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39. Porta aperta

Porta aperta









P.S musicale: fate partire "Streets of Philadelphia" nella quarta parte. ❤️‍🩹





























L'isolamento di Desmond stava durando una settimana.

E una settimana senza vederlo aveva significato abbandonarmi alle mille congetture di quel posto orribile che era la mia mente. Così, accompagnata dal tiepido russare di papà, capitava che nel cuore della notte approdassi in cucina e affogassi l'insonnia in una camomilla. E mentre il filtro faceva su e giù nella tazza, mi chiedevo cosa fosse mai accaduto. O meglio, che cosa avesse sentito uscire dalla bocca di Latisha da spingerlo al silenzio.

Non era da lui comportarsi così.

Tantomeno ignorarmi, dimenticarsi della mia esistenza. Il suo ultimo messaggio – la buonanotte seguita dall'emoji che soffia un bacio, epilogo di un discorso in cui ci erano finiti i cani e la bizzarra eventualità di prendersene uno – segnava una linea di separazione, una frattura profonda fra di noi. Ora, in quella stessa chat spaziavano dozzine di messaggi a senso unico. Io il mittente, io il destinatario. Desmond si era ridotto a un nome e basta; dietro a esso, nessun segno di vita, nessun visualizzato, nessun recente accesso a confortarmi. Senza contare delle chiamate: sempre in pasto alla segreteria. Ormai potevo considerarla una nuova amica.

All'ottavo giorno non era cambiato nulla, e all'ennesima chiamata senza uno straccio di riscontro avevo capito che non potevo farci granché. Senza contare che stavo sprecando giornate intere attaccata al telefono; a mente lucida, mi ero resa conto che non era un'alternativa produttiva: non avrebbe suscitato miracoli, né effetti farfalla degni di nota; qualsiasi cosa Desmond stesse assimilando, immaginai avesse solo bisogno dei suoi spazi. Quindi, frenando l'impulso di presentarmi a casa sua senza preavviso, ero giunta alla realtà dei fatti: non avevo il controllo della situazione.

Dovevo smetterla di controllare il telefono ogni secondo.

Desmond mi avrebbe contattata. Sì, l'avrebbe fatto.

Però accorcia i tempi, che non ce la faccio più. Ti prego.

Intanto, Olivia era rimasta bloccata a Vancouver e il volo di ritorno era stato cancellato causa maltempo. Perciò, in quel pomeriggio di inizio aprile, spinta dalla notizia di mia sorella lontana abbastanza da permettermi di affrontare i miei, avevo deciso di buttarmi. Con o senza il supporto di Desmond, l'iniziativa doveva comunque partire da me. Le parole erano le mie, non sue.

Anche se, ora, accomodati alla tavola da pranzo come in una brutta sceneggiatura di un interrogatorio con il poliziotto buono e il poliziotto cattivo, ebbi l'urgente bisogno di rimandare. Di nuovo.

Alzai lo sguardo dalle maniche larghe della felpa che lasciavano intravedere solo le unghie mangiate, e lo fissai su di loro; mamma si era dipinta l'espressione di chi non sa cosa aspettarsi, papà era un connubio di curiosità e rughe sulla fronte. Quattro occhi vicini, legati dalle medesime aspettative, non mi erano mai parsi così tanti. Affrontarli poteva rivelarsi l'esperienza più vicina a un'audizione.

«Va bene.» Mi schiarii la gola. «Vi confesso di avere paura.»

«Tesoro, ma ci dobbiamo preoccupare?» Papà spinse in su gli occhiali da vista e guardò di sbieco mamma, la quale ricambiò per un nanosecondo. «Inutile specificarlo, ma è già da parecchio che abbiamo notato questa tua necessità di parlarci e, paradossalmente, non parlarci. Non ci siamo mai intromessi perché sappiamo che sei sufficientemente sveglia da capire quando è il momento di bussare qui.» Picchierellò sul suo pomo d'Adamo. «E di aprire la porta.»

«Lo so e... grazie per avermi aspettata» mugugnai. «Non so se è il caso di preoccuparvi. Immagino di sì, forse un po'. È che ho da dirvi due cose, e per me sono entrambe molto difficili da... spiegare.» Feci una piccola pausa. «Sono due cose che, credo, potreste elaborare non proprio benissimo. Ci son voluti mesi prima di prendere questa decisione, per cui, vi prego, cercate di capirmi.»

La mia voce, all'ultima sillaba, vacillò.

Mamma depositò la mano calda sulle mie.

«Ma noi ti capiamo. Non siamo arrabbiati, Ophelia.»

«O delusi» aggiunse papà, guardandomi al di sopra della montatura degli occhiali. «Solo spaventati, come qualsiasi genitore potrebbe esserlo in una situazione analoga. Lo puoi capire, vero?»

«Sì, e mi dispiace avervi fatto attendere così a lungo», mormorai. «Temevo, e continuo a temere, che non mi vorreste più vedere, che non mi potreste credere... Ne avreste tutte le ragioni.»

«Quali ragioni?» Papà fu pacato ma, al contempo, tra le righe di quel quesito ci gettò un pizzico di durezza, quasi mi stesse sfidando. «Diccelo, ti abbiamo mai fatta sentire poco integrata? Abbiamo fatto qualcosa che non ti abbia fatto sentire a casa, o...»

