35. Errore - Pt. 1
Errore
Pt. 1
Desmond neanche immaginava di avere una grande influenza su di me. Lo notavo dalle piccole cose, come il trovarmi a mio agio nell'osare. Se fino all'estate precedente era un termine che mi terrorizzava mettere in pratica, adesso mi divertiva individuarci sfumature sempre nuove.
Ogni volta che ne avevamo l'occasione, finivamo per replicare ciò che era accaduto quella sera. Per scoprirci, conoscerci, capire cosa piacesse all'altro e cosa no. A volte erano gesti trasportati dalla delicatezza, altre dall'impazienza. A volte accadeva sul suo letto, sul divano, altre in piedi, appoggiati al piano della cucina.
Un pomeriggio, mentre alla televisione ronzava la pubblicità delle Cheetos e io me ne stavo con la testa sulle gambe di Desmond a lasciarmi accarezzare la clavicola, gli avevo confessato, non senza provare dell'impaccio, che per il momento non mi attirava chissà quanto provare il sesso orale. Mi ero sentita in dovere di dirglielo, specie perché, al liceo, sentivo spesso tra i ragazzi quanto fosse considerato qualcosa di essenziale, che senza ne avrebbe risentito qualsiasi relazione. Ma Desmond non era un ragazzo; lui aveva annuito senza scomporsi o tradire smorfie che avrebbero dovuto palesarne la delusione, il che l'avevo ritenuto profondamente rassicurante; dalla sua, invece, mi aveva informata di soffrire il solletico in parti del corpo in cui, durante un approccio più fisico, era inevitabile sfiorare. Tipo all'inguine, o alla pancia.
Era bastata quell'informazione per scattare sulle sue ginocchia e iniziare a solleticargli l'addome; si era irrigidito contro lo schienale ed era esploso in una risata di pancia, cercando di afferrarmi i polsi. L'eco delle nostre risa aveva imbottito il salone fino a che non mi aveva stesa sul divano e, incombendo su di me, aveva frenato sul nascere altre provocazioni riempiendomi di baci.
Vedevo Desmond più sciolto, sebbene le incertezze non lo abbandonassero mai, tantomeno l'assicurarsi che volessi davvero fare questo o quello. Delle volte lo prendevo in giro.
Inoltre, rispondere a Olivia aveva sbloccato qualcosa; era una sensazione che si accostava alla soddisfazione di quando senti lo scatto di una serratura forzata a lungo. Quel primo passo aveva oliato gli ingranaggi di un coraggio che davo ormai per assopito.
Il passo seguente sarebbe stato riconciliarmi con i miei.
Già da qualche settimana stavo tentando di essere più presente nelle loro vite con la più futile scusa e, speravo, nella maniera più naturale possibile: aiutare a sistemare la spesa, offrirmi per le commissioni, assistere alle lezioni private di mamma, aggregarmi a papà nella visione del talk show di Fallon.
Ero sicura che si fossero fatti qualche domanda.
Meglio così: mi ero stancata di nascondermi.
«Ehi, mamma.»
Avevo infilato la faccia nell'uscio della cucina. Lei, senza smettere di pelare le carote sul tagliere, avevo mugugnato: «Mh?»
«Hai bisogno di una mano?»
Si era fermata con il pelapatate a mezz'aria e aveva voltato la testa; gli occhi azzurri si erano raggrinziti di piacevole sorpresa e mi aveva fatto cenno di raggiungerla. «Certo. Ci sono delle patate già pesate da pelare.»
Dedussi avesse colto che volevo starle vicina.
Mi lavai le mani e, tirata su le maniche, mi posizionai al suo fianco, afferrando un tubero dal contenitore accanto alla bilancia. «Mi chiedevo... hai visto Olivia? Non la vedo da ieri.»
Quella domanda premeva di uscire da giorni.
Incrociare mia sorella era diventato impossibile.
Sospettavo stesse adottando lo stesso comportamento di quando le cose non andavano come sperava: evitarmi, farmi sentire in colpa con il trattamento del silenzio. Un po' ci stava riuscendo: forse, fra tutte le uscite che la rabbia non faceva che rimasticare, quella che le avevo sputato contro al telefono me la sarei potuta risparmiare e usarne una più accomodante.
Tuttavia, non ero convinta fosse per quello: avevo constatato che avesse meno spazio da dedicare alla famiglia e, di conseguenza, trovarla in casa diventava una rarità. Dalla New York Fashion Week veniva ingaggiata sempre più spesso per eventi promozionali a orari irregolari. Senza contare delle trasferte all'estero. Non era una novità se la sua faccia comparisse massimo due giorni a settimana.
Era anche vero che non mi aveva più cercata.
In più, temevo avesse spiattellato ai miei che mi vedevo con lo zio dei bambini a cui facevo da babysitter, sebbene, per lei, fossero ancora dei sospetti infondati. Speravo comunque che fosse stata colpita da un improvviso atto di solidarietà fra sorelle; avevo bisogno dei miei tempi per confessarlo ai miei, non potevo sapere come avrebbero metabolizzato la notizia che stessi uscendo con un uomo di quindici anni più grande. Ma se mamma non mi aveva ancora interpellata, ero sicura che non lo sapesse.
