42. Uniti nell'abisso - Pt. 3
Uniti nell'abisso
Parte 3
Desmond mi aveva riaccompagnata alla macchina e, tempo di un bacio a fior di labbra, mi aveva ricordato che mi avrebbe aspettato a casa sua. "Quando vuoi, non crearti dei problemi, ok?"
Il problema era un altro: volevo seguirlo subito.
Avrei volentieri saltato ciò che mi attendeva a casa.
Infilai le chiavi nella toppa, ma mi bloccai, consapevole che mia sorella fosse ormai tornata; la BMW nera accostata davanti al marciapiede assomigliò a un presagio, il corvo del malaugurio che attendeva trepidante il mio ritorno. Dalle finestre provennero dei brusii. Brusii che divennero parole vere una volta aperta la porta.
«... non farebbe male a nessuno di noi.»
Mio padre.
«Terapia di gruppo? Spero stiate scherzando.»
Ferma nella penombra dell'atrio, trattenni il respiro.
Era Olivia. Olivia e l'usuale, terrificante autocontrollo.
«Olivia, per favore, siediti un attimo.»
«Possiamo rimandare questo dibattito inutile? Ho bisogno–»
Stridio di una sedia, papà che mormorava lentamente: «Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno non ha scadenze immediate; direi che la priorità ce l'ha questo "dibattito inutile". E tua sorella».
Pausa.
«Mamma?» Olivia le si rivolse in maniera piuttosto fredda. «Ce l'hai qualcosa da dire? Invece di startene lì a girarti la tazzina del caffè fingendo che non esista, gradirei una tua opinione verbale.»
«La mia opinione non si allontana da quella di papà.»
Anche se c'era un corridoio a distanziarci, colsi lo stesso un tremolio di incertezza oltrepassare le pareti e alterare la sua voce.
«Cioè?» Risata sarcastica, il tono che fu un drammatico crescendo. «Ma vi rendete conto della gravità su ciò che mi state accusando? Non mi sognerei mai di farle del male o–» Silenzio. «Oh, capisco. A meno che questa riunione non nasca proprio da lei. Immagino che vi abbia raccontato qualche bella storiella su di me.»
Papà ribatté: «Lei non ha raccontato proprio nulla».
«Ma certo, ammettiamolo: è sempre stata la favorita di famiglia. Appena urla "al lupo" è ovvio che la soccorriate senza nemmeno porvi due domande» continuò. «Io non volevo dirvelo in questo modo, mentre non è presente, ma ho notato da un po' che la ragazza affronta le sue insicurezze in maniera tossica: si fa divorare da un'invidia immotivata, sminuisce chi non ha problemi simili ai suoi. È proprio vero quando si dice che se non si arriva all'uva...»
«Ti prego di smetterla.»
Spinta da un coraggio a cui difficilmente mi aggrappavo, avevo varcato la soglia della sala; mamma se ne stava seduta a tavola con la tazzina da caffè tra le mani e l'alone aranciato del tramonto che circondava il suo corpo come un'entità, papà era a pochi passi da Olivia a braccia conserte e gli occhi colmi di sorpresa per la mia entrata, e lei – occhiali da sole in testa e borsa di Michael Kors sotto al gomito – si era voltata. Lo stupore annebbiato dalla confusione.
«Smetterla?» ripeté, senza cambiare espressione. «Ora vieni qui e ripeti a me quello che hai avuto il coraggio di raccontare a loro.» Fece un passo indietro, come a volermi fare spazio. «Su, prego.»
Mi morsi la lingua, per spronarla a muoversi.
Ma più cercavo le parole, più tutto si pietrificava.
Papà sgranò gli occhi per un nanosecondo; fu un "Forza".
Mia sorella schioccò la lingua: «Immaginavo. Ora capite che–»
«Fermati» dissi di getto. «Non ho ancora parlato perché non me ne dai mai il tempo, Olivia. Adesso abbi almeno la decenza di stare in silenzio e di ascoltare le tue stesse parole, casomai te ne fossi già scordata.» Unghie nei palmi e sfilai il telefono; a seguito dei tap di un pollice affetto da brividi continui, trovai la registrazione. Schiacciai il telefono al petto di Olivia, a capo chino; era stupido mostrare involontaria sottomissione – era una vittoria, eppure sentivo la vuota sensazione della sconfitta. «Se hai bisogno di qualche chiarimento, mi trovi su a fare le valige» mormorai appena.