«No! No, no. Quello mai.»

«E allora perché non dovremmo darti retta?»

«Perché pensare di non essere davvero vostra figlia mi ha fatto ingenuamente credere di trovarmi in una posizione insignificante.»

«Ophelia, ti abbiamo sempre detto che–»

«Lo so, ho sbagliato, e negli ultimi anni ho dato ascolto a una voce non mia, di cui mi fidavo... di cui anche voi vi fidate molto.»

Papà si ammutolì, non finì la frase.

Calò su di loro un pesante velo di allarmismo.

«Ho realizzato la situazione grazie a un'altra persona.» Faticai a deglutire. «Desmond, lo zio dei bimbi a cui faccio da babysitter.»

Mamma restò zitta, continuò a studiarmi; probabilmente, nell'inconscio stava reintegrando tutti i tasselli della chiacchierata di qualche tempo prima sulla persona con cui mi stavo vedendo.

«Ah sì, ho capito» disse subito papà, annuendo. «Me lo ricordo. Mica è quello che ha bussato da noi per restituirti la benda rossa?»

«Lui.» Fissai il tavolo. «Usciamo insieme da un paio di mesi.»

L'orologio della cucina ingoiò i secondi seguenti.

Secondi vuoti, in cui non ricevetti alcuna reazione.

Un pugno d'ansia mi colpì il petto. Rialzando lo sguardo, notai papà tamburellare le dita; le esaminava, le labbra eccessivamente stirate. Mamma era l'unica che mi guardava in faccia. Tuttavia, come per lui, c'era una tranquillità impeccabile, troppo artefatta.

«E con "uscire insieme"...» lasciò in sospeso lei.

«Sì, mamma» la bloccai. «Intendo dire quello.»

«Va bene.» Guardò papà. «Un po' grandicello.»

«Me ne rendo conto, ma...» Gli occhi di papà non si azzardavano ad affrontarmi; vi lessi un espediente per evitare il confronto. Mi ferì. «So cosa starete pensando. Ma vi assicuro che è una bravissima persona... E mi ha permesso di arrivare fino a questo punto.» Premetti l'indice sul tavolo. «Qui, davanti a voi.»

«Ti rispetta?»

«Sì. Non avete idea di quello che ha fatto per me.»

Mamma camuffò l'imbarazzo annuendo. «Allora va bene così.»

«Io vorrei conoscerlo prima di dire che "va bene così".»

«Allan...»

«Cosa?» Papà fermò le dita. «Sto chiedendo troppo?»

«Non chiedi troppo.» Mi guadagnai la sua completa attenzione. «Lo conoscerai. E quando accadrà, capirai il mio punto di vista.»

«Ophelia» disse. «Non è perché non mi fidi di te, sia chiaro. Ma è un uomo, adulto, e certamente con dei determinati propositi. Tu hai appena ventun anni, tesoro: stai iniziando adesso a gettare le basi sul tuo futuro, lui le ha già. Quanto tempo vuoi che passi prima che ti proponga di fare dei passi un po' troppo prematuri, per te?»

«Ne abbiamo già discusso.»

«Ah sì? E cosa è saltato fuori?»

«Che vuole sistemarsi. Matrimonio, figli. Mentre io mi voglio rimettere in carreggiata con la Juilliard. Lo accetta.» Con l'ultima notizia li presi alla sprovvista: le sopracciglia di papà schizzarono verso l'alto, mamma venne attraversata da un sussulto; si protese, gli occhi sgranati e brillanti di fierezza, ma tornò composta. Non gliel'avevo ancora detto. «In realtà è stato chiaro: non si azzarda a propormi cose per cui io, magari, non mi sento ancora pronta. Ma poi ci stiamo solo frequentando, non ci siamo imposti nulla, non ci sono pressioni. Tra l'altro, non si sa neanche quale sarà l'andazzo.»

Con quell'ultima frase, mi venne spontaneo controllare il telefono; lo tirai fuori dalla tasca, accesi la schermata, ma no, niente: continuava ad appellarsi al gioco del silenzio. Des, perché?

«La Juilliard?» sussurrò mamma, preda dell'emozione; mi obbligò a ricacciare il telefono a posto. «Davvero? Ne sei sicura?»

«Mai stata più sicura.»

Papà, tuttavia, non sembrò rasserenarsi. Non del tutto.

«Lui ha qualche ruolo in tutto questo?»

«Che vuoi dire?»

Si grattò la nuca. «Non contraddirmi: sono fiero di te, fierissimo. Non puoi neppure immaginare quanto. Ma mi piacerebbe capire quanto c'è di tuo, in questa decisione importante, e quanto di suo

Cacciai uno sbuffo – era talmente scettico da supporre che fossi stata condizionata dal volere di un uomo. «Di suo non c'è proprio nulla, papà: la decisione è soltanto mia. Lui si è limitato a collaborare dandomi la spinta di cui avevo bisogno. Quella spinta.» E gli raccontai del suo esperimento, del regalo di compleanno che portava la forma di un teatro sgombro, gli raccontai della polvere, del canto. Gli raccontai quanto in alto mi portavano le sue parole, quanta libertà respiravo accanto a lui. Ogni volta che ero con lui.