«Non te l'ha detto?»
Negai, serrando le labbra.
«L'altro giorno è stata chiamata dalla sua agente.» Finito di pelare la carota, ne prese una seconda. «Le è stato offerto di prestare il volto per pubblicizzare una nuova linea di rossetti. Deborah, se non erro. Ha dovuto fare di corsa le valigie per volare in Italia.»
«Capito.» Mi schiarii la voce, il raschiare dell'utensile l'unico rumore a riempire gli intervalli di silenzio. «Sono... felice per lei.»
Girò il capo; probabilmente il mio tono aveva tradito qualcosa. Ma parve sorvolare e continuare il suo lavoro, scostandosi un ciuffo che le era sfuggito dal pinzone con cui aveva raccolto i capelli; qualche filo più grigio di altri si divertiva a creare un raffinato contrasto sul nero.
«Quando torna?»
«Forse intorno a San Valentino, o giù di lì. Ma non era sicura... Sto ancora aspettando un suo messaggio.» Terminate le carote, afferrò una zucchina e ne tagliò le estremità. Si scostò ancora il ciuffo, prima di sospirare: «Da quanto tempo è che non vi parlate?»
Deglutii, ma alla fine loro vedevano.
Era inutile insabbiare. Alla lunga, diventava patetico.
«Parecchio.» Impugnai una quarta patata; a quel punto, chiusi per un attimo gli occhi e, pelando con più determinazione, mormorai: «Scusami, mamma».
Quelle due ultime parole galleggiarono come bollicine.
Dal salone, si intromisero i brusii della televisione accesa.
«Per cosa?»
«Perché ti ho costretta a mentire a tua figlia. So che non è bello.» Ingoiai le lacrime e strinsi l'arnese finché le nocche non assunsero una tonalità più chiara; parlare di lei significava far risalire a galla tutto in una sequenza di spiacevoli fotogrammi mentali; dal suo abbandono al Down Nightclub, allo schiaffo dagli Holmberg, ai dietro le quinte dello spettacolo di beneficenza. Perciò, mi ricomposi. «Ed è per questo che ti chiedo di non mentirle più: ora mi sento tranquilla.»
Tirò fuori la pattumiera e, con una passata, ci fece precipitare le bucce; nel frattempo assunse un'espressione che non ne nascondeva la preoccupazione. «Ophelia, posso dirtela una cosa?»
«Certo, sì.»
Interruppi l'attività per osservarla mentre ricollocava il bidone nello sportello sotto al lavello. «Sono sicura che è il risultato di molte notti passate in bianco, e probabilmente ti lascerò un po' spaesata, ma voglio che le tue orecchie lo sentano lo stesso e che non se lo dimentichino mai.» Tornò dritta, si passò il polso sulla fronte, e iniziò a tagliare a pezzi sproporzionati i tuberi sbucciati; quell'azione brusca non le impedì di utilizzare un tono morbido, materno. «Né io né Allan ti abbiamo mai considerata adottata. Fra te e Olivia non vedo differenze, e quando vi guardo la prima cosa che penso è "come sono belle le mie figlie, come crescono bene, come sono orgogliosa di loro".» Si inumidì le labbra. «Se sono nate delle discussioni, cosa normale fra sorelle, non pensare mai, e neanche per un secondo, che non ascolteremo la tua versione solo perché non sei biologicamente sangue del nostro sangue. Chiaro?»
Mi dovetti mordere la guancia per impedirmi di piangere. Ringraziai il cielo di essere occupata con la sbucciatura.
«Lo so.» Uscì un gorgoglio sommesso. «Grazie.»
Mamma si allungò e mi stampò un bacio sulla spalla.
Non indagò, e di questo gliene fui grata, come tutte le volte precedenti; all'improvviso mi sentivo così leggera da credere di essere una piuma: volavo, e volavo, i problemi si allontanavano e si ridimensionavano a qualcosa di minuscolo, da contenerli nel palmo della mano. Quel discorso mi iniettò una bella dose di fiducia: sentivo di poter gestire tutto, sentivo di farcela.
Mi si allargò un piccolo sorriso.
Mi ridestai appena realizzai di aver terminato il lavoretto. Il contenitore era vuoto, bucce e piccoli germogli giacevano sul tagliere. Mamma non perse tempo e gettò gli ortaggi in una pentola.
«Ah, una cosa...»
«Dimmi pure.» Regolò la fiamma.
«A proposito di San Valentino... Quel weekend non ci sarò.»
«Sei via con gli altri? Qualche escursione?»
«Già, qualcosa del genere. Non abbiamo deciso.»
Nervosa, mi scostai più volte i capelli dietro le orecchie.
Passò qualche secondo, tempo in cui mise su il coperchio.
