34. Paradosso della marionetta - Pt. 2
Paradosso della marionetta
Pt. 2
N.B musicale: vi mancavano, eh? Comunque io aggiungerei che è anche necessario, ovviamente per chi legge con la musica in sottofondo: "5:57" di MOVEMENT non appena Ophelia va a mettersi a letto.
Buona lettura, e ci vediamo giù! 🤍
Quella provocazione non mi lasciò indifferente.
Appena Desmond si allontanò dal mio orecchio, tornò dritto, serio, inconsapevole di come le sue parole fossero riuscite a svegliare lati di me nascosti, che nemmeno ricordavo di possedere.
Mi lanciai un mentale rimprovero: invece di lasciar libera piazza a un mutismo di stupore, avrei dovuto reggergli il gioco, ribattere con qualcosa di altrettanto audace, che percorresse i binari di quella conversazione ambigua, che fosse in grado di... provocarlo, metterlo all'angolo.
Rinunciai in partenza; se poteva, evitava di manifestare dell'umano imbarazzo. Accadeva di rado, al massimo, ma non durava più di due secondi. Non c'era la soddisfazione di poter pensare: "Allora anch'io posso decidere se avere un qualche tipo di potere su di te".
Perché sì, avevo il forte bisogno di alienare dalla mia identità la dicitura dello "stupido triste burattino". Volevo che sparisse, che si riducesse nell'ombra di un brutto ricordo. L'umiliazione per esserlo stata per tanto tempo era una ferita ancora fresca. Forse mi avrebbe aiutata a ignorare meglio se il mio corpo fosse stato recepito con una connotazione diversa, considerato non come un oggetto fragile e in procinto di rompersi, ma anche per ciò che era: carne.
Non mi sarebbe dispiaciuto se accendesse fantasie diverse dall'ordinario agli occhi di Desmond, che lui con l'arte ci sguazzava, la respirava ogni giorno tra le dita. Per una volta, sentivo di voler testare i fili delle mie scelte, gli stessi che erano stati manovrati a lungo da mani non mie.
Così, la mente intraprese dei viaggi contorti, seguendo sentieri sempre nuovi, talvolta clandestini, che in circostanze normali mi sarei solo sognata di ideare. Un po' diedi la colpa a quelle poche gradazioni d'alcol ingurgitate, un po' ne diedi a quella bizzarra forma di eccitazione che mi agitava dentro: mi rendeva più lucida, ancor più presente, consapevole, coraggiosa.
Strinsi la coscia, le dita che schiacciavano il punto prima accarezzato da Desmond. Avrebbe dovuto sostituire un pizzicotto morale, ma non fu abbastanza: l'ancora delle fantasie era salpata.
Lo fissai; una donna gli si era avvicinata e lui, cordiale, stava ascoltando. Non io. Avevo smesso di farlo da quando, fra i pensieri volanti, uno di essi mi saettò dietro agli occhi come uno schiaffo.
Mi sarebbe piaciuto farlo.
Ma non sapevo se esserne capace.
Eppure, osservando le labbra di Desmond muoversi in direzione della sconosciuta, le incertezze si sciolsero come ghiaccio in una bibita esposta troppo al sole. Al loro posto, un pensiero preminente: che un uomo mi guardasse con la reale consapevolezza di avere di fronte a sé una donna e non solo una ragazzina da contemplare con dolce patetismo.
«Alla tua vicina dispiace se ti rapisco per un po'?»
La donna guardò Desmond con un sorriso largo.
Lui ricambiò, educato. «Passo. Ma grazie dell'invito.»
«Perché?» La tale inclinò la testa, per vedermi. «Sei la sua...?»
«Oh no. No, no. È tutto tuo.» Mi uscì con una spontaneità sconcertante, spiazzò anche me. Non mi sarei fatta problemi a esprimere il fastidio, ma era la serata delle novità, delle esperienze folli, in fondo, e questo poteva rivelarsi molto più interessante delle aspettative, ammesso di non pentirmene in un secondo momento; perciò, lanciai un sorriso a Desmond, il quale strinse gli occhi, confuso e divertito. «Davvero. Vedo Gwenda che sta tornando dal bagno, sto con lei.»
Si accostò al mio orecchio, per sovrastare la musica.
«Non sto capendo l'antifona, ragazzina.»
Scrollai le spalle. «Perché non ce n'è.»
«Perché non ce n'è» ripeté, le parole scandite da una voce volutamente rauca; con un mezzo sorriso scese dallo sgabello e si sbarazzò della giacca, piegandola accuratamente su di essa. «Sai che ti dico? Hai ragione, seguirò il consiglio. Per stasera fingerò di avere ancora vent'anni.»
«Bravo, è lo spirito giusto» dissi, simulando convinzione.
«Che poi, a chi mai darebbe fastidio?»
«Esatto, quindi perché rinunciare?»
Scosse la testa mentre si arrotolava le maniche. «Ah, Ophelia, Ophelia...» parve mormorare.
La tipa, attraente in quella cascata di cappelli fulvi e che dimostrava qualche anno in meno di Desmond, si elettrizzò appena le chiese di fargli strada. «Allora hai cambiato idea! Come mai?»
Si incamminarono, lui con le mani nelle tasche. Mi guardò da sopra la spalla, le grinze ai lati dell'occhio mi suggerirono una piega più... sardonica. «Qualcuno lo chiamerebbe esperimento».
La donna rise, anche se non capì, e gli afferrò il polso.
Ignorare la morsa allo stomaco fu alquanto difficile. Anche se, il secondo dopo, Desmond sciolse la presa con un gesto disinvolto. Gwenda, intanto, si era riaccomodata al nostro tavolo non con l'umore più roseo. «Ah, benissimo, almeno se n'è andato. Che mi sono persa?»
«Ma che ti è preso prima?»
«Prima quando?»
«Ogni volta che parli con Desmond, non lo so, sei... strana.»
«Capita sempre con chi non mi sta particolarmente simpatico.»
«Ok, ma il motivo? Che ti ha fatto, scusa?»
Inclinò il viso. Mi pentii di quell'avventatezza. «E a te che ti importa se mi sta sulle palle?»
«Mi importa, perché... Cioè, perché...»
Non trovai una spiegazione plausibile. Balbettai.
Gwenda si drizzò e cambiò completamente faccia. «Voi...?»
«No! No.» Sondai il tavolo; non fui abbastanza fortunata da trovare uno shottino: li avevo bevuti tutti. «Lascia stare. Ero solo curiosa visto che non sono l'unica a essermene accorta, tutto qua.»
«Ok.»
«Bene.»
«Ophelia.»
«No.»
«Lo sapevo: avete scopato.»
«Ho detto che non... Ne abbiamo già parlato a Natale!»
Dopo l'iniziale stato di shock, si inumidì le labbra e si ricompose. «Vabbè, a me non piace. Tu sta'... comunque attenta.»
Mi chiedevo se l'avesse mai conosciuto davvero.
Ma non ero dell'umore adatto per pensare a delle ipotesi sensate. Mi concentrai sul bancone luminoso, invece, circondato da quell'ammasso di corpi che si dimenava e che, a ogni movimento, spintonava la fila al bar. Si era creato un assembramento che aveva dell'assurdo.