Papà ascoltò, senza mai scostare lo sguardo dal mio; nei suoi occhi catturai le sfumature della gratitudine accavallarsi a quelle del dispiacere. Ciò che mi fece più male; ne afferrai il motivo senza che lo spiegasse. «Noi ci abbiamo provato a spronarti, tante volte.»

«Lo so, papà, lo so» ribattei in un dolce, lento mormorio, allungandomi per stringergli le mani; mi resi conto che per lui significava fallire in quanto padre, che non essere riuscito ad aiutarmi rappresentasse un po' l'emblema della sconfitta. «Non hai niente di cui rimproverarti, ok? Siete due persone diverse, con diversi metodi e modi di pensare. Lui mi ha solo fatto vedere le cose da tutt'altra angolatura... Un'angolatura dolorosa.» Abbassai le palpebre per un attimo e posai il telefono sul tavolo, ponendolo tra di noi. «Un'angolatura da cui, temo, non avreste mai guardato.»

Lo fissarono.

«Voglio essere onesta con voi: amo quest'uomo, amo come riesce a prendersi cura delle mie debolezze, amo come riesca a farmi riflettere quando sento di buttarmi in scelte troppo avventate, amo come ha cercato appoggiare la mia voce quando io non ne ero in grado.» Mi osservai le dita che spuntavano dalla manica; di sicuro ero diventata rossa. «Se non approvate, posso capirlo. Ma non chiedetemi di lasciarlo: non voglio, e non potrei mai perdonarmelo» ammisi. «Sta attraversando un periodo difficile... Se lo lasciassi indietro proprio adesso, sarei una perfetta ingrata.»

Dopo qualche istante, papà ruppe il silenzio.

Gli uscì un sospiro e si abbandonò allo schienale della sedia. «Non posso privarti di un qualcosa che ti faccia bene, Ophelia, e nemmeno lo pretendo. Da quando sei entrata nelle nostre vite abbiamo sempre voluto questo: la tua felicità. E se quest'uomo ti supporta, non prevarica la tua libertà, non influenza in alcun modo le tue scelte, bene, proverò a conviverci.» Manifestò un sorriso triste. «Ma ha quasi quarant'anni, ok? Tu ne hai appena ventuno.»

Non aggiunse altro; lasciò che quella cruda verità galleggiasse nell'aria. Come una bolla di sapone in una stanza piena di spigoli.

Aprii bocca, intenzionata a farlo ragionare, ma mia madre, con la sua tipica delicatezza, mi anticipò: «Credo che papà, con tutto il bene che ti vuole, voglia solo metterti in guardia, che non ci vorrà molto prima che sentiate questa differenza d'età. Magari non adesso, non fra due o tre o cinque anni. Ma forse fra dieci, sì.» Intrecciò le dita. «Hai il mio appoggio. Sono felice che tu sia felice. Ma se lui è intenzionato a farsi una famiglia, probabilmente non vorrà aspettare ancora a lungo. E se davvero ti rispetta, come hai appena detto, e "non si azzarda a proporre delle cose per cui non ti senti ancora pronta", significa anche metterlo un po' in gabbia.» Mostrò anche lei un sorriso fiacco, e dentro di me si creò il vuoto. «Rispetto e libertà non sempre formano una bella squadra, tesoro. Delle volte pongono dei paletti all'altro senza davvero volerlo.»

Mi massaggiai la clavicola, poi il petto, un gesto guidato dalla pura necessità di fare qualcosa. Non che non ci avessi già pensato, ma, appunto, si erano sempre limitati a essere dei pensieri, parole vaghe, prive di basi, senza nulla di reale a cui dare peso. O almeno, questo finché qualcuno non si fosse deciso a spezzare l'illusione.

Se questa relazione con Desmond è destinata a un qualcosa di durevole, devo mettere in conto l'eventualità di metterlo in gabbia, intrappolarlo in un futuro che non vuole? Perché suona tanto come uno scherzo, l'ennesimo, di cattivo gusto? Dove io apro le porte della mia libertà e quelle di Desmond si chiudono all'improvviso?

Papà mi riportò alla realtà picchiando l'indice sullo schermo nero del cellulare. «E quando parlavi di "angolatura dolorosa"...»

Mi ridestai, rimandando quei timori a tempi migliori. «Parlavo di cosa potrebbe avermi spinta a non credere più in me stessa, sì.»

«Ma noi lo sappiamo» ribatté subito mamma. «È stato solo dopo quello spettacolo di beneficenza che tu e i tuoi amici avevate–»

«No.» Sbloccai lo schermo e selezionai la registrazione. «Ma forse è meglio che prima ascoltiate qui. Capirete cosa voglio dire.»

Senza ulteriori indugi, premetti su play.

























«... faresti solo la figura della pazza da internare

Dal telefono riecheggiarono le ultime parole scoccate da Olivia; la registrazione catturò un vago stropicciare di suoni e poi proseguì per altri quindici secondi di silenzio angustiante. Momento che immaginai combaciasse a quello in cui ero ritornata in camera mia.

La registrazione si interruppe.

Sollevando lo sguardo sui miei, mi resi conto – non senza avvertire un certo timore intrufolarsi tra le incertezze – che non avevano mai cambiato faccia. Continuavano a fissare lo schermo. Anche ora, immobili. Anche quando non c'era nulla da ascoltare.

