43. Lasciarsi andare
Suggerisco una camomilla prima di iniziare.
(P.S musicale per chi è masochista come me: consiglio "Young Wild and Free" nella prima parte, e "Downtown Train" dalla metà dell'ultima parte)
(P.S.S: ricordate che c'è ancora l'epilogo)
Ci vediamo giù, nightingales 🕊️
Lasciarsi andare
Fannie sapeva essere imprevedibile.
Avevo creduto volesse proporre un giro, un'uscita con gli altri membri. Un'escursione, al limite. La realtà si era dimostrata leggermente diversa, se non inaspettata; appurato che entrambi i gemelli potessero avvalersi del giorno di riposo e che Jay e Gwenda avessero la giornata a prova di impegni, Fannie ci aveva ordinato di impostare la sveglia alle tre del mattino, così che alle quattro saremmo partiti con l'auto di Gwenda da Chestnut Hill, e attorno alle cinque e mezza saremmo già giunti alle spiagge di Cape May.
Non era una meta qualunque.
«Avevamo celebrato la nostra prima riunione, qui» mormorai con un sorriso, la nostalgia che affondava in quei ricordi con la stessa facilità con cui le infradito affondavano nella sabbia fresca; stavamo procedendo gli uni vicini agli altri in direzione del bagnasciuga imbracciando borsoni e zainetti con dentro portafogli, teli, creme, borracce d'acqua. «Ma perché a quest'ora, Fannie?»
Scrollò le spalle. «Volevo vedere l'alba insieme a voi.»
«Orrore, stai diventando una sentimentale?» disse Gwenda.
«Analisi: i miracoli di un certo spogliarellista» aggiunse Jay, che si guadagnò un pugno da Fannie; lui si allontanò ridacchiando.
«Niente, sapete sempre come rompere un momento poetico.»
«Eh, gliel'hai servita su un piatto d'argento» rincarò Warren.
Altro sommesso giro di risate. Superata la pedana di legno costeggiata da spessi cespi di ammofile arenarie, decidemmo di fermarci a pochi passi dalla battigia, poco prima della sabbia bagnata e della sua dolce discesa. A quell'ora non si intravedeva anima viva, fatta eccezione per qualche pigro gabbiano che comunicava la sua presenza attraverso dei garriti striduli e la barchetta di un pescatore mattiniero, puntino che oltrepassava le boe. Dinanzi a quel silenzio, mi vidi costretta a chiudere gli occhi.
La salsedine mi pizzicò le narici.
Quando li riaprii, Warren aveva posato a terra il borsone, così gli altri, che aiutarono Fannie a stendere i teli e a fissarli con i sassi. Ci sedemmo, quei piedi nudi che scavavano tunnel sotto la sabbia e le punte delle nostre dita che affioravano come tonde conchiglie.
Osservando il sole nascere, ora appena al di sopra del pelo dell'acqua, mi rendevo conto di come la natura sapesse dimostrarsi straordinariamente umana: colori pallidi alla nascita, a incoronare il primo debole vagito di vita, accesi durante lo sviluppo, a sottolineare le sfumature vivide della sua crescita, infine cupi in vista della morte. Non smetteva di morire e rinascere, rovinarsi e migliorarsi; era un esteta scrupoloso. Eppure, da ciò che lasciava, trovava sempre il modo di rinascere in una versione di sé più bella.
Forse non sarò la stessa persona di qualche anno fa, ma è per quella che sta nascendo oggi che sento di voler dare il meglio: voglio raggiungere le mie vette senza temere di cadere, voglio che la vecchia versione di me, un giorno, tra qualche anno, mi guardi con la stessa ammirazione che sto riponendo per i colori dell'alba.
«Come vi vedete tra cinque anni?»
La domanda mi uscì senza rifletterci.
«Con cinque anni in più» sospirarono i gemelli, guadagnandosi un mio attacco d'ilarità; Warren riprese parola. «Età a parte, io e mia sorella condividiamo la stessa ambizione: sperare che la nostra attività di famiglia si faccia un nome ancora più forte, importante.»
«Vorremmo rimodernarlo un po', attualmente non abbiamo abbastanza fondi.» Fannie estrasse la sigaretta elettronica e se la cacciò in bocca. «Ma quando accadrà, ci terremo a coinvolgerti.»
Battei le palpebre, indicandomi. «Coinvolgere me?»
«Se te la sentirai.» Ammiccò; non seppi se preoccuparmi.
«Tra cinque anni mi auguro di aver terminato il dottorato.» Jay, il ritratto della rassegnazione: ginocchio piegato, le mani dietro di sé a sostenere il suo peso e il peso della Juilliard. Sfiorava quelle di Gwenda; lei parve non accorgersene. «Mi piacerebbe cominciare a insegnare in qualche aula universitaria. O in un conservatorio.»
Appoggiai la testa sulla sua spalla, ricevendo un bacio alla tempia. Seppur mi piangesse l'animo a non vederlo coronare il sogno di una vita, fui fiera della sua tenacia e di quell'ambizione alternativa. Probabilmente non lo avrebbe soddisfatto allo stesso modo, ma nei panni di un insegnante avrebbe avuto la possibilità di incoraggiare quei ragazzi che avevano bisogno di quella spinta.
Ce lo vedevo a costruire altre voci, a fare da architetto morale.
Ce lo vedevo a dare speranze, le occasioni che si era negato.
«Tra cinque anni mi vedo uguale a oggi: affitto da pagare, gospel la domenica, contratti di lavoro instabili, si spera ancora single.» Gwenda estrasse l'accendino e si accese una sigaretta; si strinse nelle spalle, il fumo che andò a contaminare l'aria pulita, lo sguardo puntato sulle onde. «Non credo di vedermi come una possibile partner. Anzi, non credo di essere mai la giusta partner.»
Alejandro si passò una conchiglia bianca tra le dita.
«Un discorso maturo. Brava.»
«Non iniziare, ho le mie ragioni.»
«Cálmate, non ho detto nulla.»
«Sì, certo.»
Fanne lanciò un'occhiata al fratello, il quale scosse brevemente la testa. Tempo di un sospiro tirato tra i denti, che Warren si alzò, sollevando spifferi di sale; dovemmo pararci gli occhi. Si diede un paio di manate agli short militari e si tolse la maglietta, che gettò sul telo. Rivelò una schiena magra, costellata di lentiggini. Fannie, la meno basita, inarcò un sopracciglio; anche lui era imprevedibile.
Gwenda sospirò. «Ma che cavolo fai? Rivestiti.»
«Semplice, faccio quello che non siete capaci di fare pure voi.» Mani strette ai fianchi, continuò a darci le spalle; era l'antitesi di un supereroe: senza costume, senza mantello. «Lasciarmi andare.»