Passata la mezzanotte, la gente e il clamore generale erano raddoppiati in maniera indirettamente proporzionale alle dimensioni del locale. I baristi avevano smesso di perdere tempo a far volteggiare bottiglie di Tequila, servendo una clientela impaziente. In un punto poco distante dagli sgabelli davanti al bancone, soffocati dalla mischia, avvistai Desmond e la donna.
Non mi era possibile scorgere le loro facce, che erano diventate maschere a colori, ma riuscivo a notare come lei cercasse delle scuse per toccarlo – ora il braccio, il petto. Lui, senza però perdere la sua compostezza, sorrideva, rideva e, astuto, se ne approfittava per allontanare quei contatti.
A volte, girava il capo verso di me. Durava un secondo.
Appena si inclinò all'orecchio di lei per riferirle qualcosa che avrei tanto voluto ascoltare anch'io, cominciai ad avvertire i primi sintomi di una terrificante gelosia, sebbene fossi stata proprio io a dirgli di assecondarla. Non mi vietò di reagire. Anzi, il motivo per cui l'avevo gettato tra le braccia di un'altra, per quanto masochista e apparentemente irrazionale, era per darmi una... spinta.
Scesi dallo sgabello.
Stasera mi permetto di dare un taglio a questi fili. Per stasera voglio permettermi di decidere, di scavalcare i miei limiti, di osare, di provare, di dire: "Sì, so cosa voglio e cosa voglio fare".
Gwenda inarcò un sopracciglio. «Dove vai?»
«A fare una cosa. Terresti d'occhio le borse, intanto?»
«Ci mancherebbe. Oggi mi avete promossa a tassista, non vedo perché non possa fare contemporaneamente anche il controllore.»
«Grazie.» Aggirai il tavolo e le schioccai un bacio sulla guancia, che accettò alzando gli occhi. «E magari cerca di essere più morbida con Jay, anche quando pensi che non se lo meriti.»
«Essere morbida mi ha portato solo noie, perciò si arrangia.»
«Beh, però lui con te lo è. Anche quando lo tratti così male.»
Alzò le spalle, fissando il bicchiere. «Avrà una vita infelice a forza di fare l'accomodante.»
«Nah... Non lo è, sa come farsi rispettare.» Mi girai; in un angolo del bancone intravidi la capigliatura folta di Jay e la ragazza che lo aveva abbordato. «Ti vuole solo bene, tutto qui.»
«Se me ne vuole dovrebbe mandarmi a fanculo, ogni tanto.»
Risi, cominciando a indietreggiare. «Almeno sei onesta.»
Raggiunsi Alejandro sgomitando tra una persona e l'altra non nella maniera più aggressiva di cui ero capace. La sensazione di soffocare tornò a galla come un brutto ricordo, ostruendomi la gola; mi sussurrò di tornare al tavolo, in quell'angolino tranquillo. Però, no: affinché potessi fare ciò che volevo, sapevo che era necessario rimuovere quei paletti e sopportare il disagio.
Non torno più indietro.
Addossato al bancone, Alejandro stava intrattenendo una conversazione con la ragazza, la quale, seduta a gambe accavallate, rispondeva con parole ridacchiate e cristalline. Non si accorsero della mia presenza, quindi attesi il momento giusto per interromperli alle spalle di lui. Assodato che non sarebbe mai arrivato, dato il livello di coinvolgimento che avevano raggiunto i loro scambi, ingoiai un sospiro paziente e mi rassegnai a tirarlo dal gomito un paio di volte.
Mi sentii una guastafeste.
La ragazza mi guardò perplessa. O meglio, come chi sa di avere davanti un ospite indesiderato. Alejandro, invece, lasciò che la confusione facesse spazio allo stupore. «Ehi, che succede?»
«Vieni con me?»
«Dove?»
«A ballare un po'.»
Rise. «Gwenda ha rischiato di morderti?»
«No, è di te che ho bisogno. Però adesso, poi non c'è più tempo.» Gli presi sbrigativamente la mano, lui non capì le mie intenzioni, e mi rivolsi alla tipa. «Due minuti e torna, giuro!»
Non aspettai una risposta e mi trascinai Alejandro dal polso, anche perché con ogni probabilità sarebbe stata negativa o, ancor peggio, passivo-aggressiva. E ogni secondo era prezioso.
Alejandro lanciò un saluto e delle scuse alla ragazza, la quale, evidentemente contrariata dal cambio di carte in tavola, scrollò le spalle e se ne andò. Mentre procedevamo tra la calca che si agitava su una versione rallentata di Maneater, mi sollevai sulle punte e, avvicinandomi al suo orecchio, gli riferii: «Mi spiace, spero solo non avesse l'aria di diventare qualcosa di importante!»
«Si parlava di fare le ore piccole nel suo appartamento, cose così, ma non era nulla di vitale. E poi, mi spiace per lei, tu hai sempre la priorità.» Mi fece sorridere; quando ci fermammo a qualche passo di distanza da Desmond e la sua compagna di ballo, si abbassò al mio, di orecchio, e aggiunse urlando: «Ora però gradirei una spiegazione più chiara per questo invito».
«No, cioè...» Lanciai un'occhiata a Desmond; tra me e lui si era creato un varco. Sottile, ma era abbastanza perché mi notasse... se solo avesse alzato gli occhi. «Lasciamo perdere. Balliamo.»
Scoppiò a ridere e mi afferrò dalle spalle, costringendomi a fronteggiarlo. «Ok, va bene, ma mi spieghi perché hai fretta? Non c'è... Oh. Oh.» Aveva alzato gli occhi su Desmond, le labbra spiegate in un sorriso sornione; non ci volle un quoziente intellettivo eccezionale per comprendere le mie stupide intenzioni. «Ora capisco la fretta. Lo zietto è impegnato.»
Gli diedi un pugno sul braccio. «Non è per questo!»
«Sei una volpe.»
«E dai...»
«Vabbè, fantastico. Ora lo facciamo morire di gelosia.» Assunse un'aria meravigliata. «Ah, quindi non gli piaccio perché...» Mi massaggiai la fronte, esasperata. «Ma quindi è vero: tu e lui...»
«No.»
«Nena...»
«Non insistere.»
«Ophelia, mi cosita linda, non mi ci prendi per il culo. Con gli altri puoi pure riuscirci, ma con me no.» E mi tastò le guance, come se avesse tra le mani della pasta da pizza. «Per colpa di 'ste luci non riesco a vederti, ma scotti molto. E se arrossisci, stai dicendo soltanto delle gran balle.»
Sospirare ed evitare il suo sguardo fu inevitabile.
«Giuro solennemente che non lo dirò al resto della cricca.»
Quindi, stringendo i pugni, decisi di guardarlo lasciando trapelare tutta la mia triste rassegnazione, una risposta più che sufficiente. Infatti, la reazione dell'altro fu alquanto immediata: gradualmente, la sua bocca disegnò una "o" perfetta. Divenne un bambino.
«Non commentare.»
Alzò i palmi, tornando serio. «Me ne sto buono.»