Papà sostenne il mento su una mano, le dita che gli coprivano la bocca. Mamma, a braccia conserte sul tavolo, non batteva palpebra.

«Non potevo parlarvene senza avere delle prove da mostrarvi. Al contrario, non penso mi avreste mai creduta.» Mamma guardò da tutt'altra parte, verso la finestra da cui proveniva una dorata scia di luce pomeridiana; si grattò la narice, evitò di scostarsi una ciocca nera che le era cascata davanti l'occhio. «Vi prego, dite qualcosa.»

«Da quanto va avanti?» Papà fissò me. «Da quanto lo sai?»

«Da quest'inverno» riflettei. «Ho cercato di darmi delle spiegazioni sensate, ma continuo a non trovarne... e temo non ne troverete nemmeno voi.» Mi morsi il labbro, avvertendo il petto pesante. «Pensare di confessarvelo mi ha tormentata giorno e notte, per mesi, avevo paura. Ho paura. E se non mi vorrete credere...»

Mamma scattò in piedi all'improvviso, la sedia stridette; senza dire niente, si incamminò rapida in direzione del corridoio. Si udì lo sbattere della porta del bagno e lo scatto della serratura. Io e papà guardammo laddove era sparita, lui avvolto da un dolore muto, ma non per questo meno tangibile. Gli rendeva le rughe più delineate.

«Papà...»

Si tolse gli occhiali e si massaggiò le palpebre; appena si fermò, mostrò la sclera arrossata. «Non so davvero che cosa dire.» Si abbandonò a un pesante tono di rammarico, che rigettò anche nel suo respiro. «Non so cosa dire perché mi vergogno ad ascoltare cose simili uscire dalla bocca di una figlia» borbottò. «Non la riconosco. Non è così che l'abbiamo cresciuta, non è... Dio mio

«Voi non c'entrate niente.»

«O forse in parte sì, forse non abbiamo mai badato a delle mancanze che aveva. Non lo so, non riesco a capire, non riesco a trovare delle giustificazioni, non riesco a difenderla.» Scosse la testa, sussurrando: «Ophelia, mi dispiace... mi dispiace tanto...»

Lo ripete un'altra volta.

E una terza e quarta volta.

Alla quinta, gli ripresi le mani.

«Papà, non ti scusare. Non farlo.»

«E non l'abbiamo mai capito... Negli ultimi anni chissà come avrai sofferto, sola, zitta, e solo Dio sa cosa avrai pensato di noi.» Parole alterate dal disgusto, o dal dolore, o tutto insieme. «Mi...»

«No.» Diedi una leggera stretta alla presa, un richiamo affinché tornasse a guardarmi; il contorno dei suoi occhi si era inumidito. «Come potevate rendervene conto se nemmeno io c'ero riuscita?»

«Perché siamo i suoi genitori.» Il modo in cui lo disse comportò una fortissima stretta al cuore. «Se non ce ne accorgiamo noi, che abbiamo seguito passo a passo la sua crescita, chi dovrebbe farlo?»

«Ma non avete fatto nulla di sbagliato. Voi siete...» La lingua si attorcigliò, finii per balbettare senza volerlo. «Siete esemplari.»

Mi accarezzò la guancia per un secondo, a mo' di gesto compassionevole, come se fossi io da consolare e non lui, sull'orlo delle lacrime. «È gravissimo quello che ha fatto, è... terribile. Per tutto questo tempo ti ha fatto del male, Ophelia, male. Lo capisci?»

Certo che lo capisco: stiamo parlando di vostra figlia. Una figlia di sangue ma che adesso non sembra neanche esserlo più.

Ci volle qualche rintocco di orologio prima che trovasse il coraggio per chiedermi, non senza esitare: «Vuoi andartene via?»

Per quanto facesse male, dovetti annuire.

«Certo.» Si portò entrambe le mie mani alle labbra e gli scoccò un bacio; lo interpretai come un modo per esprimere nuovamente il suo immenso dispiacere, quasi volesse a tutti i costi cancellare il i danni inferti da quella ferita, come quando si è bambini e si pensa ingenuamente che anche il più piccolo gesto d'amore possa attenuare una sbucciatura al ginocchio. «E sai già dove andare?»

«Sì.» Osservai le nostre mani. «Per te è un problema se...?»

«Se mi confermi che è un brav'uomo, mi sta pure bene. Ma per favore, ti prego, se dovessero sorgere delle strane complicazioni, esigo che tu me lo venga a dire all'istante. Siamo intesi?» Annuii, e lui, a fatica, spostò l'attenzione all'ingresso. «Appena Olivia torna, io e tua madre le parleremo e troveremo una soluzione, ammesso che ne esistano.» Abbandonò la presa e si alzò. Probabilmente volle raggiungere mamma. «Temo che non potrà mai superare quanto ha appena sentito, lo stesso vale per me. Non hai... idea della stima e del bene che Cordelia ripone in Olivia.» L'ultimo pensiero, espresso a capo chino, da cane bastonato, parve averlo detto più a se stesso che a me. «Vado a vedere come sta.»

Aggirò il tavolo, mi diede una breve ma confortevole stretta alla spalla e si dileguò. Solo allora, mi ricordai di deglutire. Quel telefono restò a vegetare sul tavolo, la schermata accesa, sulla registrazione in pausa. Come in pausa era appena finita la mia vita.