Blando, cominciò a incamminarsi verso il mare.
«Idiota, sarà gelata» gli ricordò Gwenda.
Lui parve non ascoltarla. O almeno, decise di non farlo. Si limitò a sollevare il medio. «Sarà gelata. Ma rompi meno il cazzo e fatti una nuotata. Al limite ti prendi un raffreddore.» Si girò, proseguendo il tragitto ma all'indietro; accostò i palmi alla bocca. «A quante altre nuotate vorrai rinunciare? Smettila di pensare, su!»
Ogni possibile ribattuta morì sulle labbra di Gwenda.
Restò spiazzata, mentre schiacciava insistentemente la sigaretta in un bicchiere di carta, uno dei tanti che ci eravamo portati appresso. Si voltò verso Fannie, forse per chiedere chiarimenti. Ma si era alzata pure lei, lasciandola nuovamente interdetta; Fannie ripose la sigaretta elettronica per calarsi i pantaloncini, rivelando un bikini arancione, e iniziò a correre mentre si sfilava il top, che poi gettò a terra. «L'ultimo che arriva paga la colazione a tutti!»
Allo sbigottimento generale si unì il rumore placido delle onde, le urla dei gemelli mentre sguazzavano in acqua, i garriti di fondo.
«L'attacco di stupidità mi mancava» commentò Gwenda.
«Mh» meditai, mordendomi il labbro per frenare un sorriso; poteva fingere quanto voleva, ma aveva perfettamente capito l'antifona di Warren. Ignorare era sempre la via più facile: zero rischi, ma anche tanti rimpianti. «Vedila così: o l'attacco di stupidità, o qualcuno di noi dovrà pagare. Vuoi darla vinta ai Cox?»
Ci pensò.
Finché non represse una smorfia, suo silente "Col cazzo".
Schioccò la lingua e, demotivata all'ennesima potenza, si alzò.
«Lo odio.» Si sbrigò a sfilarsi la canotta, rivelando un reggiseno nero; segno che non aveva previsto nuotate – o magari sì, e si era convinta che non si sarebbe mai aggregata a qualcosa di tanto sconsiderato. «Odio tutti voi.» Toccò ai jeans; se li scrollò con eccessiva veemenza. Poco importava che se li stesse imbrattando di sabbia. «Anche te, Ophelia: non credere di essere esonerata.»
«Mai affermato il contrario.»
Calciò i jeans sul telo senza curarsi di piegarli e vietandosi un contatto visivo con me e Alejandro, quasi reprimesse imbarazzo. Conoscendo la sua natura, scartai l'ipotesi. Tuttavia, lo fece per pochi secondi, a mo' di sfida, ma non capii chi dei due stesse effettivamente sfidando. Lanciando un rapido sguardo al mio vicino, se possibile, la confusione si fece più densa: Alejandro stava accuratamente evitando un confronto, le fissava le caviglie.
Alla fine, Gwenda ci diede le spalle e sventolò la mano.
«Auguri ai due finalisti.»
Appena si allontanò, Alejandro trasse un sospiro; fu come se fino ad allora avesse trattenuto il fiato. Fannie incitò Gwenda a muovere – testuali parole – il culo, mentre Warren esprimeva la sua incredulità con uscite tipo "Gwe', ma vuoi far grandinare?" e l'altra "Comincia a contare i tuoi ultimi istanti di vita, a breve ti annego".
Gwenda si bagnò i piedi, a ogni rigido passetto si strinse tra le braccia per sopprimere i brividi. Non senza scagliare maledizioni.
«Ne rimasero solo due» borbottai.
«Già.»
I gemelli iniziarono a urlare incitamenti nella nostra direzione.
«Che facciamo?»
«Ciò che vuoi, nena.» Scrollò le spalle. «Non mi cambia nulla.»
Guardai Gwenda avanzare, l'acqua le circondava i polpacci.
Sorpresi Alejandro a fissarla con un debolissimo sorriso.
«Ti piace, vero?»
Ripiombò nella realtà; si voltò. «Cosa?»
«Gwenda.»
Aggrottò la fronte per qualche secondo per poi gradualmente distenderla, quasi avesse cancellato buona parte dei suoi tormenti. «Boh, non so.» Si grattò la nuca. «Cioè, voglio dire... è Gwenda.»
«Appunto, è Gwenda.» La suddetta stava calciando le onde verso Warren, il quale, ridendo, voltava lestamente la testa. «Dopo tutto quello che ha passato al liceo, e con tutto ciò che sta passando a casa, ha un terribile bisogno di una bella persona come te vicino.»
«Temo di essere invece l'ultima persona di cui ha bisogno.» Contemplò la sabbia, i piedi che uscivano e scavavano tra i granelli, in un infantile espediente di nascondersi, trovare un dannato riparo. «Ti sei già dimenticata di tua sorella e di quello che ti ho fatto?»
«Jay... che cosa avevamo concordato?»
«Potremmo anche aver archiviato la questione, ma ci penso sempre... Non credo che farò pace con me stesso tanto alla svelta.»
«Nemmeno io farò pace con me stessa. Non subito, immagino. Alla fine anch'io ho una fetta di colpa per come abbiamo rotto i ponti, o per come abbia dubitato di voi. E non lo sopporto, non mi va giù» sussurrai, il cielo che andava saturando come un camaleonte; strinsi i pugni, a desiderare di rimpicciolire la pesantezza di quelle colpe. «Dovremmo seguire il suggerimento.»
«Rischiare un raffreddore?»
«Lasciarci andare.» Mi tirai su e lo afferrai dal polso, spronandolo a fare lo stesso; sorrisi. «Rischiando un raffreddore.»
«Nena, non posso...»
«Puoi.» Gli afferrai il viso; quegli occhi azzurri si erano riempiti di lacrime. «Non sei una brutta persona. Non pensarlo mai più.»
Fece un respiro profondissimo, guardò a destra.
«Non sono una brutta persona. Ripetilo.»
«Non sono una brutta persona» mormorò.
«Ed io ti ho già perdonato. Quindi, basta: è la prima regola che mi sono imposta appena sono andata via di casa: lasciare andare i miei errori, assolverli, ricominciare.» Gli picchiettai il pomo d'Adamo, infine il cuore; un sorriso lo tradì. «Ora ti va un tuffo?»
Si massaggiò le palpebre, arrossandoli.
«Solo se mi accompagni.»
«Certo.»