«Jay.» Gli strinsi i polsi. «Mi fido di te. Non me ne fare pentire.»
«A prescindere non lo farei mai. Ma dopo tutta questa storia con tua sorella, figurati se mi salta in testa di tradire la tua fiducia.» Mi stampò un veloce bacio sulla fronte. «Se sei felice, lo sono anch'io. E poi, ora che è una certezza... posso provocarlo con molta più soddisfazione.»
«E a te non fa... strano? Anche se è più grande?»
«E perché? Ophelia, tu sei pazzesca. Mi stupisco solo che ci abbia un po'. Es totalmente un pendejo.» Lanciò un'occhiata a Desmond e, senza togliere l'attenzione da lì, si abbassò al mio orecchio: «Spara il piano, che ci guarda. Io intanto ti sto appiccicato, sia mai che si tranquillizzi».
Non mi girai, anche se fremevo di farlo.
«Curiosità: dove ce le ha le mani?»
«Non sta facendo il pezzo di merda, se è questo che volevi sapere. È più la tipa a toccarlo, ma lui non glielo lascia fare.» Trattenni un sorriso; stava seguendo lo schema di un gioco pulito, non si azzardava a creare malintesi. «Mi spieghi perché sta ballando con un'altra? Si vergogna di te?»
«Gliel'ho concesso io. E poi, per ora, non vogliamo rendere pubblico niente a nessuno. Ci stiamo solo vedendo, nulla di serio.»
«Ci vuole un bel coraggio a concedere una simile libertà, ma se ti fidi di lui...» E accompagnò le mie braccia sulle sue spalle, le mani scivolarono sulla mia vita. «Non capisco. Qual è il motivo?»
Eh, il motivo.
Il motivo mi portò a mordermi il labbro.
Mi girai in direzione di Ian e Fannie. Lui seguì il mio sguardo; in quel mare di colori soffusi, i due non si erano ancora separati. La folla spariva, l'occhio di bue pareva innamorato delle loro figure, del sudore che brillava sulle loro fronti facendole sembrare placche riflettenti di una sfera stroboscopica, e di quel lento toccarsi divenuto più audace, parecchio indecente: le dita di Ian avvinghiate ai fianchi di Fannie che se la tiravano contro, lei, la schiena al suo petto, posava le mani sopra le sue, guidandolo su e giù mentre muoveva sinuosamente il bacino. Si strusciavano con inaspettata eleganza, facendo passare un atto all'apparenza osceno per qualcosa di molto più intimo, un genere di corteggiamento a me incomprensibile. E andava bene a entrambi.
Lei alzava il mento, parlava, rideva. Subito dopo rideva anche lui, specie quando le sue labbra cercavano quelle dell'altra, ma senza alcun successo; gli venivano sottratte all'ultimo secondo.
«Capisco.» Alejandro mi ricordò che era lì con me.
«Un minimo della sua sensualità. Non chiedo tanto.»
«Beh, lei spesso esagera, anche perché lo fa di proposito. Te lo dico io: entro fine serata farà impazzire il suo amico.» Anch'io lo farei di proposito, se ne fossi in grado. «E poi, non è necessario fare quello per provocare Mr. Rigidità... Già che stiamo ballando così vicini è una bella provocazione. Tra l'altro– Oh, ha reagito: ti annuncio che ha messo le mani su quella là.»
«Davvero? Voglio vedere.»
Facendolo passare per un gesto casuale dettato dal ballo, strinse il mio bacino e mi aiutò a girarmi; ci posizionammo proprio come Fannie e Ian, anche se in una versione più composta.
Mi abbandonai al petto di Alejandro, finsi di essere coinvolta dalla musica, chiudendo e aprendo lentamente le palpebre, ma in realtà l'attenzione era solo su Desmond. Come la sua era su di me.
Constatai che Alejandro avesse ragione, nonostante non fosse nulla di eccessivo: si era solo aggrappato ai fianchi della donna, lei che gli cingeva il collo. Anche se riuscì a farmi sentire... strana. Infastidita, forse. Non lo capivo. C'era quest'orticaria un po' ovunque, una sensazione che pizzicava lo stomaco, ma al contempo lo scaldava, una vampata di calore che saliva e scendeva.
Mi disturbava, eppure c'era una piccola parte di me a cui quella circostanza ambigua e inconsueta non dispiaceva. È mai possibile provare una tale contorsione di sensazioni?
Oscillavano loro, oscillavamo noi.
Occhi negli occhi. Parità.
Fu allora che azzardai una mossa pericolosa: senza distogliere lo sguardo dal suo, afferrai la mano del mio amico, ci intrecciai le dita, che se ne stavano educatamente sul bacino, e la spostai un po'. Solo un po', giusto perché raggiungesse il centro della pancia e lì rimanesse.
Alejandro mi sfiorò l'orecchio. «Sicura?»
Appena la mano di Desmond, come se fosse stata spronata dal mio azzardo, si era spostata nella stessa direzione della mia, per cui andando a finire sulla schiena della tipa, lo dissi: «Sì».
Iniziò una reazione a catena.
Dove mi muovevo io, si muoveva lui. Dove andava la mano di Alejandro, andava la sua. Io tiravo i fili, lui eseguiva. Io volevo, e lui concedeva. Per una volta: io il burattinaio, lui la marionetta.
Andammo avanti così, a toccarci in una realtà in cui erano gli occhi a farlo, a ribaltare i nostri ruoli, dove ero io a decidere in che modo dovesse guardarmi. Capii che Desmond avesse intuito le mie intenzioni e che, tuttavia, gli piacevano; nei suoi occhi, l'impazienza assorbì una sfumatura macabra, che si accostava alle luci rosse degli spot, c'era un'attesa dolorosa: pendeva dalla mossa successiva, sapevo quanto gli desse fastidio la lentezza tra l'una e l'altra: se avesse voluto, avrebbe allontanato la donna da sé per venire qui e proseguire al posto del mio amico.
Fu una vittoria che accolsi con un mezzo sorriso.
Flebile, apparve pure tra le sue labbra.
Sapere che in qualche modo si sentiva in scacco da me contribuì a rendermi più sciolta e sicura delle mie azioni; così, con le dita intrecciate, trasferii le nostre mani dietro la nuca di Alejandro.
Desmond, invece, accostò il viso alla tempia della donna e si concentrò in punti sempre diversi del mio corpo: vita, petto, ginocchia. Una trinità carnale. E la mano, notai, si era fermata. Aveva tagliato i fili. Stava facendo di testa sua. Ora, a esplorare, erano soltanto gli occhi.
E il gioco della marionetta terminò.
Realizzai che non apprezzava essere manovrato.
Da lui, che tanto amava restare aggrappato alla coscienza, non mi sarei aspettata diversamente. Immaginai che gli piacesse lasciarlo credere solo in circostanze simili, dove prevaleva un forte senso di curiosità. E lo faceva per un po', qualche istante, per provare qualcosa di nuovo. Dopodiché tornava tassativamente a volere, e io tornai a seguire. Pendetti da ogni minimo spostamento del suo sguardo. Su, nel mezzo, giù, ancora più giù, e di nuovo su.