Quel passo rappresentò un po' un punto e a capo.

Inaspettata possibilità per ricominciare da zero.

Eppure, la felicità era un termine ben lontano dal mio attuale stato d'animo. Non sentivo la tranquillità sperata, o il raggiungimento della tanto sperata spensieratezza. Sentivo invece un orrendo e ostinato fischiare nelle orecchie, tra le pareti del cuore, nello stomaco; era vittima dello stesso trauma acustico di quando esplode una bomba. Mi dissi che "aprire le porte" poteva risultare disorientante, sì liberatorio, ma per questo notevolmente doloroso.

Quanto poteva essere piacevole liberarsi di un peso con cui avevo convissuto per tanto tempo? Era una nuova parte del corpo, ormai, una nuova estensione di me, poteva benissimo essere dotata di una coscienza tutta sua. Che me ne fossi liberata mi dava l'impressione che mi avessero appena asportato un pezzo di carne: non c'era nulla di gratificante, solo uno sconfinato senso di vuoto.























«Se sporchi il pavimento, pulisci tu. Con la lingua.»

«Ma smettila di rompere le palle e vieni qui!»

Warren stappò una bottiglia di birra.

Fannie, avvolta da una di quelle espressioni che anticipa una crisi isterica, allungò svogliatamente il suo bicchiere, borbottando: «Se, se... ma sbrigati, che la pausa mi finisce fra cinque minuti».

Ci eravamo appartati nelle cucine, dove a ritmi alterni spuntavano i loro genitori a dare una controllata alle ordinazioni in corso e alla merce in magazzino. Warren aveva timbrato da poco la fine del turno, che aveva combaciato con la mia timida entrata nel Taste A Wish; a seguito dei miei aggiornamenti, non aveva lasciato spazio a reazioni istantanee. Non in sala e davanti alla clientela, almeno. Per cui, mi aveva sbrigativamente tirata dal polso e costretta a seguirlo nelle cucine, dove Fannie stava usufruendo del suo momento di stacco per consumare una barretta energetica.

Seduta su uno sgabello, con una mano reggeva l'incarto di plastica e con l'altra scorreva il pollice sullo smartphone; quando aveva notato la mia presenza, aveva interrotto la masticazione e sollevato le sopracciglia dalla sorpresa. Suo fratello, esaltato come un bambino al parco, si era preso l'impegno di fare da tramite, riferendole gli avvenimenti. Da lì, la sua necessità di "festeggiare".

Non che avessi tutta quell'impellente voglia di bere. In realtà pensavo ancora a mia madre, a come fosse fuggita, al suo silenzio, al suo dolore. A come non avessi più avuto modo di incrociarla.

Papà si era trattenuto in bagno per un bel po'; mi ero permessa di accostarmi silenziosamente alla porta nella speranza di ascoltare qualcosa, ma più di mormorii attutiti e soffiate al naso non era arrivato granché. Anche se erano stati indizi più che sufficienti per afferrare la situazione. Perciò, avevo lasciato un post-it nel tavolino dell'ingresso e, per una questione di tatto, avevo stabilito di uscire per prendere una boccata d'aria; non ero sicura che affrontarmi adesso, per lei, fosse in cima alla lista delle cose che avrebbe tanto voluto fare. Di conseguenza, avevo optato per una passeggiata sulla caotica Germantown Avenue, entrando e uscendo da negozi e boutique. Quando mi ero stancata, avevo raggiunto la tavola calda.

Rubai un sorso dal bicchiere, un gesto quasi meccanico.

Realizzai dopo un po' che stavo fissando il nulla.

«Perché non...»

Fannie stava parlottando con Warren.

Si accorsero che li stavo osservando.

«Tu che ne pensi?» gli chiese, dando un morso alla barretta; non capii. «Sei ancora d'accordo su quella cosa? O ci hai ripensato?»

Lui scrollò le spalle. «A me va bene se a te va bene.»

Fannie si rivolse a me. «Perfetto, allora te lo chiediamo: ti va di venire a stare da noi?» Il quesito fu talmente inaspettato che dovetti posare il bicchiere sul tavolo. «Chiaro, conosci già la nostra situazione: non viviamo in un villone, non c'è molto spazio, non siamo tantomeno gli Holmberg, di sicuro non ti garantiamo tutti i comfort di casa tua, ma nell'appartamentino c'è un divano-letto.»

«Avresti la tua sacrosanta privacy, anche perché dormiamo in camere separate, ovviamente» sottolineò Warren. «E c'è il Wi-Fi.»

«Un riscaldamento funzionante.»

«Cibo di qualità del discount.»

«Anche se nessuno dei due sa cucinare.»

«Con me saremmo in tre» soffiai con una risata, il che scatenò l'ilarità dei due; guardai prima l'uno e poi l'altra, il cuore gonfio di gratitudine. «Ragazzi, non so cosa... Cioè, non voglio che voi...»

Warren piazzò una mano avanti. «Non ci devi rispondere ora.»

«Soprattutto, non vederla come una costrizione.» Fannie gettò la confezione della barretta in un cestino a pedali. «Insomma, da quando ci hai raccontato la situazione a casa ci è venuto spontaneo pensarci... Non sei una sconosciuta, tantomeno una scroccona.» Si spolverò i pantaloni, con un mini sorriso. «Lo faremmo volentieri.»

