far volteggiare bottiglie e shaker. Elemento che sortiva un effetto magnetico erano le barre a led che serpeggiavano attorno al bancone e alle mensole in cui venivano esposte le bottiglie. Anche il palchetto nascosto all'angolo era ravvivato dallo stesso trattamento futuristico, come pure la piattaforma riservata al deejay ospite della serata.
Con tutta questa accozzaglia di luci e ombre non può vedermi nessuno. Fu una rassicurazione che contribuì a tranquillizzarmi.
Ci accomodammo sugli sgabelli che circondavano il bar, meditando che non mi sarei mossa da lì fino alla fine della serata.
Olivia riprese il suo telefono. Scorse, scorse, e scorse. Era nervosa. Infine, si soffermò su una storia di Instagram. «Finalmente.»
Mi avvicinai per curiosare la foto che stava studiando. Scoprii essere un video di pochi secondi: una panoramica del nightclub.
«Cos'hai visto?»
«Il tipo che lavora per il caro Tom ha pubblicato una storia. È qui da qualche parte. Ma a giudicare dalla posizione dovrebbe...» Sollevò il collo, la testa scattò a destra. Assomigliò a una giraffa che si protendeva per la foglia di un ramo troppo alto. «Oh, bingo.»
Puntava il lato destro dell'area bar.
Purtroppo, la schiera delle bottiglie sugli scaffali illuminati non mi aiutò a inquadrare il soggetto. Olivia sfoggiò un sorriso tutt'altro che angelico quando ripose il telefono, stavolta definitivamente.
«Sicura che sia lui?»
«Certo che sì, se no non mi sarei presa la briga di passare una serata qui. Dopo settimane di stalking con un account fake e controlli incrociati con le voci che giravano ho avuto la mia certezza. Cento per cento, Ophelia, sempre. Il novantanove non è mai contemplato.»
Tipico: programmava sempre tutto.
«Ok, bene, fantastico, quindi... io che centro?»
Per non farla sembrare una domanda troppo brusca, ci inserii in mezzo una risata nervosa. E no, il nervosismo non era simulato.
Lei drizzò la schiena e mi osservò come si osservava un'ingenua. Ancor prima di rispondermi sfilò dalla borsetta il suo mazzo di chiavi, che adagiò sul mio palmo. Erano quelle appartenenti alla BMW. «Stammi bene a sentire, perché il tempo è denaro e quell'occasione che porta il nome di New York Fashion Week potrebbe andarsene da un momento all'altro.» Appoggiò i gomiti sul bancone, aprì bocca, ma un ragazzo la bloccò avvicinandosi con un drink. Lo fulminò insieme a un celere: «Sono astemia, no entiendo el idioma.» Non capì. «Cristo, abborda la mora di un altro tavolo!».
Evaporò. Olivia tornò a me, il sorriso più gentile.
«Dicevamo» riprese, paziente. «Sto per andarmi a sedere casualmente vicino a quell'uomo. Il mio obiettivo è di lavorarmelo per bene entro la fine della serata, ok? E sai cosa accade quando si lavora per lavoro, no?» Feci per annuire, feci per negare, alla fine creai un cerchio con la testa. «Ci si offre da bere, si fa gli amiconi, si parla di hobby, dei frutti del proprio successo, si potrebbe anche cedere a qualche tipo di avance. E qualora accadesse, Ophelia, io berrò. Quanto, ti chiederai. Beh, quanto ci vorrà per assecondarlo. Uno, due, tre drink al massimo. Non sono così idiota da rovinarmi l'immagine in un locale di questo rango, e non sono così idiota da permettergli di approfittarsi di me, sai, casomai si trattasse di un tipo poco raccomandabile.» Avevo la bocca aperta di fronte a tutte quelle ipotesi mentali. «Quindi, se tutto va come premeditato, continuerà a guardarmi la scollatura, a fare qualche complimento, cercherà un contatto. Io lo asseconderò, sarò indulgente, farò in modo di compiacerlo, potrei addirittura essere io a cercare qualche contatto.» Voltò la testa verso l'obiettivo, poi tornò da me, seria, fredda. «Potrei portarmelo a letto se la situazione dovesse richiederlo, chiaro?»