«Capisco.» Recuperò il tritatutto da uno degli sportelli superiori; senza battere ciglio, mentre lo montava, aggiunse: «Lui chi è?»
L'uscita mi impedì di deglutire. Mi colse alla sprovvista.
Stabilii di tentare la carta della sprovveduta. «Lui?»
«Ophelia.» Sorrise; di profilo, il suo occhio somigliò a una duna. «Riconosco ancora i segni, e le bugie non sono ancora il tuo forte.» Senza guardarmi, si strofinò la gola; il panico mi portò a toccarmi quel punto. Ero sicura che il succhiotto di qualche settimana prima fosse sparito e che fossi riuscita a... «Qualche tempo fa avevo notato un cerchio di fondotinta un po' troppo scuro proprio lì, dove ti stai toccando. Con una pelle chiara come la tua salta all'occhio.»
Mi dovetti abbandonare a strofinarmi le palpebre. «E papà ha...»
«Tranquilla. Per il momento non ha capito nulla.» Sollevò il coperchio dalla pentola, una nuvola di vapore le si dissolse in faccia, e lo chiuse subito dopo; dopodiché, addossandosi al piano da lavoro su un fianco, mi guardò curiosa. «Allora?»
«Beh...» Afferrai un canovaccio e iniziai a tormentarlo; sapevo benissimo di star arrossendo come una dannata. «Ci conosciamo da un po', in realtà. Ora stiamo provando a frequentarci.»
«È per caso il mio ex alunno? Alejandro, mica?»
«No, no. Con lui siamo sempre amici.»
«Oh, peccato! Ricordo di aver percepito una bella sintonia.» Poi si incurvò fino a posare i gomiti sul piano di marmo; i suoi occhi assunsero una tonalità più accesa, era una felicità talmente disarmante da sbiadirle le rughe, la ringiovaniva. Fu in grado di mettermi ancor più a mio agio. «Dev'essere un dono del cielo se è capace di farti sorridere così.»
Premette l'indice nell'angolo della mia bocca.
Subito, quel punto si allungò. «Si nota molto?»
«Non fai altro, dopo mesi di...» Gli occhi stettero così, felici, ma adesso anche un po' rotti. «Dall'incidente avevi smesso. Io e papà ci siamo sentiti impotenti per tanto tempo. Non sapevamo più come aiutarti, come tirare fuori l'Ophelia che abbiamo cresciuto.»
«Gli devo tanto, mamma, non immagini quanto» mormorai. «Senza di lui, probabilmente sarei ancora ridotta così.»
Si drizzò e, premendo la mano screpolata sulla mia nuca, mi avvicinò delicatamente al petto. Mi venne spontaneo ricambiare; erano mesi che desideravo immergermi in uno dei suoi abbracci.
Mi erano mancati.
Schiacciai la fronte sulla sua spalla, inalando l'inconfondibile odore di mamma, ora intaccato dagli aromi caldi che aleggiavano in cucina e dal basilico che cresceva sul davanzale. Per qualche minuto restammo così, due statue di un museo che custodivano la bellezza malinconica della riconciliazione. Non aggiunse nient'altro; al suo posto parlarono le carezze che, con dolcezza materna, andarono a lambirmi la schiena. Su e giù. Tantissime volte, e ogni volta ci lessi: "Non pensarci più".
«Mamma.»
«Ehi.»
Con la guancia sulla sua spalla, guardai fuori dalla finestra; tra le tende sbucavano i rami spogli della nostra ortensia e un nido rovinato, disordinato. «Secondo te si può amare qualcuno prima ancora di starci ufficialmente insieme? O sono pazza a pensare una cosa simile?»
Ci pensò su, mentre continuava a cullarmi. «No, non lo sei» disse. «Sai, temo che sia un discorso molto soggettivo. E non credo che amare si possa adattare a un'unità di misura, o di tempo. Qualcosa di tanto contorto non conosce etichette, tantomeno dei limiti» spiegò. «Lo senti, semplicemente, ogni giorno. È talmente naturale che non te ne rendi conto.»
Sul nido, intanto, era volato un uccellino.
«Non esiste un "troppo presto" o un "troppo tardi", Ophelia. Esiste solo un insensato senso di riconoscenza, quel "mi ha dato qualcosa, non so cosa sia, ma mi rende felice e pretendo di ricambiare, di vederlo come me, anzi, più felice di me", esiste il voler ascoltare anche quando dice le cose più sceme, esiste il voler tornare anche quando non ha bisogno di te, perché ti basta averlo accanto per sentirti parte integrante di un mondo che sa di casa. Se senti tutte queste cose... amare va bene.»
"Voler tornare anche quando non ha bisogno di te."
Sul nido volò un altro uccellino: vicini, cantavano.
Desmond non aveva mai espresso di aver bisogno di me. Di nessuno, in realtà. Eppure, mi chiedevo come potesse non stufarsi, che da quando mi aveva conosciuta tutto ciò che gli avevo dato avrebbe potuto sintetizzarsi a una gran quantità di problemi, storie di sicuro non all'insegna dell'allegria, lacrime... Uno così come può sopportare una persona che porta sbagli e si sente sbagliata?