«È che...» Mi grattai il naso, impacciata.

«Ahh, va bene, tutto chiaro, non dire altro.» L'immediata reazione sorniona di Warren. «Qualcuno ci ha battuto sul tempo.»

«... ecco, in pratica» dissi con un che di amaro; dal nervoso, mi mordicchiai l'unghia del pollice. «Anche se non c'è nulla di certo.»

«Perché?» domandarono all'unisono.

«Eh, ci sono stati degli sviluppi strani. Desmond non–»

Il telefono prese a vibrare nella tasca del cappotto. Ci zittimmo, Warren e Fannie che attendevano che rispondessi. Ci volle qualche istante prima che il mio corpo reagisse; senza nemmeno verificare chi fosse, mi alzai come punta da uno spillo e mi tuffai a rispondere. All'improvviso avevo delle gambe fragili, un freddo inspiegabile si era insinuato languidamente oltre il cappotto, il maglioncino.

Il mio corpo sapeva.

Avevo imparato che esistevano parti di esso dotate di una lungimiranza che, per quanto spaventoso sembrasse, non aveva nulla di umano: erano parti più intelligenti, non perdevano tempo, non interpellavano la mente, si affrettavano a creare la protezione ideale contro il mondo esterno. Così, tutto si aggrappava all'istinto di sopravvivenza: tutto diventava scudo, un muro, tutto si tendeva.

Tutto si preparava laddove la testa non era pronta.

Quella poca prontezza non permise alla voce di uscire.

«Ophelia?»

Guardai i miei amici, loro corrugarono la fronte. Mi voltai, dandogli di schiena; senza un perché, abbassai il tono. «Gregg.»

«Questa chiamata non era prevista.»

Mi bastarono quelle poche parole perché mi giungesse una stilettata di stanchezza. Stetti comunque in silenzio, i muscoli che non facevano che tendersi; in sottofondo, il nulla. Pensai che in quella settimana non ero nemmeno stata chiamata per fare da babysitter ai bambini. Persino uno stupido avrebbe intuito che c'era qualcosa che sapeva di marcio ad aleggiare tra i fratelli Holmberg.

Mi allontanai dai gemelli, nascondendomi dietro al frigo.

«Innanzitutto, mi sembra doveroso comunicarti che da oggi puoi pure restare a casa. D'ora in poi i bambini saranno coperti dalla mia supervisione, visto che ho ricevuto la possibilità di lavorare da remoto. Nei prossimi giorni ti verrà versata la liquidazione e–»

«Desmond come sta?»

Quella domanda si riversò di getto, soffocata dall'ansia.

Sì, ero felice per Gregg e i bambini, ma ero stanca di aspettare.

«È il motivo per cui questa chiamata non era prevista.» Lo tradì un tono masticato da quello che parve più di una lieve preoccupazione, probabilmente era la stessa di cui ero stata succube per una settimana intera. In lui, tuttavia, percepivo qualcosa di più consistente, di più grave. «Desmond non sta bene. In questo momento sta metabolizzando qualcosa che né io, né lui, né nessun altro nella nostra famiglia avrebbe potuto immaginare.»

«Puoi parlarmene?»

Impaziente, non attesi riscontri.

«Posso vederlo? Posso vederlo ora?»

«Credo sia meglio, sì» mormorò. «Al di là di quello che penso sul vostro rapporto, se ti ho chiamata è perché gli voglio bene e so quanto sei importante per lui... Ed è perché sei così importante se non ti ha voluto cercare. Anzi, se non avesse avuto scelta, temo non avrebbe cercato neppure me. O nostra madre.» Rilasciò un lungo respiro arrochito, come per placarsi, non lasciarsi trasportare. «Non vuole confronti, non vuole vedere nessuno, ma allo stesso tempo ha bisogno di tantissimo conforto, di quanto più amore possibile.»

Tesi le labbra, incurante dei gemelli che ascoltavano.

«E non vuole confronti con me perché ha paura di... me?»

Come puoi aver paura dopo tutto ciò che abbiamo condiviso?

«Paura di quello che potresti pensare, paura di come potresti prenderla. Si odia, si fa schifo, si trascura. Prova una grande vergogna verso se stesso.» Avvertii la sua voce impastarsi. «Talmente tanta da abbandonare le sue ambizioni, il lavoro, il suo futuro... Per necessità ha preferito isolarsi. È in malattia da giorni.»

«Mio Dio, ma che cos'è successo? Latisha cosa–»

Ridusse il tono a un soffio. «Vieni direttamente qui, parla con quella testa di cazzo. Se mi sentisse parlarne alle sue spalle non me lo perdonerebbe mai.» Borbottò dell'altro. «Una spiegazione te la deve, vista la gravità. È il minimo, e lo sa. Non oso pensare se...»

«È lì da te?» tagliai corto, superando i gemelli.

«È sempre da me, ormai.»

«Va bene.» Uscii dalle cucine. «Sto arrivando.»



