«A letto.» Razionalizzai, sgranando gli occhi. «A letto?»
«A letto. È pure bello, sarei scema a non lasciarci un pensierino.»
«Ferma, Liv, fermati un momento.» L'afferrai per le braccia, per frenare quel delirio in rotta di collisione. «Non ti giudico, lo sai, ma il tuo ragazzo non avrebbe qualcosa in contrario da dire...?»
Inclinò la testa, riflettendoci. «Dipende. Di chi stiamo parlando?»
«Non ti ricordi il nome?!»
«No, intendo, chi dei due. Non so se ricordi, ma ultimamente mi vedevo anche con Drew.»
Di bene in meglio. «Intendo Adam.»
«Oh, Adam, certo» esclamò, sventolando la mano. «Avevo intenzione di mollarlo. Cominciava ad accollarsi troppo, iniziava a delirare sulla convivenza.»
«Dopo appena un anno?»
«Patetico, vero?» disse, sfregandosi le unghie smaltate di rosso. «Tornando a noi, a prescindere da come andrà la serata, la mia macchina la guiderai tu. Se la cosa non va in porto, ma ne dubito, mi eviterai una possibile multa. Se la cosa va in porto e il tipo volesse prolungare la serata... beh, te ne potrai andare a casa da sola. La mia bimba posteggiata là fuori ha un certo valore, di sicuro non la userò per una botta e via. Non me lo perdonerebbe mai, capisci?»
La guardai, sperando saltasse fuori lo scherzo.
Invece no, a quanto pare era serissima.
Sospirai, cercando di ingoiare tutti quei timori che mi si stavano radunando in gola. Se lei si sarebbe allontanata, se quel faro che reclamava le attenzioni se ne sarebbe andato... io mi sarei sentita perduta, esposta, nuda. Una nave senza il suo porto sicuro. Mi aggrappai alla speranza che la serata si svolgesse in tempi brevi.
Sfregai la chiave tra le dita, annuendo. «Farò il tifo per te.»
«Ed è anche per questo che sei qui.»
Mi diede un rapido abbraccio, che sciolse nel giro di pochi secondi, quasi si trattasse di un gesto default. «Stai attenta.»
Non mi sentì. La folla l'aveva già inghiottita.
Il momento più alto della serata: controllare l'ora.
Le undici e mezza si erano tramutate in mezzanotte, poi in mezzanotte e tre quarti. Il tempo si congelava e scioglieva a ripetizione, al punto da darmi l'impressione che le cifre dei minuti non volessero più progredire. E io rimanevo inchiodata al mio posto, senza mai alzarmi, usufruendo della cannuccia di un drink analcolico per giochicchiare con i cubetti di ghiaccio rimasti a riempire il fondo.
Giusto per dimostrare di essere ancora viva.
Ogni tanto mi concedevo di guardarmi intorno, non che le tenebre del nightclub mi permettessero di osservare alcunché. Il senso di inadeguatezza, però, emergeva violento ogni volta che la schiena scoperta veniva sfiorata dai ragazzi che si facevano largo dietro di me, poiché gli spazi fra una persona e l'altra erano estremamente ridotti. Ci si trovava appiccicati a prescindere, urtando questo o quel braccio, condividendo la stessa aria, gli stessi respiri, gli stessi odori. Troppo soffocante, mi sento calpestare. Quando la sensazione diventava insostenibile, stringevo la cannuccia fino a sbiancare le nocche e cercavo di sfogare il nervosismo schiacciando il ghiaccio ancor più in fondo, sopprimendolo insieme al mio stato d'agitazione.
Lo stai facendo per tua sorella, ricordatelo.
Me lo ripetevo, me ne facevo una ragione, e ogni volta guardavo trepidante il punto che aveva raggiunto Olivia, sperando sempre di vederla alzarsi vittoriosa e proclamare di aver concluso la missione.
Illusa, se non va fino in fondo non si schioderà mai da lì, lo sai.