Diedi loro le spalle e imboccai le scale di corsa.
La registrazione iniziò ma sfumò via via che andavo allontanandomi. Mi chiusi in camera con una fretta tale da farmi ansimare, l'agitazione che prendeva a pugni lo sterno, non mi permetteva di stare ferma; a seguito della proposta dei Cox, mi era balenata l'idea di sistemare un trolley con lo stretto necessario sotto al letto, così da non essere impreparata il giorno in cui avrei deciso di prendere delle distanze immediate. Sapevo che sarebbe accaduto in circostanze in cui la tensione non mi avrebbe permesso di riflettere, di ponderare se avessi dovuto aspettare ancora un po'.
Col cuore ridotto a un instancabile rullo di tamburi, mi chinai sotto al letto e afferrai il trolley dal manico, facendolo strisciare sul pavimento; tempo di tirare la cerniera e spalancare quelle fauci di metallo, che mi affrettai a gettarci il più sbrigativamente possibile il resto degli effetti personali da cassetti e ante varie: un beauty con all'interno una manciata di cosmetici, l'intimo, la foto di mia madre, il portatile, caricatori vari. Considerata la fretta e che in precedenza avevo già sistemato alcuni indumenti di stagione, il trolley si chiuse solo dopo essermici seduta due volte.
Sarei ripassata per recuperare gli altri indumenti.
Ma solo in futuro. Assenza di Olivia permettendo.
Quel pensiero rassicurante venne interrotto da un violento scatto della maniglia. La porta sbatté al muro rivelando la figura di Olivia; stringeva il mio telefono in una mano, l'altra era un pugno che ne sbiancava le nocche, pronto a colpire. Il volto sfigurato da quel riverbero folle che le attraversava le iridi riuscirono a farmi esitare.
«Fai sul serio?» sputò aggressiva, puntando il telefono. «Eh?»
Dietro di lei, sbucarono le ombre di papà e mamma; il primo le afferrò il braccio, probabilmente per calmarla. Ma l'altra non ne volle sapere; si liberò immediatamente dalla presa e si avvicinò.
Mi alzai dal trolley, schiarendomi la voce. «Sì.»
Non potevo permettermi di esitare. Non più.
«Che cos'è questa roba?»
«Sei tu. Non ti ricordi?»
«Cazzo» sussurrò in un breve accenno di risata; si voltò verso i nostri genitori, rimasti in disparte, rinchiusi in una bolla di frustrazione. «E voi quindi le credete pure? Questa non sono io.»
Mamma guardò a terra. Era il ritratto della sconfitta.
Papà chiuse gli occhi per un istante, come a pregare se stesso di non piegarsi a responsi istintivi; quindi accolse quelle giustificazioni come se nulla fosse. «Perché non dovresti essere tu?»
«Forse perché non direi mai queste cose?»
«Eppure le hai dette. Sei nostra figlia, conosciamo la tua voce.»
«Questa è Intelligenza Artificiale. Sapete quante truffe ci–»
«Guarda tua sorella.»
«Come?»
«Guardala.»
Eseguì l'ordine, ma non io; mi sentivo uno schifo.
«Non mi guarda neppure in faccia. Sa di essere colpevole.»
«No, figlia mia. Non ti guarda in faccia per un motivo molto più grave.» Gli occhi di mio padre piombarono sui miei; mi sentii preda della sua stessa soffocante tristezza. «Perché ha paura di te.»
«Paura!» Rise. «Ma paura di cosa? Cosa?» L'ultimo "cosa" le uscì con uno strillo d'esasperazione; poi, lo sguardo cascò sul trolley, che se ne stava sdraiato dietro ai miei piedi. «Ah, e quello?»