Un'arrampicata, una carezza autoritaria. Riuscì a convogliarci un'intensità tale da creare l'illusione che la mano di Alejandro, in realtà, fosse la sua: era come se mi stesse toccando.
Lentamente, Desmond desiderò queste gambe che si improvvisavano ballerine, questa vita che si muoveva un po' a destra e poi a sinistra, questo petto che saliva e scendeva a ogni respiro.
Di fronte a quelle attenzioni, un piacevole calore divampò nel basso ventre. E di colpo, secco, i suoi occhi artigliarono i miei.
Sussultai dentro. Quella serietà che sapeva di rimprovero, di "Smettila. Non lo vedi che è una situazione che mi sta uccidendo?"
Nessun sorriso, nessuna falsa espressione ilare. Soltanto una visibile frustrazione, le labbra stirate. Ma c'era di più, e quel "di più" era lo stesso che stavo cercando di arginare anch'io, tra i pensieri che si sovraffollavano e si arricchivano di significati sempre nuovi e inaspettati.
Andiamocene.
Basta.
Mi mancava il fiato, i battiti del cuore accelerati, e mi trovai costretta ad ammettere che quel gioco servì a poco; non ebbi la certezza di essere riuscita nell'intento, ma di sicuro ero riuscita ad accrescere il desiderio di prendere Desmond per mano e invitarlo a scappare da quel posto.
Come a leggermi nella mente, si congedò dalla tipa.
Così, io da Alejandro, che mi stampò un bacio sul capo.
Non m'importava di star seguendo il suo volere, o di essere di nuovo tornata nei panni di una stupida marionetta. Non m'importava, non più: la sua volontà combaciava anche con la mia.
Volevamo le stesse cose.
Gwenda aveva fatto fatica ad accettare che fosse Desmond a darmi uno strappo a casa; quando ero corsa a comunicarglielo, lei gli aveva lanciato uno sguardo circospetto, anche se lui non poteva vederla. Si era allontanato ad avvertire Ian che, intanto, si era rintanato con Fannie in un angolo più buio per parlare e scambiarsi effusioni non proprio all'insegna dell'innocenza.
«Perché non posso farlo io?»
«Perché gli altri si stanno ancora divertendo e io comincio a sentire il peso della stanchezza. Non voglio rovinarvi la serata...»
«Ophelia, per quanto mi trovi costretta ad ammettere di essere circondata da un corteo di imbecilli, so che possono badare a loro stessi per un pochino. Ci impiego niente ad accompagnarti e a–»
Le avevo stretto le braccia. «Ti ho detto di no. Per favore.»
Aveva guardato Desmond e, forse spinta da un ripensamento, aveva scosso la testa. «Mi prometti che... Beh, tu stai attenta, ok? Per qualsiasi cosa, il mio numero ce l'hai.»
«Non ti preoccupare.» L'avevo abbracciata. «È affidabile.»
Per un attimo, le avevo sentito borbottare un "Lo so".
Ma la musica alta mi aveva impedito di accertarmene.
La realtà era lontana dalle mie giustificazioni: perché non mi sentivo affatto stanca. Il mio corpo si era acceso, era un macchinario nelle mani di un bambino irrequieto che pigiava i pulsanti a oltranza: lanciava segnali distorti, obbligandomi a dei sorrisi troppo larghi, o a sorbirmi i formicolii che serpeggiavano dalle piante dei piedi alla spina dorsale. E poi le emozioni che cambiavano rotta, scontenti di restare più di due secondi sulla stessa sponda: la felicità che diventava eccitazione, l'eccitazione che diventava ansia. E il ciclo ricominciava da capo.
Fuori dalla calca asfissiante del Down Nightclub, potei finalmente trarre un respiro che sperai attenuasse quell'eccesso di adrenalina. Almeno in parte. Avvertendo qualcosa di freddo e umido centrarmi il naso, alzai il viso; superate le impalcature di un vecchio edificio in fase di restauro, le luci dei lampioni non mi impedirono di notare come il cielo notturno avesse preferito appartarsi in una leggera cortina plumbea. Dei lampi lo illuminavano per un nanosecondo.
Aveva iniziato a piovigginare.
Desmond, accanto a me, ogni tanto irrigidiva le spalle per le folate di vento e reprimeva dei colpi di tosse; camminava a passo sostenuto, le mani infilate nelle tasche del giubbotto, le gocce d'acqua che lo colpivano a ritmi sempre più ravvicinati. Ma non gli davano fastidio.
Non ci eravamo ancora rivolti la parola.
Incredibile. Avevamo comunicato senza farlo davvero, prima. Uno sguardo d'intesa, un cenno all'uscita. Mentre ora risultava stranamente complesso, poiché avrebbe significato affrontare ciò che era accaduto, dargli un significato, un nome. Ammettere che ci era piaciuto. Ammettere di non voler concludere la serata. Ammettere di morire dalla voglia di sperimentare altro.
Presi coraggio e lo osservai da sotto le ciglia. Era serio. Però no, non era arrabbiato. La rabbia l'avevo già conosciuta su quel volto. Tra i lineamenti in perenne tensione e la barba che si era fatto crescere di poco, ospitava un inutile tentativo di controllare ciò che stava provando.
E quel silenzio aberrante non mi aiutò a rilassare me e i muscoli in tensione, quasi fossero stati colpiti da una scarica elettrica: avrei tanto desiderato trasformare quella tensione in energia cinetica, in un'insana progressione di urla, salti, canti, corse. Sì, avevo voglia di correre.
Mi parai il capo dalle gocce. «Dove hai parcheggiato?»
Corri con me?
Desmond continuò a guardare davanti a sé, spostandosi qua e là per non scontrarsi contro chi tornava di corsa alle proprie auto, una scia caotica che avanzava controcorrente, intenta a riporre o a estrarre ombrellini dalle borse. «Non molto lontano. Un paio di isolati.»
Corriamo, Des.
Un saltello, e salii su una panchina già bagnata. Scesi giù con altrettanta sicurezza. Ripetei il processo con uno spartitraffico di cemento dalla punta concava, e con quello dopo, e quello dopo ancora. L'aria soffiava una melodia che portava il nome della libertà. Lo scrosciare della pioggia, divenuto fragoroso, l'accompagnava, rappresentando una ritmica base a percussione.
Respirare quella melodia a pieni polmoni per la prima volta dopo tantissimo tempo fu inaspettato e meraviglioso: mi pizzicava il cuore, mi faceva arrossire, mi rendeva felice; era una sensazione che si accostava a quella che provavo quando Desmond mi guardava. L'effetto era identico, alla fine: ricevere attenzioni pure da essa era simile a un elettrizzante tuffo nel vuoto.
Corriamo.
Con la coda dell'occhio, capii che Desmond si era avvicinato abbastanza da sfiorarmi, forse per timore che quell'avventatezza mi facesse scivolare. Tuttavia, seguiva i miei saltelli con interesse.
Strano a dirsi, ma non provavo vergogna.
Scesa dal quinto spartitraffico, accelerai il passo distanziandomi definitivamente da lui. Mi voltai. Bastò un attimo, il giusto per catturare la sua espressione interrogativa, le labbra dischiuse, lì pronto a interpellare, a chiamarmi, che lanciandogli un sorriso mi misi a correre.