Il sole aveva deciso di spiare silenziosamente il corso degli eventi dietro la serratura di un unico grande nembo. Davanti al campanello degli Holmberg, mi ricordai di fare uno squillo a Gregg. Secondo lui era la soluzione migliore: al contrario, suonare il campanello avrebbe allarmato Desmond che, come gli animali quando captano una fonte di pericolo, sarebbe stato meno propenso a un approccio pacifico. A quanto pareva, si era scavato una tana nella stanza degli ospiti. Casa sua, adesso, la frequentava di rado.

Des, che cosa ti ha portato a una chiusura così drastica?

Gregg spalancò la porta.

Che cosa ti ha rubato la voce?

Mi fece cenno dietro di sé con la testa, non si perse in chiacchiere superflue, evitò accuratamente il mio sguardo. Ma prima di superarlo, mi venne spontaneo stringergli il polso con dolcezza. Sciolsi la stretta appena si decise a guardarmi in faccia; sclera arrossata, palpebre pesanti, una rigidità che mal si armonizzava con la tristezza che gli ammaccava i lineamenti duri.

Poi un sussurro, il mio: «È così grave?»

«Dipende da come vuoi vederla.» Chiuse la porta, schiarendosi la voce. «Vai pure di sopra, per favore. Ci sono i bambini qui nel mio studio, non vorrei che vedendoti inizino a fare troppo rumore.»

Gregg mi voltò le spalle e si incamminò lungo il corridoio, sbrigativo, trascinandosi una densa scia di palpabile apprensione.

Non mi restò che assecondare la richiesta.

Immaginai che non se la sentisse di rispondere a cuore aperto, che chissà facendolo cosa avrei potuto vedere. Quel pensiero fu la spinta in un abisso di timori, che crebbe maggiormente quando salii le scale, gradino dopo gradino, battito dopo battito. Tempo un paio di porte – la camera dei bambini e la matrimoniale – che mi ritrovai di fronte a quella degli ospiti. In uno stato di apnea mentale, attesi.

Col pugno a mezz'aria, però, ci ripensai.

Bussare avrebbe solo scatenato casini.

Perciò abbassai cautamente la maniglia.

Era un po' come affacciarmi oltre la soglia dell'incubo di qualche mese prima, dove c'ero io e un palco vertiginoso e le facce senza volto e quei ghigni come occhi spaventosi; ero terrorizzata.

Eppure, parte del terrore si dimostrò infondato. Non sapevo neanche io cosa aspettarmi: magari un ambiente buio, le tende tirate, puzza di chiuso, il letto sfatto, vestiti sparsi, disordine, trascuratezza, aria di abbandono. Invece, mi parve tutto spaventosamente normale; il letto a doppia piazza con le coperte ben stirate, le pantofole nascoste là sotto, il cuscino sformato – segno che era stato usato da poco –, un fumetto a donare colore. Un bicchiere sul comodino, la bottiglia d'acqua a terra, scatoline di carta aperte, ma di cui non fui in grado di identificarne la natura.

E Desmond affacciato alla finestra, la schiena piegata. Stava scrollando una sigaretta sul posacenere che si era sistemato vicino.

La brezza spettinava i suoi capelli.

«Che c'è?»

Quel rantolo stanco mi fece salire le lacrime agli occhi; bastò per farmi venire voglia di correre e abbracciarlo e baciarlo e stringerlo. Era bastata una settimana senza di lui, una, per capire cosa potesse provare un individuo a cui viene asportato un braccio.

Tuttavia, non si girò; continuò a fumare come se nulla fosse.

Strinsi la bocca e, di proposito, sbattei forte la porta.

«Che cazzo, Gregg, ti ho de–»

Voltandosi, schiacciò brutalmente il mozzicone nel posacenere, ma le parole restarono in sospeso come pericolose incudini.

Si accorse che non ero Gregg.

Lento, raddrizzò la schiena, l'espressione cagnesca restò in ogni caso inalterata. Le sue dita schiacciavano ancora quella sigaretta.

«È stato lui?»

Non risposi, scossa da una versione di lui così disordinata.

«Ti ha chiamata lui?»

«È tutto quello che hai da dire?»

Lasciò la sigaretta e, a grandi falcate, fece per raggiungermi. «Ora quello stronzo mi sente» disse un sibilo. «Adesso gli do...»

Mi spostai lateralmente, dove c'era la maniglia, e gli impedii di avanzare; a testa in su, faccia a faccia, i suoi occhi fissi sulla porta, quella che immaginai rappresentasse un po' la sua unica scappatoia, l'uscita d'emergenza. Dovette abbassare lo sguardo, ed io, con una mano dietro la schiena, girai la chiave. «Basta scappare...» sussurrai in un dolce ammonimento e, seppur indecisa, piantai il palmo sulla sua guancia. Venne attraversata da un guizzo di rabbia; però, si lasciò sfiorare, una barba decisamente troppo folta pizzicò quel contatto. «Non me ne voglio andare.» Col pollice, accarezzai il pomo d'Adamo, su e giù, piano. «Parlami.»

Lui voltò il capo, guardò il muro.

«Di cosa hai paura?»

L'interruttore. I suoi occhi divennero specchi di lacrime.