«Te l'ho detto: me sto andando.»
«Ma dove? A fare il giocattolino di quel quarantenne?»
«Non sono problemi che ti riguardano.» Mi chinai e afferrai il manico del trolley; feci una fatica immensa a ignorarla per rivolgermi esclusivamente a mamma e papà. «Ci sentiamo dopo.»
Mamma esitò, ma poi imitò papà in un infelice annuire.
«E voi la lasciate andare così? Senza dire niente?»
Mi fissò mentre la sorpassavo, le rotelle l'unico rumore che, nel silenzio che affliggeva casa nostra e nei silenzi in cui si erano obbligati a rinchiudersi i nostri genitori, lasciava sgomenti, vuoti.
Ai piedi delle scale, le dita di mia sorella mi si agganciarono al gomito come ami di una canna da pesca; la facciata impassibile era stata rimpiazzata a favore di una che sapeva di silente repulsione, di "non posso non avere il controllo della situazione, non posso, non posso". Odiava perdere. Ma in quel momento, qual era la perdita che più gravava sulla sua coscienza? Me, il controllo o il controllo su di me? Avrei volentieri evitato di trovare la risposta.
Deglutii un rivolo d'ansia. «Olivia, lasciami.»
«È un uomo» sibilò. «Ti lascerà.»
«E mi andrebbe bene!» Mi liberai dalla stretta e le sottrassi il mio telefono prima che intervenisse papà, già a braccia protese. Raccolsi tutta la determinazione rimasta, ignorai quel fastidioso tremore, i morsi della stanchezza; le lacrime andarono a raccogliersi al limitare delle ciglia. «Se mi...» Mi diedi un attimo. «Se uno come lui arrivasse a lasciarmi, credimi, Liv, lo farebbe per una buona causa.» Per un secondo, fronteggiai la stessa umanità che avevo scorto durante la sera in cui si era sballata; occhi grandi, cuore esile. «Abbi il coraggio di farlo anche tu. Allenta la presa.»
Lo sguardo, gradualmente, scivolò sulla sua mano.
«Se lo si lascia è perché è diventato un problema.»
«Probabile. O forse perché insieme ci si fa più male.» Mi inumidii le labbra. «Nonostante continui a volerti bene, vivere sotto lo stesso tetto, in questi ultimi anni, ha cominciato a farmi male.»
Le venne da ridere, scosse la testa.
«Risparmiami queste massime moralistiche e va' pure per la tua strada, spicca il volo, stammi alla larga, fa' un po' il cazzo che vuoi.» Tornò improvvisamente sulla difensiva, la stessa di sempre, e ridusse le distanze, le sue labbra che sfiorarono il mio orecchio, sussurrando affinché i nostri genitori non udissero: «Senza di me dove speri di arrivare? Senza di me come speri di aprire gli occhi su chi ti circonda? Senza di me, Ophelia, sei solo una povera fallita».
Dovetti ingoiare le lacrime, quella ruvida stoccata.
Probabilmente l'ultima che le avrei mai sentito dire.
Mi allontanai e la guardai per una lunga manciata di secondi prima di scendere le scale. Avevo sperato fino all'ultimo di scorgere in lei qualcosa che più si avvicinasse al rimorso. Ma a quanto pare non avevo imparato proprio niente. Alla porta d'ingresso mi lanciai in un vigoroso abbraccio ai miei, che per tutto il tempo erano rimasti in disparte, a mo' di tristi manichini.
Mi diedi poi un pizzicotto mentale – non m'importa, tanto non la rivedrò più – e mi rivolsi comunque a Olivia, poco più indietro.
«Ti auguro che tu riesca a volerti più bene, Liv.»
Non una risposta, né un saluto, un addio.
Impassibile, mi voltò direttamente le spalle.
Col telefono all'orecchio, finse che non fossi mai esistita.
Non era stato necessario utilizzare la chiave del portone esterno, dal momento che il mio arrivo all'appartamento dei gemelli Cox aveva combaciato con il rientro a casa di una signora. Ne avevo approfittando per aiutarla con le buste della spesa fino al secondo piano. "Grazie, cara" e mi aveva allungato una caramella al limone.