Mi allontanai di qualche passo e, con un unico gesto, mi sbarazzai della maglietta a righe, ridacchiando quando il bottone del colletto mi si incastrò tra i capelli. Rivelai un costume acquistato all'ultimo minuto, rosso. Una raffica di vento mi fece venire i brividi; se la pelle avesse potuto avere vita propria, ero sicura che quello poteva essere interpretabile come riflesso di felicità, immenso sollievo, un "Finalmente, era ora che mi facessi respirare". Ed era strano. Ero convinta di trovare più imbarazzo a scoprirmi, a sbandierare una libertà a lungo negata. Invece era come un déjà-vu: si ripresentava la vertigine, l'euforia inspiegabile, la voglia di correre e urlare. Tutte sensazioni che avevo già provato quella volta sul palco, con Desmond presente, o quando avevo pronunciato la mia parola, il "Do" in presenza dei genitori adottivi.
Non era una prima volta.
Ma sapeva sempre di novità.
Alejandro, che nel frattempo aveva seguito il mio esempio, si stiracchiò, i muscoli della schiena che si tendevano all'inverosimile; squadrandomi da capo a piedi, emise un lungo fischio di apprezzamento. «Ora sì che sono geloso de tu hombre.» Gli diedi una spintarella, borbottando "Ma smettila, scemo". Si chinò sui talloni e mi guardò da sopra la spalla. «Forza, monta su.»
Accettai con entusiasmo, buttandomi sul suo collo. Contò fino a tre e si sollevò aggrappandosi forte ai miei polpacci. Gli stampai una risata tra i capelli lunghi quando vidi gli altri esultare e agitare le braccia. Mi accostai al suo orecchio. «Guai a te se mi lanci in acqua. Saranno pure passati tre anni, ma non ho mai dimenticato.»
«Non ti prometto nulla.»
«Jay!»
«Piuttosto, dimmi una cosa» disse, ansimando a ogni passo, «Tu come ti vedi tra cinque anni? Sei l'unica a non aver detto la tua.»
«Il come non lo so, sai?» Credevo nel progresso, ma anche nelle ricadute; non avevo idea della persona che sarei diventata tra qualche anno, come il tempo mi avrebbe plasmata, e nemmeno desideravo rimuginarci più del necessario. Difatti, ammisi: «Ma con quello che è successo so dove sarò: da chi amo, sempre a casa.»
Restò in silenzio; tra gli ansiti, ero convinta avesse sorriso.
Le onde placide del mare, quel roseo mattino di inizio giugno, decretarono un giocoso battesimo che si riassumeva in un prenderci, strattonarci e affogarci e riemergere tra le risate: un errore seguiva un po' la medesima sequenza, in fondo, ma era grazie agli insegnamenti e al calore delle persone che amavo se avevo imparato a tornare a galla con le mie gambe. Per un lungo periodo, avevo creduto impossibile riemergere da me stessa. Per un lungo periodo, la possibilità di tornare a cantare la vedevo come un'ambizione incredibilmente lontana, un fatto straordinario, utopistico. Per un lungo periodo, avevo creduto a un sacco di cose.
Quel mucchio di cose pensate avevano preso la forma delle parole, poi delle azioni. Infine, dalle azioni, la luce: la mia libertà.
Quando le labbra iniziarono a tingersi di un colore violaceo, decretammo fosse ora di uscire. A braccia sulle spalle, seppur tremanti e con un principio di raffreddore in arrivo, ci sentimmo uniti come non accadeva da anni. "Chi siamo?" gridò ad un certo punto Warren, provocando un sussulto generale mentre arrancavamo. "Out Loud" rispondemmo con qualche secondo di ritardo, non senza una risata nell'intermezzo. "Chi siamo?" ripeté battagliero, e noi: "Out Loud!" con abbondante convinzione. "E ogni cosa la diremo" iniziò, per lasciarci concludere con: "Ad alta voce!". "Come?" ennesimo grido. "Ad alta voce!" ennesimo coro.
Mentre ci rinchiudevamo nei rispettivi teli, cercammo di dimenticare tutto ciò che di storto era accaduto nelle nostre vite. Persino Gwenda si ammorbidì; nel momento in cui era stata scossa da uno starnuto, Alejandro, seduto accanto a lei, allargò il suo telo per coprirle le spalle. Gliele sfregò, mormorando: «Te l'avevamo detto di portarti dietro il cambio, ma tu no, figuriamoci se ascolti».
«Non rompere.»
Batteva i denti, ma si abbandonò comunque alla sua ala.
I gemelli, che intanto avevano atteso l'apertura del bar per andare a comprare qualche cornetto con i soldi dei "perdenti", ossia miei e di Alejandro, fecero ritorno con dei sacchetti di carta da cui trapelava il profumo dell'impasto fresco, del cioccolato, del burro.
L'estate sarebbe approdata a breve, le spiagge stavano iniziando a popolarsi, seppur si contassero ancora pochissime anime, tra cui vecchietti che non si risparmiavano una passeggiata sul lungomare.
All'improvviso, pensai a Desmond.
Mi balenò l'immagine di lui, solo, in una casa tanto vuota quanto piena era la gratitudine che gli avevo sempre riposto. Così, la colazione assunse un sapore meno dolce, la discussione in corso si attenuò, e l'euforia di quel momentaneo "lasciarmi andare" sparì.
Sulla via di ritorno per Chestnut Hill, coi capelli seccati dal sole e la pelle che sapeva di sale, l'abitacolo si era trasformato in un traffico di brani anni Novanta. L'entusiasmo del momento era durato finché non avevo deciso di alienarmi dai cori; avevo finto di godermi gli ultimi stralci di quella splendida mattinata, avevo finto di trovare interessante l'autostrada interstatale 76 e quel susseguirsi ininterrotto di banchine e cartelli stradali e inquinamento urbano, avevo finto di non controllare ogni due per tre quanto mancasse nel GPS che Gwenda aveva piazzato tra le bocchette di ventilazione. Avevo finto di non focalizzarmi su Desmond e all'istante in cui l'avrei abbracciato, stabilendo di non comportarmi più da egoista.
Ma quando avevo avuto modo di rivederlo, non si era risentito all'idea che mi fossi divertita senza di lui. Anzi, le sue prime parole erano state "Sono felice di vederti rilassata", a seguito di un bacio.
Passai il mese di giugno rinchiusa nel suo appartamento, a debita distanza da Chestnut Hill e da qualsiasi coincidenza avesse potuto farmi incontrare Olivia, pure per sbaglio. Aveva smesso di cercarmi e la sua icona su Telegram era sparita, segno che mi aveva bloccata. Come anche su tutti gli altri social, del resto. Fingere disinteresse non serviva, poiché quel gesto mi aveva fatto parecchio male; simboleggiava che ormai, per lei, non esistevo più.