Grazie all'illuminazione del bancone, riuscivo a intravedere i lunghi boccoli, la bocca muoversi, la scollatura inequivocabile del vestito. Aveva appena iniziato a sorseggiare il secondo drink. Mi era venuto naturale contarglieli, ingenuamente pensando che magari, troppo presa dalla missione, non ci facesse caso e la serata sfociasse in disastro. Tuttavia, riconobbi che aveva davvero la situazione sotto controllo. Di cosa mi sorprendevo? Lo aveva sempre, il controllo. Inoltre, le sue previsioni si stavano dimostrando esatte: la chiacchierata con chiunque stesse parlando, con chiunque le potesse assicurare di partecipare a una delle sfilate più importanti nella storia della moda, si stava protraendo per le lunghe; la vedevo sistemarsi i capelli, ridere composta, tentare di esporre quello spicchio di carne inclinandosi in avanti, accarezzare provocatoria la cannuccia, per sovrastare la musica si faceva ripetere le parole all'orecchio dall'interlocutore, approfittando così di poter azzardare un contatto.
Lei gli posava la mano sul polso, lui sulla gamba accavallata.
Come fa a catturarli così, come se fosse elementare?
Picchiettai le unghie sul bordo del bicchiere a ritmo di Crimewave, annoiata, indirizzando l'attenzione sui tavoli lungo il perimetro, su un ulteriore passaggio che sboccava in una piccola discoteca, sul un palchetto vuoto ma illuminato da fari violetti.
Andai avanti così per un tempo indefinito, con gli occhi che risucchiavano particolari, e la mia bolla silenziosa che risucchiava rumore. Da una parte si levarono dei cori, poi una canzone stonata, qualcuno prese a fare un brindisi a proposito della laurea presa in giurisprudenza. Dall'altra, una ragazza ubriaca urlava la sua felicità di essere single. E le assimilai, quelle diversità di voci. Delicate, baritonali, scherzose, stridule. Finché non diventammo amici intimi.
Nel profondo, ammiravo la facilità con cui gridavano assurdità.
Sostenni la guancia con un pugno, l'occhio si soffermò di nuovo su mia sorella, poi sul posto accanto, dove due miei coetanei si stavano parlando all'orecchio, continuando a fissare il posto vicino al mio, dove prima sedeva Olivia. Lei non c'era, e il posto era vuoto.
No.
Guardarono me, in sincronia.
In uno di loro ombreggiò un sorriso timido.
No, vi prego, no.
Mi affrettai a distogliere lo sguardo sul mio bicchiere, il cuore che pompava forte. Non guardatemi, per favore. Gli diedi le spalle, girandomi completamente a destra. Non riuscite a capire quanto sia di una noia mortale? Sto fissando un bicchiere vuoto da un'ora, apposta, e non ho nemmeno addosso vestiti che luccicano... Perché perdere tempo a posare l'attenzione su qualcosa che sta palesemente pregando di non volerne?
Sperai di aver visto male e che, più credibile, stessero puntando una mia vicina. Sì, è di sicuro così. Ma nel controllare mi accorsi che non c'erano ragazze, nemmeno una, bensì due uomini. L'uno, seduto, era accasciato come un cane bastonato; braccia e mento riverse sul marmo, nel mezzo uno shottino ancora pieno. L'altro mi dava la schiena, bacino e gomito poggiati al bancone, dedussi che preferiva rimanere in piedi. Conservava una mano nella tasca di un pantalone, dal polso spuntava un orologio. C'era un posto di distanza fra di noi, ma fu abbastanza perché li sentissi dialogare.
«Dimmelo, amico: è colpa mia?»
«No, Ian.»
«Se lo ammetti me ne farò una ragione, giuro.»
«Ho detto no.»
«Non mi fido di te.»
«È un problema tuo.» La sua mano uscì dalla tasca e afferrò un bicchiere. «Stamattina ho dovuto concludere un paio di progetti urgenti per il signor Sanders, e la sveglia alle quattro non è stata esattamente la mia idea di inizio weekend. Quindi, amico, se mi hai trascinato fin qui per sentirti dire sì, sei uno stronzo, avresti potuto farmi il favore di avvisarmi non adesso, ma un'ora fa. Non sono particolarmente incline alla gentilezza, all'una di notte.»