Così, senza avvertirlo.
Corsi con quel sorriso che ne scoperchiava i denti, il vento addosso, la pioggia che mi imperlava i capelli, mi bagnava il viso. Mi costrinsi a non fermarmi, mi costrinsi anche a non guardare nemmeno quella poca gente che andava congedandosi. Ero sicura mi stesse osservando.
Non mi conoscono, non importa, sono occhi che non significano nulla per me, come io non significo niente per loro; lasciatemi riassaporare qualcosa che non provo da anni, lasciatemelo fare davanti ai miei, di occhi, che di loro mi importa davvero, anche se ci sto provando con dei metodi tutti strani e folli e assolutamente stupidi e di cui mi pentirò domani. Però lo faccio, ne ho bisogno, è un richiamo: la vecchia Ophelia mi rivuole, non ne può più di sentirsi impotente e vedermi sprecare tempo a fare niente, a essere niente; che di niente ne ha parlato abbastanza quando era piccola.
Il fiatone tra le labbra, gli attacchi improvvisi di risa che non mi permettevano una corsa normale e sicura; mi obbligavano a piegarmi in due, a procedere scoordinata. L'addome mi faceva male.
Resistetti. Ma appena l'orecchio colse dietro di me l'incedere di una corsa simile alla mia, risi più forte, sicura che Desmond era lì, a pochi passi da me, ad accorciare le distanze. Mi avrebbe raggiunta presto. Capii che era lui dalla corsa differente: timbro pesante, ogni passo era rumore, le pozze che si erano create ne riproducevano scalpiccii secchi, di chi non ha paura di scivolare.
E lo urlai: «Tanto son più veloce!»
Qualche secondo, e le fondamenta di quell'affermazione crollarono in uno schiocco di dita: il polso venne afferrato da una mano più grande. Mi costrinse a rallentare, e mi fece cambiare bruscamente rotta, una deviazione che mi costò l'ennesima risata squillante. Mi lasciai trascinare con una certa fretta nell'ingresso buio di un'autorimessa, riservato ai residenti di un complesso condominiale. Non ebbi modo di leggerne il nome all'entrata, poiché mi ritrovai a retrocedere, un passo dopo l'altro, una danza svelta, finché la schiena non si addossò contro uno dei pilastri cilindrici che reggevano l'edificio. Sopra la testa svettava l'iniziale di "Uscita".
Intontita, lo realizzai dopo: le labbra di Desmond, compromesse dal fiatone, erano sulle mie.
D'impulso, subito. Capii che aveva terminato la pazienza.
Le sue mani sulle guance, io in punta di piedi, a sorridergli sulla bocca, le braccia attorno al suo collo, per necessità. Dietro la colonna, intanto, la gente che procedeva, la pioggia anche.
Ci parlammo tra un bacio e l'altro, tra un respiro pregno d'affanno e l'altro; venni colta da un fremito d'eccitazione non appena le sue mani scesero sui fianchi e strinsero, strinsero troppo, sebbene il mio cappotto non gli permettesse un contatto più fisico: la frustrazione mi arrivò chiara quando scese appena sotto la bordatura e si fermò, consapevole che se avesse continuato avrebbe raggiunto le natiche. Ma si fermò sopra, invece, sulle fossette di Venere; desistette con dolorosa rassegnazione, come molte altre volte dopo la sera del nostro primo bacio: l'idea di toccarmi lo consumava, eppure trovava sempre il pretesto di interrompersi, sorvolare, come se gli facesse paura. Repressi di nuovo la delusione: desideravo da giorni che osasse, non esisteva una parte di me che non volesse essere toccata da lui in quel modo.
Toccarmi come mi guardava, con la stessa intensità.
«È stato un colpo basso» disse Desmond, roco, il secondo prima di buttarsi a capofitto di un altro bacio, con un impeto maggiore, più profondo.
«Giuro che era solo una prova.»
«Tu e le tue maledette prove, Ophelia... Mi farai impazzire.»
Sebbene avesse voluto proseguire, si fermò, spingendo la fronte contro la mia. Le sue dita si infilarono tra i capelli, mi attirarono a sé, il naso che accarezzava il mio lato a lato. Con quell'espressione contratta dal tormento, presentava un fascino ancor più magnetico.
Appoggiò il braccio sul pilastro, sopra la mia testa.
L'altra mano mi spostò una ciocca fradicia dietro l'orecchio.
Inutile nasconderlo: mi sentivo le guance oltremodo roventi, e appena alzai il viso, lo furono ancor di più; tra le sue iridi nere pulsavano pensieri forti che non riprodusse mai a voce e che, se mi fossi studiata allo specchio, c'era pure un'alta probabilità che combaciassero con i miei.
Fissandomi le labbra, mormorò: «Non tornare a casa».
Eccolo, il formicolio che tornava, l'adrenalina alle stelle. Sebbene il fiato corto a tradirmi, mi obbligai a ridimensionare quel sentimento asfissiante, rimpiazzandolo con un debole sorriso.
«Non avevo intenzione di farlo.»
Intanto che si accingeva a infilare le chiavi nella toppa, tornò a scuotermi una ridarella idiota, l'ennesimo stratagemma per stemperare una tensione sempre crescente. Contagiò Desmond, sorrideva. Poi stendevo il braccio per scombinargli i capelli bagnati, lui che con delle spallate giocose cercava di impedirmelo. Lo scrosciare della pioggia era un piacevole concerto.
Varcata la soglia, non mi diede tregua.
Mi permise qualche secondo di libertà, il tempo necessario per sbottonarmi il cappotto, che, mentre mi sollevavo per agganciarlo all'appendino, le sue labbra si avvinghiarono nell'incavo del collo; mi si appiccicò, le braccia attorno alla pancia. E continuò a esibire quelle esilaranti manifestazioni d'affetto anche quando, scossa dalle risate, cercavo di procedere a fatica verso il salotto e poi in camera da letto, la catenina della pochette arrotolata nel palmo della mano.
Rimase appiccicato, adattandosi al mio passo arrancante. Ebbe luogo una strana coreografia: il mio piede che avanzava e il suo che lo imitava, il mio che dava spazio e il suo che lo colmava.
Nell'insieme, ricreavamo un buffo quadrupede.
Di fronte al letto, ci gettai la pochette, che rimbalzò fino ai cuscini. Scivolai via dalle sue braccia e lo fronteggiai, incapace di restare seria un attimo. «Ma posso asciugarmi i capelli, almeno?»
«No.» Si chinò e mi prese in braccio; talmente inaspettato che cacciai un urlo. «Dopo.»
Si sedette e iniziò a tempestarmi di baci, ma mi obbligai a scostarmi; i suoi occhi parvero sospirare, quindi gli tastai un ciuffo bagnato tra le dita. «Dovresti anche tu... O ti salirà ancora la febbre.»
Storse il naso. «Perché non mi lasci fare l'irresponsabile?»
«Perché non voglio vederti in quelle pessime condizioni.»