Anziché rimuginarci, avevo stabilito di rendermi produttiva. Avevo cominciato a cercare un nuovo lavoro, chiamare a giorni alterni i miei per evitare si preoccupassero troppo, agevolare Desmond con tutta una serie di commissioni: in cartoleria, negli alimentari, in clinica a ritirare i farmaci che gli erano stati prescritti per la terapia antiretrovirale. Tuttavia, quando si adirava e mi vietava di svolgere quegli incarichi – che non accettava questa forma servile del rendermi utile – decideva di armarsi di coraggio e uscire.
Convivendo con una nuova versione di lui, avevo colto sfumature del suo carattere che prima non esistevano, come questi presunti attacchi di agorafobia. Era come se istaurando una relazione avessimo inconsapevolmente siglato un contratto che determinava anche concessione e perdita di alcuni pezzi della nostra identità: io stavo superando il disagio nei confronti delle persone, ma ora Desmond se ne stava facendo carico. Purtroppo, sapevo da cosa nascesse: realizzare di portare dentro di sé quella rara patologia lo portava irrazionalmente a pensare che gli altri ne venissero a conoscenza anche solo studiandolo per qualche istante.
Si sentiva trasparente. Temeva domande scomode.
La stigmatizzazione sociale, il suo chiodo fisso.
Date le sollecitazioni di Gregg, Desmond si era deciso ad avvertire il datore di lavoro e a rientrare in casa editrice dopo tre settimane di congedo, munendosi di certificazione medica; nessuno, all'infuori della famiglia, era venuto a conoscenza della sua condizione. Ad angosciarmi ulteriormente, però, erano le mattine, i momenti in cui lo salutavo con un bacio a fior di labbra prima che uscisse; notavo come quel viso una volta perennemente bello e riposato si fosse piegato all'insonnia, alle palpebre gonfie, a un disturbante assenteismo. Senza contare che, nel cuore della notte, e quando credeva dormissi, faceva capatine al bagno per calarsi qualche ansiolitico che gli era stato indicato in precedenza.
Ecco che spuntava un ulteriore pallino a impedirmi un sonno sereno: temevo che perdesse il controllo, che ne abusasse, che ne diventasse inconsapevolmente dipendente. Anche se quel pallino, perlomeno, si era dissolto non appena Desmond mi aveva tranquillizzata; il medico gliene aveva prescritto uno che non entrava in conflitto con la terapia e ne faceva uso a dosi minime, solo quando l'ansia gli impediva di dormire. Non capitava spesso, e non sempre placava l'insonnia con un tranquillante; inaspettatamente, diceva, gli bastavano metodi persino più casalinghi: camomilla, zapping alla televisione finché non calava la palpebra, esercizi di respirazione imparate dal terapista. Le sigarette, contro il suo volere, aveva dovuto abolirle. Tassativamente, secondo il medico e suo fratello. Specie per le complicazioni broncopolmonari sorte dopo il contagio. E sebbene la mancanza di quel "supporto emotivo" contribuisse a renderlo irritabile, era un sollievo sentirlo tossire con molta meno frequenza.
Nel privato, al contrario, non curava niente di tutto ciò che lo riguardasse come persona: quando non lavorava, passava giornate intere a sonnecchiare sul divano o ad accusare vertigini e nausee inspiegabili, conseguenze in parte dovute al trattamento per singola compressa e per il quale gli era stata subito prescritta una nuova combinazione di farmaci; quando intrattenevamo una conversazione era sempre meno concentrato, sempre mentalmente lontano; la parte di sé attiva e spiritosa aveva pian piano lasciato il posto a una sconcertante passività. Aveva smesso di cercare il tablet, il taccuino – il suo progetto. Se ne stavano sulla scrivania reclinabile della camera da letto, riducendosi a inservibili decori.
Così, un tardo pomeriggio, avevo preso l'iniziativa: mentre sedevamo sul divano – lui mi accarezzava le caviglie che teneva in grembo, io ascoltavo la sua giornata lavorativa e la calorosa accoglienza per il rientro – mi ero alzata e fiondata in camera sua.
Recuperato il tablet, ero tornata in soggiorno.
Gliel'avevo teso, con un sorriso incoraggiante.
«Cosa stai facendo?»
«Fammi un disegno.»
«Ophelia...»
Avevo pigiato sul tasto di accensione. «Disegnami l'aquila.»
«Non credo di avere voglia» aveva borbottato, intanto che con lo stilo toccava l'applicazione; si era aperta una facciata bianca.
«È una sfida, infatti. Vediamo se la tua bravura resta tale anche quando non hai voglia.» Gli avevo trascinato la mano lungo la facciata, la punta del pennino che ci slittava sopra. «Sorprendimi.»
Desmond aveva fissato il foglio per svariati secondi mentre una parte di me pregava – avanti, Des, reagisci. Poi, si era accesa una speranza: uno sguardo leggermente inclemente aveva cancellato l'ormai abituale vuoto con cui si riempiva di recente; si era scrollato la mia mano e aveva cominciato a tracciare delle linee sottili con lo strumento della matita. All'inizio non erano altro che un insieme caotico di cerchi e triangoli e cilindri di diversa misura.
Quando era passato alla definizione dei contorni con una matita più massiccia, erano spuntati tronchi alti abbastanza da venir tagliati dalla cornice, poi erano spuntati i rami e quelli che davano l'aria di essere roveti. Era una foresta che sbiadiva qua e là, in bianco e nero; al centro, su una roccia e con le ali a posto, l'aquila.
L'unico elemento colorato.
Elemento che se ne stava fermo lì, rassegnato, a terra, segregato in un habitat che non gli era mai appartenuto e che gli occultava il panorama delle montagne innevate, delle vette accarezzate dalle nuvole. Fissava una prigione, un mondo improvvisamente spento.
Stavo per esprimere incredulità, un commento; dalle mie labbra era sfociato invece un verso spezzato, l'esordio di una frase. Si era tutto bloccato quando avevo visto come Desmond osservasse il disegno: i suoi occhi si erano ridotti a due cupi specchi di dolore.
Senza dire nulla, si era eclissato in bagno.
Un episodio simile si era ripresentato quando era andato a trovare i nipoti; Gregg aveva dovuto fare un salto in ospedale per firmare delle carte, in quel lasso di tempo Desmond si era offerto per controllarli. Inutile dire che l'avevo seguito, più per salvarlo da eventuali domande a cui non sarebbe riuscito a rispondere – o per cui non ne avrebbe avuto le forze necessarie. D'altro canto, i bambini erano al corrente soltanto di una versione più morbida della questione: lo zio era sotto antibiotici per una brutta influenza.
In teoria, non c'era pericolo.