L'amico non disse nulla. Lo fissò.
«Allora è colpa mia?»
«No.»
«Ecco, lo sapevo» borbottò, gettando la fronte sul tavolo. «È già la terza volta che succede. Se non amassi tanto mettermi in mostra, adesso starei ancora con la mia adorata. A farmi una bella scopata, magari. Invece sto qui, con te. Cazzo, la mia vita fa davvero schifo.»
«Ah sì, adesso ho proprio il cuore spezzato.»
«Ti prego, tu non ce l'hai un cuore.»
«Hai ragione.» Bevve, il tono piatto e disinvolto. «Quindi sarò pure molto franco: mi si sono rotte le palle a forza di sentirti lamentare.» Diede l'ultimo sorso. «Uno, hai appena compiuto trent'anni. Cresci. Vederti piagnucolare per una che te la faceva sotto al naso da più di un mese, mi mette in imbarazzo. Mia nipote ha otto anni e non ha mai versato una lacrima, una, neanche per la morte di Sandokan. Era Sandokan a pregarla di piangerne la morte.»
«Sandokan? Che cazzo di nome è?»
«Di un pesce a strisce, dovessi vedere quant'era felice quando l'ha ricevuto... L'unica pecca è che sia durato quanto la tua relazione con l'adorata, per intenderci.» L'altro fece per aprire bocca, ma venne bloccato. «Due: è un impiego normale, ci guadagni, ti piace. Se a quella non stava bene l'esibizionismo che ne comporta, benissimo! Ha dato l'ennesima dimostrazione di non capire un cazzo, né di te, né del tuo lavoro.»
«Sì, ma...»
«Zitto.» Si ammutolì. «Tre, o ti muovi a bere, a farti venire il coma etilico, quello che ti pare, o me ne vado e i giri te li paghi da solo. Non dovevo neanche essere qui, tanto per cominciare.»
L'amico non sembrò ferito, nemmeno sorpreso. Solo brillo.
Quindi si rassegnò a bere lo shottino, per poi fissare il vuoto. «Dopo tutti questi anni mi chiedo come Latisha faccia a sopportarti.»
«Figurati se mi sopporta.» Mostrò al barista due dita. Tornò subito dopo con due shottini. «Non mi sopporto neanche io, se ti consola.»
«Bah» sbuffò. «Almeno non avete questi malintesi. Almeno vi amate.»
Stavolta toccò all'altro ingurgitare il drink. Potei scorgergli un profilo spigoloso, non di più, per colpa dell'illuminazione che andava e veniva il suo volto risultò come un disordine di ombre, rendendolo indistinguibile. Tuttavia, anche dalla distanza che ci separava, afferrai uno sguardo perso, che slittava dentro un bicchiere vuoto.
«Già.»
«Non risponde, vero?»
Estrasse dalla tasca il cellulare, che ripose dopo un'occhiata.
«Entro domani le passa.»
«E dovevate vedervi stasera, presumo.»
«In teoria. In pratica sono qui a consolare una testa di cazzo.»
«Bene, e ora che so che a fare schifo non è solo la mia vita ma anche quella del mio migliore amico...» Gli fece scivolare davanti l'ennesimo shottino. «... direi che un brindisi ce lo meritiamo.»
L'uomo sbuffò una risata roca e gli assestò un coppino alla nuca, che l'altro tentò di evitare invano. Scontrarono i bicchierini. "Allo schifo" mormorarono, e buttarono giù.
Non seppi il motivo, ma focalizzarmi sulla loro bizzarra conversazione riuscì a distogliermi dalle paure che riservavo per la serata. Mi avevano fatta sorridere, in un certo senso. Forse perché un po' mi avevano ricordato la complicità che mi aveva legata con i miei vecchi migliori amici. Mi chiedo cosa stiate facendo, ora...
Qualcuno mi urtò la schiena.
Voltandomi, capii che era stata la sgraziataggine di due ragazze più grandi di me. Avanzavano a trenino, euforiche, scuotendo testa e bacino. Quella davanti teneva una mano alzata, che la compare rimasta dietro teneva stretta nella sua, imitandola nelle movenze.