«Desmond, guardami.» Lo fece, parve costargli una fatica immensa, e laggiù ci lessi tantissima rabbia. Rabbia che era terrore. «Non me ne vado» mormorai più vicina. «Io non ti lascio indietro

Una lacrima sgattaiolò, scorse fino al mento, in quel volto pallido e smagrito. Appassito. Era come se in una settimana fosse improvvisamente invecchiato. E forse, pur di non farsi vedere in un simile stato di vulnerabilità, cercò un nascondiglio in me, da qualche parte nel mio corpo. Ma io ero troppo piccola e lui troppo grande, non esistevano rifugi, spazi abbastanza ampi per accogliere un dolore direttamente proporzionale alla grandezza del suo possessore. Ero sempre io a nascondermi dentro di lui. Una realtà in cui accadeva il contrario non era concepibile. Fino ad allora.

Desmond ci provò, accasciandosi su di me.

Fronte contro fronte, all'inizio. Nell'incavo della mia spalla, poi. Respirò profondamente, prima che due singhiozzi silenziosi lo scuotessero, lo rompessero più di quanto già non sembrasse. Poi crollò, in ginocchio, il suo viso che premeva tra i seni, e poco più sotto. Premette, stampò la sua sofferenza, il suo volto, sfregò, e mi circondò, mi abbracciò la vita, le unghie che affondavano nel cappotto. Sconcertata, assecondai la sua necessità di scavarsi una tana, gli permisi di nascondersi, di fare di me un ritrovo dove le nostre anime potessero toccarsi, inglobarsi, inghiottirsi a vicenda.

Eppure, era l'ultima cosa che volevo: che se ne stesse in un gradino più in basso del mio, chinasse il capo e si sottomettesse.

Scivolai in ginocchio anch'io. Lo abbracciai.

«Ehi.»

«Ho tanta paura» esalò tra i singhiozzi. «Non ho un futuro.»

Gli baciai la spalla. «Certo che lo hai, Des, certo che–»

«Non più, è tutto finito.» Tremò, e ciò che si decise a confessare non fece tremare solo il mio cuore. «Sono sieropositivo, Ophelia».

























ANGOLO AUTRICE





Buonasera, nightingales!
Anzi, meglio: addio, amici! Addio, addio! 🎶

Solo io so quanto fremessi dal pubblicare QUESTO dannato capitolo. E lo ammetto: nel corso di 'sti due lunghi anni di stesura mi sono divertita parecchio a leggere e ad ascoltare le vostre teorie su Desmond, su ciò che potrebbe avere. Ma più che teorie, delle volte ho ricevuto vere e proprie lettere minatorie dove spiccava sempre il vostro dolcissimo "Se me lo ammazzi, ti vengo a trovare". Chiaramente, non posso sbilanciarsi sulle sorti: il finale, però, è ben piazzato nella mia mente. Non esiste nulla che possa farmelo cambiare. 

Perciò, non vi resta che aspettare. 😶‍🌫️

Ora, bando alle chiacchiere, veniamo a questioni più serie: per chi non lo sapesse, l'essere sieropositivi significa essere portatore dell'HIV. E, attenzione, HIV e AIDS non sono la stessa cosa: l'AIDS identifica uno stadio clinico avanzato (l'ultima fase, in parole povere) dell'HIV.

Visto che mi piace giocare al piccolo investigatore (e da quello che ho constatato, anche voi), rimettiamo insieme i pezzi: Latisha - a questo punto penso sia chiaro - si nasconde dietro alla "scusa" del non volere figli, faticava a lasciarsi toccare da Desmond (per una questione di schifo nei confronti di se stessa, ma approfondiremo questo punto nel prossimo capitolo) e lui diceva a Ian che l'ultimo momento di intimità risaliva a diverso tempo fa, durante quella famosa pausa di riflessione con Desmond è stata con un altro (di cui già si parlava durante il capitolo della sfilata), Latisha più magra/sciupata (di conseguenza anche Desmond). Infine, la persistente tosse di Desmond.

MA. 

Già, c'è pure un MA.

Esiste anche un'altra cosa che si collega al tema ma si disloca dalla sfera Desmond-Latisha. Nel prossimo ne parleremo. Tra l'altro, piccola nota personale: sono contenta di aver avuto modo di inserire questa tematica importante in questa storia, visto che ad oggi è ancora vista come un tabù. E qui, il collegamento va sempre alla questione della "voce". ❤️‍🩹

Il motivo per cui salta fuori solo alla fine è per il semplice fatto che non è il tema principale della storia, bensì uno dei punti secondari. Ha un suo senso, fidatevi di me e del finale. 🤍

Continuo a sentirmi in colpa per Desmond.
E' da 39 capitoli che penso sempre "Scusami, so che meritavi di meglio".

Tuttavia, non è ancora detta l'ultima parola. 🤍

Nei prossimi due capitoli ci immergeremo nel mondo dell'HIV.
Alla prossima, nightingales! (E bravi chi, nello scorso chap, ha indovinato - siete stati in due, ma bravi comunque, non è cosa da nulla afferrare gli indizi che avevo inserito).

Piccola chicca: il brano "Streets of Philadelphia" è la colonna sonora del film Philadelphia, dove anche lì si parla di HIV: nello specifico, un avvocato scopre di essere sieropositivo. Che dire, ringrazio Springsteen per avermi lanciato questa botta di ispirazione.







Playlist:

Mad World - Gary Jules (prima parte)

The Moth & The Flame - Empire & The Sun (seconda parte)

Layers - The Away Days (terza parte)

Streets of Philadelphia - Bruce Springsteen (quarta parte)

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