«E secondo te si possono amare gli errori?»
Mamma rise. «Se lo si ama, difficilmente si considera errore.»
Io e Desmond ci eravamo accordati di passare insieme un weekend dove lui non era troppo impegnato con qualche consegna grafica particolarmente urgente. Che la scelta decisiva fosse ricaduta nella settimana di San Valentino era stata una coincidenza.
Non avevo nulla contro la festività, trovavo carini gli eventi a tema che addobbavano Filadelfia. Ma sebbene la chiacchierata con mamma mi avesse schiarito le idee, restava un genere di uscita che avrebbe solo reso ufficiale ciò che stavamo costruendo. Di certo, non volevo sembrare quella che avrebbe voluto affrettare le cose.
Ad ogni modo, mi sarebbe piaciuto avere un'idea più chiara su cosa passasse per la testa di Desmond; non sapevo se volesse continuare, se volesse parlarne, se se ne stesse pentendo. Di sicuro, sapevo cosa pensasse di San Valentino; una sera, mentre ci apprestavamo a passeggiare tra le vie meno trafficate di Center City, ci era capitato di incrociare un ampio numero di individui uscire dalla cioccolateria Lore's con sacchetti colmi di scatolette dall'aria costosa. Storcendo il naso, aveva apertamente dichiarato di trovare questo genere di ricorrenze abbastanza insipido e con una base di materialismo che non apprezzava: doversi sottomettere alla giornata internazionale del consumismo per dimostrare qualcosa all'altra metà non si adattava alla sua idea di romanticismo, come se esistesse soltanto quel giorno per avvalorare le relazioni del mondo. Mi aveva strappato una risata e, dandogli una lieve spintarella, gli avevo dato del vecchio cinico.
Qualche giorno dopo il quattordici, mentre mi accingevo a infilare in borsa la ricevuta per il babysitting, Desmond mi era apparso silenziosamente alle spalle, appoggiando il mento sulla mia testa; un braccio mi aveva cinto la vita, legandomi a sé, l'altro mi era apparso davanti. Tra le dita, il gambo di una rosa avvolto da un nastro arancione, i petali che sfumavano in un tenue color pesca.
La mia prima reazione era stata quella di voltarmi e, allarmata, controllare che Cindy e Leonard fossero ancora nella loro camera; appurato fosse così, complici le urla e il caotico sgambettare che rimbombavano dal piano superiore, mi ero concessa di palesare confusione per quel dono. Poi, stupita, mi ero girata per guardarlo.
Lui aveva iniziato a sventolarmi il bocciolo sul naso.
Avevo riso. «Quindi anche tu sei un ipocrita.»
«Sbagliato, io sono diversamente ipocrita.» Aveva continuato a sbandierare la rosa finché non gliel'avevo sottratta; dopodiché, aveva posato le mani sull'isola, intrappolandomi al centro e avvicinando il naso per sfiorare il mio. «I pensierini li faccio quando mi pare. Il quattordici è un giorno che non mi dice nulla.»
«Allora lo accetto.» Posai la rosa e gli cinsi il collo, schioccandogli un bacio a fior di labbra. «Ma rimani un paraculo.»
«Guarda che sono permaloso.»
«E paraculo.»
«Continua, e regalo la rosa a Cindy.»
«Sai che ero indecisa se prendertene una anch'io?»
«Non serve.» Mi aveva pizzicato le guance, il che mi aveva fatta sorridere. «Ne ho già un esemplare qui ogni volta che arrossisce.»
Avevo fatto una smorfia, che si era estinta non appena in quegli occhi un po' stretti e un po' abbandonati a chissà quali pensieri palesò un interesse diverso dal solito, che ovunque esplorassero avrebbero lasciato un'impronta di pace, di immensa gratificazione.
Aveva spezzato il silenzio, mormorando: «Sabato da me?»
«Va bene.»
Piegò il volto per rubarmi un bacio, ma la comparsa di Cindy sulla soglia gliel'aveva impedito. Pur sapendo fosse tardi, ero sgusciare subito via dalle sue braccia. La bambina, tuttavia, in quella fitta rete di treccine affusolate, era rimasta a bocca aperta.
Poi, per gradi, aveva assunto un'infantile smorfia maliziosa.
Nel panico, avevo puntato l'isola. «Cindy, guarda! Una rosa!»
«Allora state insieme?»
«Guarda che bella rosa ti ha preso lo zio!»
Gliel'avevo sventolata davanti. Lei era rimasta impassibile.
«Siete fidanzati, sì o no?»
«Si armonizza pure coi tuoi vestiti!»
«Quindi posso chiamarti zia?»
«Lascia, ci penso io.» Desmond, tossendo, mi aveva posato una mano sulla spalla, un monito a farmi da parte. Davanti alla nipote, si era inclinato così che arrivasse alla sua altezza. «Primo: la devi smettere di essere silenziosa. Secondo: sì, ci stiamo vedendo, ma.»