Proseguii per altre due rampe prima di raggiungere la tappa.
Saggiai la forma dentellata delle chiavi col pollice.
Avendo il giorno libero, solo Fannie poteva essere in casa. Eppure, non mi piaceva l'idea di entrare senza nemmeno un minimo di preavviso. Di conseguenza, abbassai il manico del trolley e, sospirando, i dubbi vennero sostituiti dalla discrezione.
Prima di prendermi una simile libertà, suonai il campanello.
Al limite, avrei sempre fatto in tempo ad avvisarla per telefono.
Per qualcosa come una decina di secondi, se non di più, me ne stetti nell'androne a studiare quella porta. Nel frattempo, però, nessun rumore giunse dall'altra parte. Poi, a seguito di un mugugno, e prima ancora di telefonarle, venni interrotta da una serie di passi decisamente pesanti e da una buona dose di mormorii.
La porta si aprì di pochissimo. Fece capolino metà volto di Fannie e un occhio restio; era la perfetta rappresentazione di una signora che non perde l'abitudine di spiare dalle tende. Le mancavano all'appello solo un paio di occhiali muniti di cordino.
Stavo per lanciarmi in una presa in giro – chi potevo mai essere?
Ma l'ilarità venne rimpiazzata da una leggera perplessità.
«Ah, Ophelia.» Affermazione. «Ah, Ophelia!» Realizzazione.
«Eh sì, sono proprio io.» Feci scorrere lo sguardo sul suo corpo esile, ora avvolto da un accappatoio. «Ti stavi facendo la doccia?»
«Beh.» Si guardò. «Già.»
Ma non si azzardava ad aprire la porta.
Restammo immobili, a fissare i piedi dell'altra.
Mi schiarii la gola. «Quindi, ehm... Torno dopo?»
«Macché. Solo non credevo che arrivassi già ora.»
«Ho un pessimo tempismo. Lo so.»
«E casa nostra, come sai, è sempre un casino...»
«Tranquilla che mi so adattare al vostro stile di vita.»
«Vabbè, io allora tolgo il disturbo» fece eco una voce maschile.
Ci volle un po' prima che il mio cervello riuscisse a elaborare l'identità legata a quella voce baritonale e a quel tono perennemente smaliziato, scanzonato, serio di rado. Conclusi che poteva appartenere solo a un altro individuo che avevo conosciuto nell'ultimo anno. La risposta definitiva, infatti, apparve alle spalle di Fannie, la quale, scuotendo la testa, si rassegnò ad aprire la porta.
Ian la raggiunse mentre si abbottonava i primi bottoni della camicia, lasciando che un triangolo di torso dignitosamente scolpito spuntasse poco sotto, dove la camicia era ancora sbottonata. Occhiolino tattico non appena mi vide, seguito da un "Ehi, ragazzina", e, accostandosi alla mia amica, le stampò un bacio sulla tempia. La bocca mi si era congelata in una buffa "o".
«Sì» disse lei, a braccia conserte. «Gran pessimo tempismo.»
L'altro passò alle asole, fingendosi profondamente concentrato. «Ignorala, Ophelia, è scocciata perché ora si vede costretta a dare le dovute spiegazioni a tutti 'sti paparazzi.» Si guardò in giro; l'androne era deserto. Si voltò verso Fannie. «Duro lavoro, mi dicono.»
«Senti, ma perché non ti muovi e non te ne vai?»
Le si avvicinò e appoggiò un braccio sullo stipite, appena sopra la testa dell'altra. «Prima me lo dai un bacio?»
«No.» Mi fece cenno. «Ophelia ha fretta, deve entrare.»
«So aspettare!» convenni, invece, a mani avanti.
«Ophelia!»
Ian approfittò della sua distrazione per afferrarle il mento con due dita e lanciarsi in un rapido quanto vigoroso bacio. Parve più uno schiaffetto, uno sgarbo infantile, piuttosto che un bacio nel senso romantico del termine. Fannie lo assecondò soffocando una debole risata sulle sue labbra. Si scostò appena e sibilò: «Sbavi».