«Se è questo a verificarle.» Stampò un lentissimo bacio sotto al lobo, le labbra restarono ferme a premere, ed io dovetti arrendermi a chiudere gli occhi. «Mi sta bene.»
«Che intendi con "questo"?»
«Te.» I suoi polpastrelli si conficcarono nelle cosce, finché non decisero di imprimere maggior veemenza a ogni stretta; la sua bocca raggiunse la valle della gola. «Te, ciò che hai fatto, ciò che mi hai provocato, che continua a provocarmi.» La gonna di pelle si era tirata un po' più su, oltrepassando il limite del pudore; ma nessun istinto di coprirmi ebbe la meglio, bensì un altro, che urlava a gran voce il contrario. «Cosa vuoi che mi importi della febbre, se da quando hai preso il coraggio di esporti là, in mezzo alla folla, per me e davanti a me, ho solo una voglia matta di rifartelo fare? Ma a modo mio.»
«Tremavo.» Esalai quella confessione a fatica, poiché le sue labbra stabilirono di iniziare a succhiare lì, dove sporgeva il pomo; costruì un invisibile condotto che collegava la sua bocca alla mia gola. Mi rubò la voce, di essa ne rimase una patetica e scoordinata serie di respiri spezzati. «C'era... c'era stato un momento in cui avrei voluto scappare. Tutta quella gente vicina...»
«Ma l'hai fatto.» Si fermò. «Il resto non m'interessa.» E riprese.
La sua mano faceva pressione dietro la nuca, tra i capelli bagnati, la saliva che segnava quel punto a ogni contatto.
Quel suo perenne avvicinarmi mi obbligò a dondolare, piano. Non ci volle molto prima che percepissi un'evidente reazione a quella folle danza; ardevo io, ardeva la gola, ardevano i pensieri e, senza fermarsi, la mano libera ne approfittò per slittare alla base del mio collo; affondò blandamente le unghie nel colletto morbido del maglioncino, elastico abbastanza da permettergli di tirarlo giù con altrettanta lentezza insieme alla bretella nera del reggiseno, svelandone la spalla nuda e il tatuaggio con la gabbia e le note musicali intorno.
Le sue labbra si avventurarono lì, ed io arrancai sul suo maglione coi polsi che tremavano; su e giù sul torso, senza un'idea precisa su cosa fare, dove andare, cosa dire, ammesso che ci fosse qualcosa di dire; un bagaglio vuoto in fatto di esperienze non mi aiutò a prendere una decisione nell'immediato. Era anche vero che prima di allora non mi ero mai soffermata sul come.
Credevo nella naturalezza di un rapporto. Programmare anche l'atto più intimo mi avrebbe quasi certamente reso più impacciata di quanto già non fossi. E poi, con insieme a lui, ogni cosa usciva così spontanea che le insicurezze, spaventate da tanta familiarità, scappavano.
Ciò contribuì ad acquisire un po' più di fiducia in me.
Incerta, gli afferrai i lembi del maglione. Volli sfilarglielo. E lui lo capì poiché allontanò le labbra dalla spalla e indietreggiò col busto per garantirmi un'impresa più semplice.
Ma una sonora vibrazione me lo impedì.
Ci volle qualche istante prima che se ne accorgesse pure Desmond. Ci ritrovammo immobili: le mie dita in procinto di sollevargli la maglia, l'ombelico in mostra, e la sua mano che manteneva abbassato il colletto. Il tatuaggio aveva assunto un vivo colore rosato, un lucido alone di saliva lo circondava come un timbro.
E le vibrazioni, intanto, non accennavano a smettere. Ci guardammo interrogativi, le labbra dischiuse per riprendere fiato.
Lanciai un'occhiata dietro di lui, sulla pochette.
Desmond si girò per seguire il mio sguardo.
Con un pessimo presentimento a farsi largo tra i pensieri, scesi velocemente da lui borbottando un frettoloso "scusa" e raggiunsi la borsetta mentre mi risistemavo la gonna. Anche il più piccolo e futile desiderio venne ufficialmente ucciso da quell'improvviso carico di ansia.
Presi il telefono.
La schermata svelava il nome di mia sorella.
«Cazzo» sussurrai, massaggiandomi la fronte.
Desmond mi fu vicino; mi sottrasse il cellulare e, notando la dicitura "Liv", me lo restituì suggerendomi un fermo: «Ignorala».
Olivia non si azzardò a chiudere.
«Non posso ignorarla.»
«Puoi, invece.»
Fissai lo schermo.
«Ophelia» mi richiamò. «Dove passi la serata sono cazzi tuoi. Ascoltami.»
Insieme alla paura affiorò una fortissima rabbia, un sentimento che difficilmente avevo provato nel corso della mia vita, ma che di recente ebbe modo di riscattarsi, farsi conoscere, trapelando con una frequenza sempre più importuna. Ora il tremore alle mani venne sostituito dal prurito.
Perché? Perché mi cerchi? Cosa speri di trovare ancora?
Guardai Desmond e mi posizionai l'indice davanti alla bocca.
Amareggiato, schioccò la lingua e scosse la testa, capendo le mie intenzioni. Si assentò a passo svelto, entrando nel bagno vicino. Ci volle qualche secondo prima che mi decidessi.
Premetti sulla cornetta verde.
Dal bagno, giunse il fragore del phon.
«Dimmi, Olivia.»
«Dove sei?»
«Perché me lo chiedi?»
«Perché mamma mi ha detto l'ennesima stronzata. Non è vero che stai facendo babysitting dagli Holmberg. Di sabato non lavori mai. Che ballista, Dio.» Emise un grugnito, poi una risata caustica. «Te lo dico io dove sei: a casa di quell'Holmberg. Cazzo, ma non ce l'hai una dignità?»
«Mi spiace, ma ti stai sbagliando.»
Conficcai le unghie nel palmo della mano libera.
Desmond, intanto, doveva aver finito di asciugarsi i capelli.
«Torna a casa. Forse non ti è ancora chiaro che in questa famiglia sono l'unica con un minimo di autoconservazione, e che si preoccupa soprattutto per te. Lo capisci, sì o no?» Dall'altro capo, non volava nemmeno una mosca; probabilmente aveva terminato anche lei la serata ed era rientrata, visto l'orario. «Cristo, con quale coraggio mamma ti copre le spalle? Per non parlare di papà, poi. Ah, possibile che essendo un peso non le importi proprio nulla–»
«Stanotte dormo a casa di amici.»
Lo espressi con una calma tale da risultare quasi finta.
Quantificare il dolore fu impossibile. Per quanto mi sforzassi a ignorarle, le sue parole avevano il potere di schiacciarmi. Inutile non darci peso: una parte di me si sarebbe sempre sentita legata a lei.
«Amici?» Un verso, il preludio di una risata. «Scusa?»
«Sì, hai capito. E li conosci pure bene.»
«Quelli non si meriterebbero di essere chiamati amici. O te lo sei già scordata?» Utilizzò un tono sarcastico, ma alle mie orecchie strideva. «Ophelia, capisco quanto dura sia la realtà, ma tu non hai amici.»