Poi, l'imprevedibilità aveva scelto di immischiarsi: era successo che Cindy si era rintanata in camera sua, e Leonard era rimasto con Desmond sul divano del salone, a intrattenersi con un DVD di un cartone animato, Alla Ricerca di Nemo. Leonard si era addormentato dopo un'oretta all'incirca, con la testa che schiacciava le cosce dello zio e lui che, con movimenti distratti e blandi, gli andava ad accarezzare i riccioli. Mi ero protesa per avere la possibilità di togliere gli occhiali a Leonard, ma Desmond mi fece cenno di no; ci avrebbe pensato lui. Tuttavia, mentre glieli sfilava, il bambino aveva assunto una smorfia infastidita e aveva mugolato una semplice frase, con voce impastata: "Smettila, papà".
La mandibola di Desmond si era contratta.
Qualche secondo di vuota contemplazione, e si era voltato. Era rimasto così, fino a che non avevo capito cosa stesse accadendo: quindi, mi ero silenziosamente alzata e, per non turbare il sonno di Leonard, avevo aggirato il divano e raggiunto Desmond. Mi ero chinata sui talloni, lui che se ne stava immobile, con gli occhi coperti dal palmo e il gomito sul bracciolo. La fronte era tutta rossa.
«Ehi.» Gli avevo preso la mano tra le mie.
Carezza dopo carezza, aveva cominciato a scuotere la testa in una fiacca ma ostinata negazione. Come a voler insistere che "No, non è niente, non c'è niente che non va", anche se quei occhi umidi erano stati una controprova più che sufficiente, per quanto amara.
«Non guardarmi, per favore» aveva mormorato, e in quella supplica parve aver voluto omettere: "Che mi faccio solo schifo".
La parola papà aveva rappresentato un brutto interruttore.
Dopodiché, era toccato alla mancanza di intimità.
O almeno, a come la sola idea di azzardare un rapporto completo con me lo terrorizzasse; nemmeno se il medico lo aveva rassicurato, che con o senza preservativo, ma pur sempre sotto terapia e con una carica virale bassa, non sarebbero esistiti rischi.
Da parte mia, per non metterlo in difficoltà, non avevo mai più osato toccarlo, tantomeno mi ero mai più lanciata in "esperimenti".
Il piano fisico si era ridotto a baci e carezze.
Anche se sopprimere il desiderio non era mai stato semplice.
Perciò, quella sera, per distrarlo con qualcosa di diverso, gli avevo chiesto se avesse voglia di filmarmi con una videocamera; da quando il pensiero della Juilliard era tornato a scavare avidamente tra le mie ambizioni, mi era saltato in testa di riprovare la presentazione, la stessa che avrei inviato nella domanda online in un prossimo futuro – spalle al muro, mani dietro la schiena, e un minuto a disposizione in cui informavo un obiettivo su chi fossi e perché aspirassi a entrare nell'accademia. Desmond aveva trascorso un paio d'ore ad assistere; però, non si era mai lamentato.
Faceva di meglio: lanciava consigli, lanciava critiche.
Lanciava sorrisi.
Nessuna luce di scherno, neanche nei momenti in cui inciampavo sulle parole, o dimostravo quanto sapessi essere goffa. Ogni volta che ne vedevo uno, seppur di rado, sorridevo anch'io.
Dopo tutte quelle prove, si inserì un momento di stacco; io immobile e lui seduto ai piedi del letto, a fissare intensamente lo schermo della videocamera, un angolo della bocca piegato all'insù. Avvolta dalla luce aranciata dell'abatjour, gli sussurrai: «Cosa?»
Non rispose; scosse semplicemente la testa.
«Sto vedendo un sorriso.» Avevo sorriso a mia volta.
«Non puoi capire» mormorò, alzando quegli occhi stanchi; in quel frangente, la stanchezza si era bagnata di due sentimenti opposti, tristezza e fierezza; non si capiva a quale interpretazione affidarsi. «Non puoi capire ciò che provo quando vedo questo.» Fece cenno alla telecamera; passò un istante e se la mise da parte. «Non so come spiegartelo senza sembrare un idiota, ma... sei tutto quello che ero, Ophelia, e tutto quello che vorrei essere adesso.»
Puntò lo sguardo al pavimento, il sorriso scomparso, un vago ricordo. Quelle parole avevano provocato un'inevitabile spaccatura del mio cuore; avrei preferito non sentirgliele mai, che anche se significavano un mio progresso, per lui erano regresso, sconfitta. Erano un'autentica proiezione delle sbarre che si sentiva addosso.
Esitante e a piedi nudi, lo raggiunsi.
C'era un che di pittorico, in quella situazione: lui a capo chino, un penitente. Io a testa alta, dopo mille cadute, dopo essermi persa.
Quando gli fui di fronte, Desmond abbassò il capo e la fronte si affidò al mio ventre: mi parve che volesse cercare una speranza da qualcuno che potesse capirlo, qualcuno che aveva varcato le sue stesse sbarre – come me – che per lui era tutta una cattiva novità, che non sapeva dove cercare una scappatoia, come fare, cosa fare.
In quella posizione e con tutte quelle ombre addosso, potevamo impersonare un dipinto di Caravaggio. "Avvinti", potevamo intitolarci. Che molto, molto prima di lui, vinta lo ero stata anch'io.
Infilai le dita in quei capelli crespi, lo indussi ad alzare il volto. Ci guardammo, gli sguardi allacciati, anch'essi avvinti. Accadde in una sequenza talmente rapida che non ebbi nemmeno modo di realizzarlo; Desmond mi attirò a sé dalla nuca e, veloce, mi baciò.
Nessuna delicatezza; premette con una tale avidità da lasciarmi interdetta: mi fece pensare che fosse guidato da qualcosa di simile alla disperazione, anziché da reale desiderio, la stessa di chi fugge dai propri tormenti aggrappandosi all'espediente più vicino. Lo assecondai, gli cinsi il collo, ci separammo un secondo per riunirci in quello seguente, la stanza che andava riempiendosi di quei ansiti sommessi. Ben presto mi trovai stesa, con Desmond sopra di me, ogni tocco sotto al pigiama venne accompagnato da una rabbiosa eppur sempre disperata smania – cercava scappatoie, magari credendo che in un angolo del mio corpo esistesse un luogo sicuro.
Cosa stai cercando? Mi calò appena i pantaloncini, la mano che dalla vita ai glutei fu un continuo strizzare tutta quella pelle che trovava al suo passaggio, quasi ad assicurarsi che fossi vera. Dove pensi di rifugiarti? Strinse la natica, ancora, di nuovo, soffocai un gemito sulla sua bocca. Insoddisfatto, passò alla maglietta, che sollevò e che mi sfilai rapidamente dalla testa. Desmond. Si avventò sul seno; appena sentii le sue labbra mordere il capezzolo, repressi un gemito, al quale rispose con un altro morso. Desmond, no, non è così che puoi riappropriarti di te stesso – io non sono te.