«Certo, come no.»
Ian si dileguò sventolando la mano per aria.
Sollevai le sopracciglia, Fannie si massaggiò la fronte, probabilmente per nascondere un minimo di rossore. «Dai, entra.»
Mi trascinai il trolley dentro. «Quindi prima parlavi di Ian?»
«Difficile da credere.»
«Ma da quando?!»
«Boh, due, tre settimane? Siamo usciti qualche volta.» Si fermò. «Quattro, con questa.» Proseguì, in direzione del piccolo divano al centro del salotto; ci si sedette di peso, stanca. La seguii a ruota.
«Ho un sacco di domande.»
«Spara. Anche se immagino.»
«Beh, per cominciare che cosa ti ha convinta a uscirci insieme.»
Si grattò la nuca, poi il capo, probabilmente per prendere tempo. «Le prime due volte che siamo usciti ha accettato che non mi piaccia scopare. Nel senso, siamo stati in giro e basta, e gli andava bene così. Nessuna pressione per "compiacerlo", nessuna frecciata maschilista o misogina da parte sua» disse. «È stato bravo, direi.»
«Te l'avevo detto che sareste andati d'accordo.»
«E poi... prima che io venissi a casa tua, lui era già da me. Già da un po', in realtà.» Mi guardò, scrollando le spalle con apparente noncuranza. «Terza base. Apprezzato, nulla di più. Ma forse perché di base apprezzo la sua compagnia... Anche se sì, è un cretino.»
Scoppiai a ridere; per la prima volta da quando era iniziata la giornata, se non addirittura da quando avevo appreso della situazione delicata di Desmond, mi sentii leggera. Mi sentii a casa.
Il momento durò poco, perché il sorriso di Fannie si spense e ne apparve uno che aveva ben poco di felice. Mi strinse affettuosamente il ginocchio. Smisi di ridere. «Quanto ha fatto male?»
Lì per lì non capii. O forse non mi andava di capire. Non ora.
Poi accadde che guardammo il trolley nello stesso momento.
Non ci volle molto prima che tornasse il magone; perciò, iniziai a tormentarmi le dita e mormorai: «Abbastanza, Fannie».
«Non tutti ne avrebbero il coraggio, lo sai?»
Esitai, poi annuii.
«Vedila così: da oggi si parte da zero.»
«Ammetto che mi fa paura tornare alla casella di partenza.»
«Fa paura se sei sola, usignolo» disse, e la dolcezza che impiegò nel dirlo, mi costrinse a guardarla e a ricambiare quel sorriso. «Anzi» aggiunse, e si allungò nel tavolino davanti afferrando il suo telefono. «Potremmo battezzare questo "ricominciare da zero".»
Corrugai le sopracciglia. «Che vuoi dire?»
«Intanto non prendere impegni per domani.» Digitò qualcosa sullo schermo e tornò da me, indirizzando un occhiolino. «Fidati.»
ANGOLO AUTRICE
Vi ho fatto attendere troppo per quasi 3k parole, lo so.
Non ho giustificazioni, ma è un periodo particolarmente intenso su più fronti. Perciò, eccoci qui con la terza e ultima parte del ciclo dell'abisso: Ophelia che esce da suo abisso, Ophelia che ci torna, che lo affronta. Ci sono tanti punti di vista, su questo argomento.
▪️ Quindi, vi chiedo semplicemente: nell'ultimo capitolo di questa epopea, cosa accadrà?
Dico ultimo, perché quello dopo ancora sarà l'epilogo, ragazzi. Esatto, avete sentito bene. Perciò, facciamo tutti insieme un respiro profondo e teniamoci per mano.
La fine è vicina. (La mia).
Spero di non farvi attendere troppo. 🤍
Playlist:
It's OK - Tom Rosenthal (prima parte)
https://youtu.be/Khpzs-7WWeA
Young Folks - Peter Bjorn and John (seconda parte)
https://youtu.be/t3kVlCELDdE
Instagram: The_blackcatshadow
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