«Li ho, e mi raccomando: va' di nuovo a raccontargli quanto sono ipocrita.» Non controbatté, e presto capii che non l'avrebbe fatto; mi asciugai le guance, ma tenni comunque un tono inflessibile. «Non ti azzardare mai più a pedinarmi, Liv, o a chiamarmi alle due di notte. Non sei mia madre.»
«Sono tua sorella, brutta ingrata, tua sorella.»
«Una volta» mormorai. «Una volta lo eri.»
Buttai giù.
Desmond, allo stipite, mi stava osservando. Immaginai che stesse ascoltando da un po', complice l'increspatura sulla fronte che gli induriva lo sguardo di apprensione.
A capo chino, corsi al bagno. Ma una volta accanto a lui, mi bloccò dal braccio.
«Ehi.» Mi stampò un bacio sulla fronte. «Sono fiero di te.»
Evitai di alzare lo sguardo per paura di versare altre inutili lacrime; contemplai, invece, le pieghe del suo maglione in un avvilente stato di trance, rimproverandomi per aver dato retta a Olivia, ad aver permesso alle orecchie di ascoltarla e alla mente di metabolizzare ogni crudele stoccata.
Superai Desmond, e mi chiusi la porta alle spalle.
Impugnai il phon che aveva depositato sul piano piastrellato del lavandino, e lo azionai; mentre l'aria rovente mi asciugava le guance e mi sbandierava i capelli davanti al viso con furia, mi resi conto che quel rumore assordante mi aiutò a non pensare. Rasserenarmi fu abbastanza facile.
Tuttavia, guardandomi allo specchio, assistetti a un progressivo mutare del mio viso: le ultime tracce di sconforto evaporarono dai lineamenti, a favore di tratti più duri, decisi, meno miei.
Non mi riconoscevo.
Riconobbi la rabbia. Feroce, ingiusta. Repressa troppo a lungo, costretta sempre a proroghe indefinite. Perché? Una domanda che mi si ripresentò ininterrottamente, girò in tondo come i percorsi delle locomotive giocattolo, anche quando i capelli si erano asciugati e il phon stette lì ad arroventarmi la tempia. Perché devi sempre rovinare tutto? Perché non posso godermi un attimo di felicità? Perché ti consento di manovrare i miei sentimenti anche quando non ci sei? Perché sembra tutto un malato numero da circo, dove tu lanci i coltelli e io rimango lì, inerme, a farmi colpire, a sperare che sia sempre meno doloroso della volta precedente?
Spensi il phon.
No, stavolta non ti permetterò di rovinarmi la serata.
Mi affacciai dalla porta e chiesi a volte alta: «Des, hai qualcosa da prestarmi? Non ho un cambio, e non ho voglia di tornare a casa per prendermi il pigiama... Anche una felpa va bene».
Oltre la porta chiusa, giunsero dei borbottii attutiti.
Poco dopo, Desmond uscì dalla camera scalzo e sprovvisto di maglia. Indossava solo i pantaloni del pigiama, di una tonalità blu notte. Immaginai di averlo interrotto mentre si stava cambiando. Forse ero io a essere abituata a vederlo con degli indumenti rigidi, ma osservandolo, notai i pantaloni calargli un po', evidenziando una V addominale e la peluria scura sotto l'ombelico.
Mi lanciò una felpa nera, che afferrai al volo.
Me la rigirai tra le mani. Direi che i pantaloncini non serviranno, per quanto è grande... Sul retro, l'unico tocco di personalità era determinato dall'emblema dei Philadelphia Eagles che spuntava al centro: la testa di un'aquila. Beh, esilarante.
Alzai il viso.
Nonostante non ci fosse nulla da dire, finimmo col fissarci. L'occhio che scivolava sul suo torso asciutto, sul sentiero di peli che ombreggiava lo spazio tra i pettorali, il suo che cadeva su ciò che mi aveva lanciato, inumidendosi le labbra, quasi fosse stato attraversato da un pensiero insolito. Infine, esibì un sorriso ammiccante e, arretrando, disse: «Trattamela bene».
Tornò in camera, ed io mi sbrigai a togliermi tutto; mentre mi tenevo in equilibrio per sfilarmi i collant, la curiosità mi spinse a voltarmi e a guardare verso la porta della camera rimasta spalancata: vidi Desmond incurvarsi ai piedi del letto e recuperare una maglietta a mezze maniche, infilarsela alla svelta, la muscolatura sbiadita che spiccava sulla schiena, simile a uno schizzo a matita. Quando alzava le braccia, si contraeva insieme all'ala d'inchiostro.
Pensai a come sarebbe stato aggrapparsi a quella schiena, affondarci i polpastrelli, sentire quelle contrazioni in tempo reale. Pensai a come mi sarei sentita ad aggrapparmi a lui in circostanze diverse dal quotidiano, se risultasse ancor più appagante.
La mente viaggiava spesso, di recente, si sovraccaricava di quesiti dalle sfumature audaci, causando piacevoli scompigli in parti del mio corpo che avevo imparato a conoscere da sola, e che continuavo a conoscere ogni volta che il pensiero di lui era così vivido da tenermi sveglia.
Ricacciai quelle stupide fantasticherie in un angolino e, dopo essermi sganciata e sfilata il reggiseno, uscii dal bagno coi vestiti sottobraccio e gli stivali agganciati alle dita. Come sospettavo, la felpa sfiorava le cosce; ingombrante com'era sembrava di indossare un abitino.
In camera, l'abat-jour rappresentava l'unica fonte di luce.
L'ombra ingigantita di Desmond si allungava sulla parete come un'entità paranormale; lui, tuttavia, non badò a me e al mio passo eccessivamente celere, alla fretta con cui piegai gli indumenti sulla sedia della scrivania, al mio perenne tirarmi giù la felpa ogni due secondi. Ero una contraddizione vivente, facevo proprio ridere: prima smaniavo affinché mi desiderasse davvero, e adesso, dopo la telefonata di Olivia, mi sarei nascosta per sempre sotto le lenzuola.
In quell'arco di tempo in cui andai avanti e indietro a piedi nudi tenni lo sguardo basso, incurante se Desmond mi stesse guardando; per quanto ne sapevo, lui se ne stava tranquillamente sdraiato a gambe incrociate, la schiena appoggiata sul cuscino, gli occhiali da vista che gli scivolavano su un'espressione corrucciata, e il suo taccuino tra le mani, vittima di appunti in merito a dei progetti che progredivano di giorno in giorno e di cui ero all'oscuro.
Quando mi sedetti sul bordo del letto, si allungò per adagiare taccuino e occhiali sul comodino, commentando con nonchalance: «Ti stanno bene i Philadelphia Eagles addosso. Più che bene.»
«Ah, grazie.» Mi sdraiai e mi girai, dandogli le spalle. «Non credevo fossi un loro fan.»
«Non proprio sfegatato, ma lo sono.» Dal cigolio, immaginai si fosse sdraiato anche lui; poco dopo, spense la luce e la stanza piombò nel buio, fatta eccezione delle flebili luci che arrivavano dal marciapiede. Sentii il suo calore accarezzarmi la schiena: mi si era avvicinato, il braccio mi cingeva la pancia. «L'avevo presa... quattro anni fa, io e mio fratello avevamo assistito dal vivo alla loro prima vittoria del Super Bowl. Credo fosse stata una delle migliori partite di sempre.»