Quei secondi prima che potessi esprimerlo a voce, si fermò, fermò ogni cosa, come si fermò anche il mio respiro; piano, si separò dal seno e, in un impeto di feroce rassegnazione, si coricò a fianco a me, il braccio che si buttò pesantemente sugli occhi. Non si mosse, la sua bocca disegnò una smorfia che rasentava il disgusto. Sconvolta dalla piega degli eventi, mi sistemai seduta.
«Scusa.»
Un mormorio soffocato, mentre infilavo la maglietta.
Non tolse mai il braccio dal viso; mi si strinse il cuore.
«Des, non è successo niente.»
«Mi manchi» accavallò alla mia risposta. «Mi manchi tu, e...» Tu, Des, ti manchi tu. «Mi manca tutto il resto. Mi dispiace tanto.»
Ingoiai un sospiro, e un sorriso triste.
Quindi, mi accucciai al suo fianco, il viso che premeva contro la sua spalla. Me lo tenni stretto, finché non si decise a levarsi il braccio di dosso per cingermi la vita; mi tenne a sua volta stretta.
Quando fui sicura che si fosse addormentato, complice il respiro divenuto più pesante, sollevai il viso e gli baciai le palpebre, una ad una; le sue ciglia erano ancora circondate da un velo di lacrime.
«Sono tornata!»
Con un colpetto del tallone, la porta sbatté dietro di me.
Abbassai il cappuccio della felpa e chiusi l'ombrello sgocciolante, appoggiandolo provvisoriamente contro la parete dell'ingresso. Mi sbarazzai delle scarpe da ginnastica e slittai in salotto con un sacchetto contenente la nuova terapia di Desmond.
Davanti al divano, mi dovetti fermare.
Ciabatte sparse, cuscino spiegazzato.
«Des?»
Volsi lo sguardo nella camera da letto, in cucina; assente.
Scortata dall'ovattato scrosciare della pioggia, mi bastò avanzare oltre la tavola da pranzo per trovarlo: era seduto su una panca, un piede sull'imbottitura marrone, a contemplare duramente lo scenario uggioso che si stagliava fuori dalla finestra. Sul vetro, rigature trasparenti concorrevano a chi per primo ultimava la corsa.
«Des.»
Se ne stava a braccia conserte, con una maglietta nera che l'anno prima gli calzava alla perfezione, mentre ora gli risultava più larga.
«Mh» mugugnò, senza però guardarmi.
Mi ci sedetti accanto e dischiusi il sacchetto. «Ho i farmaci.»
Annuì lentamente. Silenzio. Che colmai mentre estraevo le confezioni e la plastica provocava quel fastidioso rumore di stropiccio: «So che non ti entusiasma prenderne tre, lo so, ma vedila così: ora almeno è sicuro che non starai male come prima.»
«Ophelia.»
«Dimmi.»
Lo scrosciare si affievolì.
«Tornatene a casa, ogni tanto.»
Fissai le scatolette bianche. «Ti ho già detto che non–»
«Non parlavo dei tuoi genitori, ci mancherebbe.» L'attenzione si spostò su di me. «Parlavo dei gemelli, dei Cox. I tuoi effetti personali sono ancora lì, e i tuoi amici ti aspetteranno, deduco, ti cercheranno. Sbaglio?» Calò lo sguardo sul telefono che spuntava dalla tasca dei miei jeans; non era necessario nasconderglielo: sapeva delle volte che avevo dato buca al gruppo per lui, che fosse per un'uscita, o per una semplice voglia di stare insieme. Specie nell'ultimo mese. «Quand'è stata l'ultima volta che sei uscita?»
Sospirai. «I miei amici conoscono la mia situazione.»
«La tua situazione?»
«Hai capito cosa intendo.»
«Temo di non aver afferrato la logica, invece.» Si indicò. «Questa situazione riguarda me. Tu cosa c'entri? Perché mai dovresti sentirti coinvolta in qualcosa che non ti tocca per niente?»
«Non dovrei?» Mi umettai le labbra, in parte dal nervoso. «Fammi capire: ti sentiresti meglio se non mi importasse? Se uscissi e mi divertissi, così, ignorando ciò che stai attraversando?»
«Non si parla di ignorare, Cristo» mormorò stanco. «Ma di come tu ti stia annullando per me, stando dietro a qualcosa che non dovrebbe minimamente essere di tua competenza.» Si bloccò; volle aggiungere altro. «Hai...» Poi, chiuse gli occhi. «Hai ventun anni.»
In sincronia, fece eco la voce paziente di mio padre.
"Hai ventun anni". Voci diverse, medesima amarezza.
«E allora? E quindi?» sbottai risentita. «Non esiste un'età precisa per preoccuparmi, o per prendermi cura di–» Frenai quel fiume, ristabilendo un temperamento pacifico; gli afferrai la mano. «Des, come posso non sentirmi coinvolta se si tratta di una persona che amo? Non posso rimanere indifferente proprio a te, che sei...»
«Sono cosa?» Sottrasse la mano dalle mie e, secco, continuò: «Che cosa siamo, ad oggi? Come definiresti il nostro rapporto? Perché, siamo onesti, è tutto fuorché una sana vita di coppia.» Emise una risata nasale che non aveva nulla di divertente. «Quindi? Io e te che cosa siamo?» ripeté, marcando l'ultima parola; quella durezza mi costrinse a retrocedere e ad abbassare lo sguardo sul suo pugno, ora bianco, stretto all'inverosimile. «Un malato e la sua badante? Due amanti che non riescono neppure a toccarsi? Cosa?»
«Stai...» esalai. «Stai solo guardando gli aspetti negativi.»
«Ah, ne esistono di positivi?» Quel sarcasmo fasullo mi obbligò a fissarlo, improvvisamente schiacciata da una consapevolezza che sino ad allora mi aveva solo aleggiato attorno, come un timido spettro che teme di manifestare la sua vera forma; a sopracciglia all'insù, il dispiacere di Desmond smussava quel viso tutto spigoli. «Ophelia, ascoltami bene, non ti ho aiutata a evadere dalla prigione che era diventata casa tua per vederti rinchiusa in un'altra ancora.»
«Questa non è una prigione.»
«Ma lo sta diventando. Non negarlo.»
«Smettila» sussurrai. «Non esiste termine di paragone con quello che vivevo prima.» Stavolta fui io a osservare la pioggia. «Non mi sento soffocare, non mi sento sbagliata o sotto processo... Sto bene, qui, con te, e sto bene se posso rendermi utile. Con tutto l'aiuto che mi hai dato, ricambiare il favore mi sembra il minimo.»
«Oh, non ci provare.»
«Cosa?»
«Non ci provare ad aggrapparti a una pura e semplice questione di riconoscenza. Non ci provare, cazzo.» Si alzò bruscamente dalla panca, fece due passi e tornò indietro. «Ma credi che non abbia capito il vero motivo per cui ti stai occupando di tutta 'sta merda?»