«Ehi» esclamarono in coro, sostando dietro ai due.
L'uomo rimasto alzato - e che collegavo al nome Latisha - le studiò accondiscendente, ma non disse nulla. L'amico, colui da cui avevo afferrato una brutta delusione amorosa, non era neanche più lui. La tristezza era evaporata, sembrava avesse scoperto un nuovo mondo. Ma c'era da aspettarselo: difficile rimanere indifferenti davanti a delle ragazze tanto attraenti. Entrambe castane, un'allegria spropositata che le rendeva indubbiamente più belle, senza contare del fisico da urlo che trapelava dalle rispettive minigonne di pelle.
«Vi andrebbe di unirvi a noi? Ci stiamo annoiando a ballare da sole...» chiese una di loro, avvicinandosi al tipo che si chiamava Ian.
«Nulla da obiettare: sono vostro» rispose subito, già in piedi.
«E tu?» Si era pericolosamente avvicinata all'altro.
«Grazie dell'invito, ma passo.»
Ian le cinse la spalla, urlandogli all'orecchio: «Lascialo stare a quello, che è una palla tremenda e si vuole pure sposare, il coglione.»
«Oh» espresse la ragazza, meravigliata e dispiaciuta, mentre le sue dita serpeggiavano con nonchalance sulla sua cravatta grigia. «Accidenti, un tale spreco... Beh, la tua futura moglie potrebbe non scoprirlo, no? Tanto non è mica qui dentro, mi pare di capire.»
«Perspicace.» Delicatamente ma con fermezza, afferrò la mano della ragazza e se la sfilò dalla cravatta. «Peccato che le sia devoto.»
Lei capì di dover lasciare perdere e rise, trascinandosi con sé Ian e la sua amica. Vennero subito risucchiati dalla torma in movimento. Il tipo scosse la testa e occupò il posto liberato, ordinando un drink analcolico. Poi, con una mano, sfoderò il telefono. Si sfregò il mento, gesti lenti e distratti, l'espressione gli si incupì ancora, un po' come il ventre del locale, le dita dell'altra mano che tamburellavano sul marmo. Di colpo bloccò quel rito, voltando a poco a poco la testa.
Mi beccò a fissarlo.
Aiuto.
Pietrificata, non seppi come agire in termini immediati. O dovevo ingoiare la vergogna e cercare di ricambiare, che tanto guardare era umano, diceva Allan. Oppure rischiare di apparire come una qualche maniaca, girandomi dall'altra parte. Ma considerato che avrei potuto riscontrarmi con i due ragazzi di prima, scelsi la prima opzione.
Mi costò una fatica enorme.
Per farla sembrare una casualità, tentai di renderla un'azione sciolta afferrando il mio bicchiere, nonostante le dita instabili. Lo sollevai, come se avessi voluto scambiarci un brindisi. Per quel lasso di tempo non mi azzardai a guardarlo negli occhi, per timore ridesse di me, piuttosto gli osservai le maniche della camicia avvolte agli avambracci. Quanto sei patetica, Ophelia... con un bicchiere vuoto.
Eppure, mi sbalordì.
Prima di sentirmi un'idiota, lo vidi fare la stessa cosa: coi gomiti sul piano, alzò il suo bicchiere... vuoto. Cin cin. Emerse un sorriso sottile, incorniciato da un velo altrettanto sottile di barba.
Durò poco.
Perché assumendo un'espressione seria, si portò il telefono all'orecchio, con un dito si tappò l'altro. Per i minuti a seguire si concentrò sul bancone e su una telefonata che non avvenne mai.
ANGOLO AUTRICE
Bentrovati, nightingales! 🕊
Con il sondaggio Instagram in cui vi avevo chiesto quale delle due opzioni avreste preferito fra il capitolo dilazionato in due oppure la lettura (suicida) una tantum... avete preferito il capitolo diviso. Riflettendoci, è molto meglio così, anche perché non l'ho ancora terminato.