Quel "ma" stoccato con un tono severissimo, se non addirittura intimidatorio, le aveva fatto richiudere la bocca all'istante; a giudicare dalla felicità che traboccava da quei grandi occhi scuri, era pronta a riversare tutto la sua esaltazione. Da mesi insisteva su di noi. Probabile che una notizia simile, per una bambina, entusiasmava tanto quanto vedere un bacio in un cartone animato.
«Esigo che tu non lo dica al tuo paparino, ci siamo capiti?»
Non se l'era fatto ripetere; aveva annuito vigorosamente.
Poco dopo, lo sguardo le si era ricoperto di dubbi. «Ma perché?»
«Eh, perché» aveva borbottato Desmond, massaggiandosi la nuca. «Perché tuo papà è petulante, bisogna saperlo... prendere. Per questo motivo sarebbe meglio che gliene parlassi io. Capito?»
Tradotto: è una situazione che non gli andrebbe a genio.
«Ma papà sa che la babysitter è brava. Che c'è di male?»
«È un discorso complicato, e finché non andrai al liceo non è vitale che tu lo capisca. Ora dammi un bacio e torna su.» Cindy aveva sbuffato, ma alla fine aveva eseguito. «Non mi deludere.»
«Non lo dirò nemmeno a Leonard, promesso.»
«Brava, ti sei guadagnata una raccomandazione per il college.»
Era sgattaiolata via a gran velocità, ma poi era tornata da me per lanciarsi in un abbraccio. Contro la pancia, avevo udito la sua voce attenuata che mormorava: «Odiavo Latisha. Tu sei più simpatica».
Appena sparì, mi ero premuta la mano sul cuore.
«È successo tutto troppo in fretta. Non me l'aspettavo.»
«Non ti preoccupare, è una bambina leale.» Desmond mi si era avvicinato, il braccio che avvolgeva la vita. «E poi quando dà la sua parola, la mantiene. A maggior ragione se sei nelle sue grazie.»
Mi ero rigirata la rosa tra le dita. «Almeno.»
Erano passati due giorni.
Tutt'ora, mentre nascondevo il naso nella sciarpa e spingevo il maniglione del Taste A Wish, meditavo su quel pomeriggio. Non ci era voluto molto prima che salisse a galla un deprimente stato d'ansia; se Gregg l'avesse scoperto con largo anticipo, Desmond sarebbe finito dei casini. Di conseguenza, ero convinta che sarei diventata una presenza nemmeno così gradita in casa Holmberg.
Cosa penserebbe di me, poi? Che invece di lavorare passo il tempo a sedurre suo fratello? Che sia una specie di arrampicatrice sociale? A pensarci mi veniva voglia di sotterrarmi dalla vergogna.
Una volta dentro la tavola calda, il riscaldamento al massimo mi obbligò ad allentare la sciarpa. Mi misi in fila al bancone, davanti al quale un signore si stava sbrigando a sfilare le banconote dalla tasca; intercettai meno movimento del solito per essere le nove di sera di un sabato: una manciata di anziani, qualche individuo con la tuta da operaio che aveva finito il turno, una abbondante gruppo di coetanei che festeggiava animatamente un compleanno, a giudicare dalla torta affettata e dai regali ammucchiati sul tavolo.
In generale, metà locale era vuota.
Il signore borbottò un saluto a Warren e s'incamminò all'uscita. Quando toccò a me, stava ancora ponendo il resto dentro la cassa.
«Mi destabilizza vedere così poca gente.»
Udendo la mia voce, chiuse la cassa e lo stupore iniziale venne assorbito da un sorriso. «Ma buonasera! Sì, beh, la settimana di San Valentino non frutta molto alle piccole attività... Qui vicino ci fanno concorrenza una taverna e il ristorante italiano in fondo alla Evergreen Avenue. Sicuro avranno fatto il pienone.» Con la testa indicò alla sua sinistra; poco distante, sempre dietro al bancone, sua sorella stava preparando un caffè alla macchinetta e, al contempo, lanciava sorrisi al ragazzo che attendeva. «In compenso Fannie ristabilizza l'equilibrio finanziario: i tonti che si fanno abbindolare tornano la volta dopo con gli amici. Quindi, doppio guadagno.»
Risi. «Siete tremendi.»
«Mia sorella sosterrebbe che è tutta strategia di marketing. Seh.» Seguì con lo sguardo uno dei dipendenti, un cameriere dall'aria un po' più giovane; entrò svelto nelle cucine con il taccuino delle ordinazioni. «Quindi... come mai questa visita? Vuoi qualcosa?»