«Non ci sono altri motivi» borbottai, poco convinta.
«No? Allora tua madre non c'entra?»
Occhi stretti, furiosi; una sfida.
Deglutire mi sembrò impossibile.
«Come per i miei nipoti: ti eri imposta di aggiustare lo stesso rapporto che avresti voluto aggiustare con tua sorella.» Si massaggiò il collo, la testa china che dondolava in un pigro "no", e mormorò: «Quando ho scelto di darci una possibilità, non era per vedere tutto questo, e...» Sospirò. «Mi dispiace, ma non riesco davvero ad accettare questo assurdo modo di viverti i vent'anni.»
«E se ti dicessi che il tuo pensiero non m'interessa?» Mi alzai anch'io, gli fui a due soffi dal petto, a braccia incrociate. «E se fossi io a volere e ad accettare anche questo lato della nostra relazione?» Improvvisamente, mi salì il magone, parve calce in gola, e le parole che uscirono impastate: «In un rapporto, non si dovrebbe quantomeno provare a restare e a convivere con certe... difficoltà? Anche se riguardano l'altro, anche se sembra tutto impossibile da superare?» Esitai, ma gli accarezzai la guancia, vittima di una barba disordinata: «Non erano questi gli accordi? Mai lasciarsi indietro».
Per un attimo, si limitò a schiudere la bocca e basta; vacillò.
Guardò altrove, ma lo notai: gli occhi erano diventati lucidi.
Restarono tali anche quando sussurrò: «Non m'importa».
«Non t'importa» ripetei, ignorando il danno di una tale pugnalata; sciolsi il contatto e, al contempo, mi obbligai a mantenere un tono stabile. «D'accordo... cosa mi stai chiedendo?»
«Ti sto chiedendo di riflettere.» Anche lui, probabilmente ostacolato dallo stesso groppo, parve costargli una fatica immensa cercare, modellare, sputarne fuori il seguito. «Che cosa speri che possa darti, in una situazione del genere? Come ci vedi tra qualche anno? Come ti vedi stando sempre appresso a questa... zavorra?»
«Non sei una zavorra» gridai, ignorando la lacrima che mi stava solcando la gota. «Sai qual è la vera zavorra? Questa discussione.» Gli voltai le spalle. «Di' quello che vuoi, ma io non me ne vado».
«Ophelia.»
«Non me ne vado.»
«Non è questa la vita che meriti.»
«Non me ne vado.»
«Non potrei tantomeno darti una famiglia.»
Mi tappai le orecchie, come una bambina che non vuole ascoltare una dura rivelazione. "Non me ne vado non me ne vado non me ne vado ti ho detto che non me ne vado". Lo ripetei a raffica, allontanandomi e avvicinandomi a lui, senza mai una pausa, un respiro; volevo liquidare ogni vano tentativo di comunicazione, cosicché quelle repliche si attutissero, perdessero spessore, riducendosi ad accozzaglie informi di lettere. Poi, però, anche il lato infantile di quel dibattito stabilì di non poter continuare a scappare. Per cui, stanca, e in uno slancio di furia, mi tolsi le mani dalle orecchie. «Che ti piaccia o no, le famiglie si costruiscono in modi anche meno tradizionali: le adozioni sono–»
«Non ricominciare con queste cazzo di adozioni» mi frenò pacato eppure tagliente abbastanza da disarmarmi. «Ma ti rendi conto delle assurdità? Però ok, affrontiamo pure la cosa a modo tuo: ammettiamo che esista questa remota, remotissima possibilità di avere dei bambini. Di quanto tempo stiamo parlando? Quanti anni passerebbero ancora? Tu saresti comunque ancora troppo...»
Si morse la lingua.
Eccolo, il riflesso del rammarico.
«Dai, dillo» lo incitai in un mormorio.
«No.»
«Dillo.»
«Lo sai già.»
«Sarei ancora troppo cosa?»
«Giovane.»
«O incapace?»
«Giovane.» E lo scandì, gridando: «Giovane».
«Giovane. Giovane. Giovane.» Gli feci il verso, in una versione più grottesca. «È questo che ti blocca? L'età? Un dato relativo?»
Si girò, le mani dietro la testa; l'impazienza al limite.
«E poi è un problema mio, non tuo» aggiunsi.
Si voltò di scatto e mi puntò l'indice contro. «È anche un problema mio, chiaro? Non posso permetterti il passo più lungo della gamba solo perché hai questa stramaledetta voglia di adattarti alla mia condizione e accontentarti.» Quella rabbia mi tolse il fiato; volli ribattere ma me lo impedì alzando le dita della mano, prendendone una alla volta. «Hai la Juilliard, hai davanti a te un piano di studi serio, hai una vita sociale che finalmente ti sei riconquistata, hai la possibilità di condurre una vita normale e di preoccuparti, tormentarti per delle cose più pertinenti alla tua età.»
Aprii bocca, ma nulla; ne uscì un respiro spezzato.
«Anche...» balbettai. «Anche mia madre era giova–»
«Cristo santo, tua madre non ha mai avuto scelta» gridò.
Un boato fuori, un tuono in quella stanza.
Poco dopo, la stessa quiete che segue il diluvio.
La sua voce prevalse come mai si era permessa prima di allora con quell'unica, perentoria, orribile stoccata. Fui incapace di chiudere la bocca; lo guardavo, lui guardava me, la sua figura che si offuscava finché non mutò e divenne un insieme di chiazze sfumate, un tocco d'acquerello dove era tutto sbilanciato e l'acqua eccedeva sul colore. Le lacrime avevano ripreso silenziosamente a scendere; non terminarono nemmeno quando provai a rispondere.
«Sono stata un incidente, volevi dire questo?»
Si inserirono leggeri rumori di sfondo.
Il ronzio del frigo, la pioggia.
Ma non la sua risposta.
E non l'attesi, non aveva importanza; fu abbastanza esplicativo. Non persi tempo e, passandomi frettolosamente la mano sulle guance, lo sorpassai a passo spedito, diretta al portone d'ingresso.
Dietro, il parquet cigolò sotto i piedi nudi di Desmond.
«Ophelia.»
Afferrai felpa e borsa.
Mi caddero in sequenza.
«Ophelia, aspetta.»
Quel mormorio che sapeva di profonda mortificazione mi diede la spinta perfetta per accelerare i movimenti e ignorare i singhiozzi che supplicavano di uscire, perché no; volevo conservare quel poco di dignità che mi era rimasto. Perciò, evitai di pensare, che di pensieri ce n'era già un traffico, e mi infilai prima la felpa e poi la borsa a zainetto, poco importava se era tutto storto e scomposto.