Ma manca pochissimo, quindi entro domani, massimo martedì, dovrei pubblicarlo.
Veniamo a noi: serata al fantomatico nightclub. 💃🏻🕺🏻
Vengono accennate e introdotte diverse cose importanti che ci saranno utili per i capitoli a seguire. Se siete attenti capirete da voi quali. Alcune sono lampanti, altre un po' meno.
Si parte con una breve conversazione col padre, dove emergono le paure di Ophelia, e di cui ancora non ne capiamo l'origine. Viene un filo approfondito il senso di ammirazione che la protagonista prova nei confronti della sorellastra, la quale ha dei piani ben precisi per la serata (datemi un briciolo della sua intraprendenza, pls). Di conseguenza, Ophelia si trova da sola in uno degli ultimi posti sulla faccia della Terra che vorrebbe frequentare.
Non è tanto la gente in sé a terrorizzarla, ma le attenzioni, gli occhi. La gente è un effetto collaterale, poiché mandria di occhi addosso implica mandria di persone. Spero che questo dettaglio l'abbia reso chiaro sin dal primo capitolo. In caso, fatemi sapere. 💞
La ragazza è parecchio sul chi va là, ma sa come far passare il tempo (a parte brutalizzare con la cannuccia del ghiaccio sciolto lol). Lei osserva, semplicemente. Da quando è diventata così per motivi di cui al momento non ci è dato sapere, tenta di convertire questo difetto in una specie di pregio: osservare, studiare, imparare, memorizzare ciò che la circonda. Fa molto caso ai dettagli, alle conversazioni, ma soprattutto alle voci che le stanno intorno. Le immagazzina, in un certo senso le... colleziona. E le piace, perché c'è sempre qualcosa da imparare dagli altri.
Infine, a parte la solita, tremenda sensazione di sentirsi osservata, fa caso a una conversazione che avviene neanche tanto lontano. Perlomeno, alla fine, è riuscita a ottenere una piccola vittoria, dai. So proud. ✨
Questions:
♪. Olivia riuscirà nel suo scopo?
♪. Ophelia sopravvivrà alla serata?
♪. Accadrà qualcosa? Avverrà un ribaltamento di carte in tavola?
Il grosso della serata avverrà nel prossimo chap, ovviamente. Tenete a bada le notifiche. Presto ne arriverà un'altra. 😎
Nell'attesa, vi chiedo se avete apprezzato questo inizio serata, se il disagio di Ophelia si sente, se in qualche modo siete riusciti a immaginarvi questo nightclub.🖤
Curiosità:
▪️Il Down Nightclub esiste. Cercatelo e vedrete da voi. Dopo aver visto le foto mi è salita una voglia matta di andarci. E le regole sul codice di abbigliamento non sono una balla, sono molto severi, vi basta vedere il loro sito (io su Google Streets avevo visto che erano affisse, come viene detto nel capitolo, anche sulla vetrata della porta 😅).
▪️Ammetto che non lo sapevo, eppure è così: gli alcolici sono vietati a chi ha meno di 21 anni, negli Stati Uniti. Si rischia una bella sanzione, in caso vengano fatti dei controlli.
▪️Rosenbach Museum & Library: museo noto a Rittenhouse Square, principalmente basata su manoscritti (il più famoso è quello, per l'appunto, di Alice nel Paese delle Meraviglie), libri rari e esempi di arte decorativa della prima metà del XX secolo.
Playlist:
Bros - Alice Wolf (Prima parte)
https://youtu.be/TD_Q9CxXTo4
Chantaje - Shakira Ft. MALUMA (Seconda parte - fino a quando arrivano a destinazione)
https://youtu.be/ZXXSP3MGal8
911 - GRIP (Seconda parte - da quando entrano fino alla fine della parte)
https://youtu.be/bUn9YngmSvQ
Crimewave - Crystals Castels (Terza parte - fino a quando non ascolta la conversazione)
https://youtu.be/ayc4Nv1fnZY
All Eyes On Me - William Davies (Terza parte - da quel punto fino alla fine)
https://youtu.be/p4qg0gHD0io
Instagram: The_blackcatshadow
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