Indicai dietro di me. «No, in realtà dovrei scappare. Gwenda mi ha scritto poco fa chiedendomi se potessimo incontrarci qui, ma vedo che non è ancora arrivata, sbaglio?» Mi guardai di nuovo in giro; stavolta l'attenzione rimbalzò da un uomo con un principio di calvizie a un bambino che si agitava sulle gambe della mamma. «Non è stata molto chiara sul perché. Mi aveva accennato che doveva già venire qui per sbrigare un'altra cosa, così eccomi qua.»
«Strana quella ragazza.»
«L'hai notato anche tu?»
«Mh.» Si grattò il capo, poi posò la guancia sul palmo. «Un pochino. È sempre al telefono con sua sorella, quando usciamo capita che se ne vada di punto in bianco, senza spiegare. Non sono comunque fatti miei, cioè, so che Latisha non ha passato un bel periodo a lavoro e che Gwenda sta solo cercando di supportarla... E poi mi pare che ci sia stata tutta quella storia con Olivia, giusto?»
«Già.»
«È vero che ha cercato di sabotarla alla sfilata di New York?»
«A quanto pare sì... e non so quanto credere alle altre storie.»
«Cristo, ci credo che Gwe' voglia strozzarla. Se qualcuno toccasse mia sorella, non so come potrei reagire» borbottò, poi mi guardò con aria malandrina. «Piuttosto, dov'è che stavi andando?»
«Nulla, mi vedevo con Desmond.» Ingoiai l'impaccio concentrandomi sulle sue mani magre. «È nel parcheggio sul retro che mi sta aspettando. Prima abbiamo mangiato fuori, e adesso...»
«E adesso...» Mosse il pugno avanti e indietro.
«Non iniziare!»
Fino all'ultimo ero stata incerta se confessarlo anche ai gemelli. Mi ero convinta che non fossero così pettegoli come invece li condannava Gwenda; in fin dei conti, avevano mantenuto la vecchia promessa e non le avevano spiattellato dell'uscita a teatro.
Per parlarne con Gwenda, però, ritenni che ci fosse tempo.
Per ora non mi sembrava il caso inserire strani imbarazzi.
Fannie, salutando il cliente, si avvicinò a noi e si concesse di far crollare il suo sorriso. «Ho bisogno di un paio di guance nuove.»
Warren la fissò, stanco. «Che ti devo dire? Ora pedala.»
«Pedalo, ma sorridere come un'idiota per più di otto ore filate è da considerarsi nuovo girone infernale. Vabbè che dà i suoi frutti.» Si accorse di me e sollevò le sopracciglia. «Ah, Ophelia, non indovinerai mai chi ci ha deliziato della sua presenza stasera. Da noi poveri plebei.» Non capii, perciò scrutò l'angolo più remoto del locale: un tavolo incollato alla vetrata e il divanetto rosso occupato da una persona sola, il cappuccio del giubbotto tirato. «Imbacuccata in quel modo e con gli occhiali da sole non avevo proprio capito chi fosse. Perciò ho fatto finta di non riconoscerla.»
Quella donna non si muoveva.
Warren fissò quel punto. «Ma chi è? Ero impegnato.»
«La sorellina di Gwenda. Mi chiedo perché sia venuta qui.»
La voce di sua madre la chiamò dalle cucine; oltre la porta giungeva un persistente sferragliare di posate. Si assentò non prima di salutarmi, lasciando me e Warren attoniti da quella rivelazione.
Intanto, la donna col bambino si erano avvicinati per pagare. Gli feci spazio e avvisai Warren che mi sarei andata a sedere da qualche parte. Anche se in realtà sapevo già dove andare; le gambe si mossero in autonomia, spinte da un grande desiderio di curiosità.
Al tavolo di Latisha, indugiai.
Premeva le mani ai lati di una tazza bianca, l'incarnato scuro che manifestava un duro contrasto di tonalità. Dalla brodaglia dorata al suo interno risaliva un denso rivolo di calore, accanto al piattino giaceva la bustina strappata dell'infuso. Sembrava non avesse alcuna fretta di consumare la bevanda; ammazzava il tempo osservando le strade lucide, illuminate da semafori e insegne, per poi premere gli occhiali da sole di una qualche nota marca. Erano grandi abbastanza da riempirle metà di quel viso a cuore. Supposi che avesse preferito lasciarseli su per una questione di anonimato.
Dal riflesso della vetrata, la vidi alzare il mento.
Come se si fosse appena svegliata da un sonnellino.
Si girò con un sussulto, dalla montatura sbucarono le sopracciglia. Tuttavia, reagii pacatamente: mani avanti e un sorriso rassicurante. «Stai pur tranquilla, non ti ha riconosciuta nessuno.»
«Tu sì.»
«Io... sì.» Presi posto nel divanetto di fronte. «Osservo molto.»
Rimosse la bustina fradicia e l'adagiò sul piattino; diede un rapido sorso. «E avrai anche notato che ci sono tanti posti liberi.»
«Lo so, ma volevo salutarti. Non ti ho più vista dalla sfilata...» Mi resi conto che aveva preso qualche chilo, fu una consolazione; era pur sempre mingherlina e spigolosa come la sorella, ma adesso mostrava una muscolatura più sana e solida. «Come sta il piede?»