Quando percepii la grande mano di Desmond afferrarmi dolcemente per la spalla, a mo' di ammonimento, di scuse, si accese qualcosa di sconosciuto e che non avevo mai sperimentato: qualunque cosa fosse, mi portò a voltarmi e a picchiare i pugni sul suo petto, urlando con tutta la voce che avevo: «VAFFANCULO».
Lo feci di nuovo, più forte, facendolo arretrare.
«Perché?»
Altro colpo.
«Perché vuoi farti odiare?»
Ancora.
«Perché non mi vuoi far restare?»
Di nuovo; pianto e urla che mi impedivano di respirare.
«Senza qualcuno che ti stia vicino, come passerai le giornate? Così? A fare niente tutto il giorno? A fissare il vuoto? A buttare via tutti i tuoi progetti, giorno dopo giorno?» Il viso schiacciava contro il suo petto, quasi l'intento fosse quello di crearmi un varco ed entrare laddove il cuore si rifiutava di ascoltarmi. «Perché, Des? Perché insisti?» singhiozzai rauca, senza voce, il naso che premeva sulla sua maglietta, ora scurita dalle mie lacrime. «Volevo... volevo anche sottopormi al PrEP, volevo provare ad affrontare tutto questo con delle alternative, volevo darti delle prospettive diverse... Volevo aiutare almeno te, che con mio madre non ne ho mai avuto l'opportunità. E avrei tanto voluto, non immagini quanto...» Il petto scosso dai singhiozzi. «Ti prego... non voglio che tu te ne stia da solo» sussurrai. «Fammi restare qui con te...»
Desmond, finora in silenzio, rispose a quella raffica di parole a modo suo: diplomaticamente, cingendomi le spalle. Ascoltando la frequenza con cui respirava – adesso rapida, discontinua, la prova inconfutabile che si era spezzato anche lui – scoppiai in un nuovo pianto.
«Scusa» sussurrò a stento. «Scusa.»
I pugni si ammorbidirono.
Ricambiai quell'abbraccio.
Non ci muovemmo; ascoltammo i sospiri, le scuse, i "Perché" dell'altro. A forza di stringerci, le gambe cedettero, fummo a terra, come se non riuscissero a sopportare il peso di un simile legame.
«Non l'ho mai pensato, che fossi un incidente, uno sbaglio.»
Annuii contro la sua spalla – lo so, stai zitto, lo so.
«Ma non voglio che un domani pensi che questo lo sia stato.»
Avrei desiderato ardentemente non parlasse più.
Perché più parlava, più la fine si avvicinava.
«Penso di amarti, Ophelia.»
Ebbi la forza di allontanarmi dalla sua spalla; aveva tutto il viso arrossato, corrucciato, distrutto dal mio stesso crollo.
Glielo afferrai tra le mani.
«Allora non lasciarmi indietro. Per favore.»
«No, ragazzina, io non ti sto lasciando indietro.» Fece lo stesso col mio, i pollici che asciugavano le lacrime. «Io ti sto lasciando andare.» Aderì la fronte alla mia. «Mi dai il permesso di farlo?»
Si staccò e ci guardammo.
Realizzare che mi stesse lasciando andare, mi portò a un nuovo crollo; scoppiai mentre lui, delicato, mi attirava contro il suo petto. Mi cullò come una bambina, mi baciò il capo tante di quelle volte.
«Senza di te...» Tirai su col naso. «Senza di te, dove andrò?»
«Lontano.» Stampò una fievole risata contro la tempia. «Molto più in alto di quanto credi.»
Gli avevo promesso che sarei rimasta a dormire da lui per l'ultima volta e il mattino seguente me sarei andata prima di mezzogiorno. Infatti, alle prime luci di quel sabato di luglio, mi svegliai in un letto dolosamente vuoto. Ad accogliere quel risveglio c'era solo un pezzo di carta sul comodino; Desmond mi informava che era andato a trovare i nipoti. Sarebbe tornato per mezzogiorno.
Non voleva salutarmi di nuovo.
Mi venne ancora voglia di piangere.
Poi, però, un particolare mi distolse da qualunque altro pensiero deprimente: una chiavetta rossa depositata sul cuscino di Desmond.
"Usami", c'era scritto sul post-it che ci aveva appiccicato.
Mi misi a sedere, stropicciandomi le palpebre gonfie e umide. Con un principio di emicrania in arrivo studiai quella chiavetta, rigirandomela tra le dita. Solo allora misi a fuoco un altro particolare: nell'altra metà del letto, c'era il portatile di Desmond.
ANGOLO AUTRICE
Il mio piantino me lo sono fatta ieri sera, alle due di notte.
Voi come state? Tutto bene? Sopravvissuti?
Ad ogni modo, credo che il motivo principale per cui ci abbia impiegato più di due mesi per finire 'sto maledettissimo ultimo capitolo sia soprattutto per la carica emotiva che contiene; chi mi conosce, conosce anche il mio livello di (iper)sensibilità, e credo proprio che l'inconscio mi abbia suggerito di procrastinare perché no, non era pronto nemmeno lui.
Peccato che c'è ancora l'epilogo da scrivere. 😀👍
A parte la parte finale, a me ha fatto male scrivere tutta la parte centrale: della quotidianità di Desmond da quando ha scoperto di essere sieropositivo.
Anche la persona più forte può piegarsi; lui ne è l'esempio.
Visto che non ho più forze, lascio la parola a voi, che mi sopportate da più di due anni.
Questions:
▪️ Indecisa fino all'ultimo se inserire la prima parte, ma alla fine il nodo narrativo che riguarda gli amici di Ophelia doveva sciogliersi; vi è piaciuta? Cosa ne pensate di questo "lasciarsi andare"? Tra cinque anni come e cosa diventeranno? (Io continuo a shippare Gwenda e Jay, mi dispy);
▪️ Desmond; innanzitutto, vi è sembrato realistico il comportamento di Desmond, il modo in cui affronta la malattia, questa depressione che lo annulla come persona, etc? La vostra opinione è sempre importante.
▪️ Des & Ophelia; le note dolenti, cosa avete pensato dell'ultima parte?
Detto questo, vado a (ri)piangere in un angolino.
Grazie di cuore per il supporto, e per il vostro esserci. 😭 Ci vediamo nell'epilogo (e stavolta mi sbrigo, I swear!)
Playlist:
Young Wild & Free - Wiz Khalifa (prima parte)
I Need My Girl - The National (seconda parte)
Rivers and Roads - The Head and the Heart (terza parte - finché non trovate una certa parola col CAPS)
Downtown Train - Everything But The Girl (terza parte - da lì fino alla fine + l'ultima particina)
Instagram: The_blackcatshadow
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