«È tornato come prima, grazie.» Bevve un altro sorso, e sembrò volerci nascondere tutta la faccia, quasi il cappuccio e quelle grandi lenti scure non fossero abbastanza. «Scusa, ragazzina, non sono in vena di chiacchiere. Ma apprezzo tanto che tu me l'abbia chiesto.»
Annuii, cercando di non guardarla troppo in faccia.
Non riuscivo a capire che genere di espressione avesse.
«Lo capisco. Anzi, scusami tu se sono sembrata invadente. Mi ha fatto piacere rivederti.» Picchiettai le mani sul tavolo e, infine, stabilii di lasciarla sola. «Aspetterò Gwenda fuori, faccio prima.»
«Gwenda?»
Fermò la tazza davanti alle labbra.
«Sì... Mi aveva chiesto di vederci qui.»
«Curioso, anche a me.» Quindi era lei l'altro impegno? «Doveva darmi delle cose urgenti, ma il lavoro mi ha risucchiata per tutto il giorno e non abbiamo avuto la possibilità di vederci.»
«Davo per scontato che abitaste vicine!»
Le sfuggì una forzata risata rauca. «No, figurati, mai state vicine neanche sotto lo stesso tetto dei nostri genitori; lei se ne sta qui a Chestnut Hill a fare l'asociale, mentre io sono più asociale di lei standomene dall'altra parte di Philly, più o meno nella zona di Society Hill.» Bevve, si inumidì le labbra carnose. «Anche se ammetto che negli ultimi anni mi piacerebbe averla più vicina.»
Nell'ultima parola echeggiò una flebile nota di dolore.
«Capisco.» Mi schiarii la voce. «Si vede che era nei paraggi della tavola calda per chiedere a entrambe di vederci proprio qui.»
Concordò incurvando appena le labbra all'insù. Ma ero sicura che quel sorriso fosse soltanto un meccanico stiramento di muscoli.
Decretai fosse il momento di alzarmi.
Però, poco prima di andarmene, mi fermò.
«Ti chiami Ophelia, è corretto?»
Tornai al suo tavolo. «Sì.»
«Posso chiederti...» Reggeva la tazza sui gomiti, e la fissava, la fissava insistentemente; mi domandai che tipo di pensiero ci avesse visto riflesso, che cosa le passasse per la testa, perché quell'incertezza che mal si accordava con il suo status. «Lavori ancora alla residenza degli Holmberg? O hai cambiato?»
Quella domanda mi lasciò un po' interdetta.
«Continuo a lavorare lì, esatto.»
«Ti ci stai trovando bene?»
«Molto. Sia dal signor Holmberg che dal fratello ho ricevuto un calore che non mi aspettavo... E quei bambini, per quanto problematici, sono un amore.» Sorrisi. «Aiutarli, aiuta anche me.»
Annuì, tendendo le labbra in quella che parve una chiara dimostrazione di sofferenza, e premette le dita attorno alla tazza.
«E Desmond?» esalò, la voce ridotta a un soffio. «Come sta?»
Per qualche assurda ragione, il mio cuore si tuffò in un mare di dispiacere: starmene davanti a lei, che camuffava un gran bisogno di sentire notizie sull'ex fidanzato, inconsapevole che mi stava aspettando al parcheggio, mi fece sentire una persona disonesta.
Peggio, una criminale.
«Lui sta bene.» Mi tormentai le dita. «Secondo me si chiede la stessa cosa, ma di te. Non avete più avuto modo di incrociarvi?»
Negò col capo, posò la tazza.
«Perché non provate a parlarvi? Potrebbe essere un modo per- Ehi.» Al di sotto della montatura degli occhiali, due scie umide scivolarono sulle gote; preoccupata, ripresi posto davanti a lei. «Ti senti bene?»
Non rispose.
In fretta, si asciugò le lacrime e aprì la sua borsa, frugando velocemente nelle tasche. Vedendola in difficoltà - labbra strette, altre lacrime che facevano a gara a chi per primo raggiungesse il mento - spalancai la mia, di borsa, e sfoderai un pacchetto di fazzoletti. Gliene porsi uno, che mi sfilò e insinuò sotto alle lenti.
Le tremava il labbro.
Preda dell'angoscia, le posai la mano sulla sua, con l'altra persisteva a tamponarsi le gote, le narici, gli occhi. Perciò, inghiottendo una bolla d'ansia, mormorai: «Scusami, Latisha, cancella quello che ho detto. Non volevo risultare indiscreta, o...»
«Non posso.»
Un'affermazione che sputò a malapena tra quei singhiozzi silenziosi, e che schiacciava, rispediva indietro a forza. Scosse debolmente la testa e appallottolò il fazzoletto nel pugno, riducendolo a una poltiglia di carta, le unghie rosse che vi ci si conficcarono con un che di brutale. Su quello stesso pugno ci posò la fronte.
Pacata, continuai a stringerle mano. Non l'aveva ritirata.
Mi lasciò credere che ne avesse terribilmente bisogno.
«Come?» sussurrai, cercando di non farmi sentire da altre orecchie; anche se, lanciando una rapida occhiata in giro, erano tutti presi dalle loro portate per badare a noi. «Cosa "non puoi"?»
Le spalle vennero scosse dai singulti. «Non posso incontrarlo.»
«Ma perché dici così?»
«Non me lo perdonerebbe mai...» La sua voce ricordava tanto un lamento, un violino scordato. «Non posso, non ce la faccio...»
Ci capivo sempre meno.
A sua volta, strinse la mia mano. Era come se dietro a quel gesto si nascondesse una qualche richiesta di aiuto; non sapevo se iniziare a preoccuparmi. Desmond non la perdonerebbe per cosa?
«Latisha, ascolta...» Non sapevo se mi stesse guardando o meno, ma speravo di suonare un minimo incoraggiante. «Ho avuto modo di conoscere Desmond da vicino e, fidati, è una persona meravigliosa, non mi ha mai dato l'idea di essere un tipo che non conoscesse il perdono. Son sicura che parlandogliene, potrebbe...»
«No, ragazzina, no...» Non riusciva a parlare, la lingua impastata. «Gli ho fatto una cosa orribile, gli ho nascosto una cosa che...» Soffocò altri singhiozzi. «Ho... ho tanta paura di dirglielo.»
Le tremava la bocca, nuovi singulti andarono a scandire i suoi "È colpa mia", "Ho rovinato ogni cosa", "Gli ho rovinato la vita", e ancora: "Non me lo perdonerebbe mai". Mi domandai da quanto tempo reprimesse uno sfogo simile, se le accadesse spesso, se i racconti di Olivia sul fatto che, a lavoro, scappasse in bagno a piangere avessero ben poco di menzognero. Soprattutto, mi domandai quante volte Gwenda l'avesse vista ridotta così. E perché ribadisse quanto Desmond le stesse antipatico. Ammesso sia la verità.
Non sapevo come confortarla.
Il suo cellulare, sul tavolo, vibrò. Si asciugò velocemente le guance, adesso arrossate e umide, e controllò la notifica. Quindi si sbrigò a posare una mancia sul piattino e richiudere la sua borsa.
«È qui» dichiarò con voce nasale, quindi si alzò e tirò la cerniera del giubbotto. «Mi dispiace... Spero tu abbia una buona serata.»
Veloce, si diresse alla cassa; intanto che pagava a capo chino, impiegai il tempo a elaborare quanto ero riuscita a capire in mezzo a quel pianto. Non trovai comunque una risposta che stesse in piedi.
Un terribile presentimento mi tenne incollata sul divano. Crebbe esponenzialmente quando, al di là della vetrata, una BMW parcheggiò davanti al marciapiede. Spense i fari, la portiera si aprì.
Non ci trovai nulla di strano.
Se non che quella era la stessa BMW di mia sorella.
ANGOLO AUTRICE
Sono talmente ispirata che probabilmente non lascerò passare tanto tempo prima di iniziare la seconda parte; oltretutto ci tenevo ad aggiornare prima di scendere giù in Sicilia (questione di giorni, insomma). Per cui, son contenta di essere rientrata nei mio scadenziario personale.
Eccoci qui, in uno di quei capitoli che determinerà il destino di tante cose.
(E son felice di essere non aver superato le 5k parole).
In primis, ci tenevo che si mostrassero i genitori di Ophelia; dal momento che sta riprendendo in mano la sua vita, era necessario che riprovasse ad avvicinarsi anche a loro. Infine, un incontro... atteso e particolare.
Questions:
▪️ Riflessioni sul dialogo madre-figlia? Personalmente a me ha stretto tanto il cuore. E mi sa proprio che, tra quei giri di parole, si capisca che Ophelia prova qualcosa di molto forte per Desmond, da ancor prima di starci insieme - "l'insensata riconoscenza" di cui le parla la mamma, temo proprio che l'abbia già provata tanti capitoli fa, voi che dite?🖤
▪️ Latisha; durante la stesura mi son proprio detta "Oh, finalmente posso scrivere questo capitolo per incasinare nuovamente tutto"; bene, direi di partire con le teorie. Pronti, via!
▪️ Ma poi: Gwenda, in tutto ciò, che sta combinando? Cosa pensa realmente su Desmond? E perché? Ci sono tanti tasselli mai messi a caso. Tranquilli, la risposta è in arrivo fra tre capitoli.
Intanto, come sempre ringrazio chi sta sopportando e supportando questa lunga epopea, e chi aspetta gli aggiornamenti con grande entusiasmo. Vi voglio bene. 🕊️
Playlist:
Somebody Else - The 1975 (prima parte)
New Slang - The Shins (seconda parte - fino a quando Fannie non se ne va)
We'll Meet Again - Vera Lynn (seconda parte - da lì fino alla fine)
Instagram: The_blackcatshadow
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