Mi limitai ad annuire.
Per un po', sopraffatta da quel silenzio opprimente, mi trovai intrappolata in una cella di sensazioni spinose, mi tenevano sveglia: il fiato caldo che Desmond esalava contro i capelli, il naso che vi ci sfregava contro appena compiva anche il più impercettibile movimento, le dita che si strofinavano blandamente sulla pancia. La consistenza del tessuto parve assottigliarsi, annullarsi, ridursi a carta velina. Era inesistente. Pareva più un contatto pelle a pelle.
E bruciava.
Bruciava tutto, in realtà.
Se non mi avesse chiamata Olivia, cosa sarebbe successo? Ma soprattutto, quanto in là mi sarei spinta? Perché Desmond non si azzarda mai a osare, a fare la prima mossa? Si aspetta forse un mio segnale? Per quale motivo? Non ha capito mi andrebbe solo bene?
Assottigliai le labbra. Non mi era chiaro se dal disappunto o dalla rabbia di prima. Ma bastò perché da qualche luogo remoto, laddove giocavano a nascondino lati di me che temevo di affrontare faccia a faccia, scattasse qualcosa. Una scintilla di determinazione. Piccola piccola. Ma grande abbastanza per trascinarmi contro Desmond. Piano, molto piano, a rallentatore.
Non si era addormentato, ne ero sicura.
Manteneva ancora il respiro regolare.
Quindi arretrai, strisciando, come una chiocciola, finché non aderii al suo petto, determinando l'ultimo incastro di un puzzle. In risposta, una reazione decisa: il braccio che mi allacciava più a sé.
Il suo respiro si arrestò all'improvviso.
Il martellare del cuore, l'unico rumore.
Mordendomi il labbro, inarcai appena la schiena e premetti i glutei contro il suo corpo immobile, con la prudenza di chi è convinto di star commettendo un atto avventato, stupido; mi separai da lui, e replicai, morbidamente, e ancora, di nuovo, fino a quando dai suoi pantaloni spinse quella che immaginai fosse l'erezione. Ci fu un attimo, talmente veloce da non darmi neanche il tempo di realizzarne l'attendibilità, in cui il suo braccio mi avvicinò di più, uno sprono a non smettere.
Ma durò un secondo.
Dopodiché smise; Desmond rilasciò un sibilo: «Ophelia».
La sua mano aveva abbandonato la pancia per piombare sulla coscia nuda; me la strinse forte, un'esortazione a finirla.
«Che cosa stai facendo?»
Voltai il capo sopra la spalla; sebbene fossimo inghiottiti dal buio, grazie al fioco bagliore dei lampioni ebbi la possibilità di inquadrare il suo profilo, oltre a un severo scintillio nelle iridi. Mi domandai se anche la sua espressione somigliasse alla mia, se fosse madida di bramosia, se l'oscurità l'avesse in qualche modo tranquillizzato per avergli permesso di nascondermelo bene.
Quindi, incoraggiata da quell'improvvisa scarica di intraprendenza, spostai la mano sul suo petto, l'incertezza che continuava a farmi esitare, e poi slittai giù. Sull'elastico dei pantaloni.
«Posso?» sussurrai a stento.
Mi sarei aspettata un rifiuto.
Eppure, serio, mormorò: «Tu puoi fare tutto quello che vuoi».
«Anche tu.» Nell'esprimerlo a fiato corto, filtrò ogni stilla di desiderio. «Puoi farlo. Puoi toccarmi. Io voglio che mi tocchi.»
Infilai la mano nei suoi pantaloni.
Oltre l'elastico dei boxer.
Represse un verso di piacere quando arrivai a stringergli l'erezione. In quel momento, era molto probabile che fossi avvampata. Indecisa, feci scorrere la mano, per poi interrompermi.
«Scusa. Non ho mai... Cioè, ti va bene, o...?»
«Va benissimo» disse, con la voce intaccata dal fiatone, eppure, nel modo in cui lo pronunciò, ci colsi anche l'inconfondibile parvenza di un sorriso. Ma verificarlo, in una stanza buia, fu impossibile.
Quindi mi afferrò il mento, lo sollevò, costringendomi a girarmi di schiena, e mi stampò un lento bacio sulle labbra, mentre la mia mano azzardava una velocità più sicura. Me ne diede un altro, più avido, più umido, con più lingua, e avrebbe continuato se non si fosse staccato per chiedermi roco: «Posso toccarti?» Mi inflisse un dolce morso sul labbro, la sua mano che mi accarezzava l'interno coscia. «Ho bisogno di sentirtelo ripetere. Non ho intenzione di...»
«Sì» lo frenai. «Sì, ti prego.»
Con dolorosa flemma si intrufolò sotto la felpa; lambì a palmo aperto l'ombelico, le costole sporgenti, la valle tra i seni tesi, un percorso pianeggiante, e poi montuoso, e infine collinare. In parte addossai la colpa alla mia eccessiva sensibilità nel percepire le cose, ma mai come allora le sensazioni mi sembrarono amplificate: venni percossa da un brivido appena realizzai l'impronta dei suoi polpastrelli ruvidi, gli spigoli delle falangi, la profonda necessità delle dita nel tendersi, quasi morissero dalla voglia di ingrandirsi, scavare radici, aggrapparsi a quanta più pelle possibile. E man mano che si arrampicava, la felpa si sollevava, denudandomi un poco per volta: ma al buio potevo davvero considerarmi nuda? La nudità non era forse il modo in cui si manifestava visivamente la nostra vulnerabilità? Non si manifestava nell'attimo in cui veniva etichettata come tale da occhi altrui? Allora perché, anche se Desmond non poteva vedermi, temevo ci riuscisse lo stesso? Forse, in fondo, la risposta la sapevo bene: forse lui era in grado di guardarmi anche senza usare gli occhi. Una carezza sul braccio, una stretta vigorosa alla coscia, un bacio sul collo, e otteneva la mappatura completa del mio io.
Afferrò il seno, strinse, il pollice che strofinava insistentemente sul capezzolo. Un gemito si unì a quella danza di respiri spezzati. Che fosse partito dalla sua bocca, o dalla mia, non lo ritenni importante.
«Questa felpa è stata una trovata assolutamente inutile, Ophelia» commentò rauco sulle mie labbra, continuando a ingabbiare con lenta foga, schiacciando un po' di più a ogni stretta. «Non vedo altre utilità, se non quella di togliertela.»
«Se vuoi me la...»
«No.» Si sistemò sul gomito, la fronte che piantò sulla mia in quella che palesò come un'aperta dichiarazione del suo trovarsi in difficoltà; vi percepii contro le rughe d'espressione inarcate all'insù, evidenti increspature di sofferenza; rise, poi, una risata soffocata che intervallò tra gli ansiti: «Mi chiedi anche "se voglio". Vorrei tante cose in questo momento, in tanti posti diversi. Ma per come sono fatto, non muoverò un dito finché non sarai tu a chiedermelo.»
L'ennesima dimostrazione di come riuscisse a leggermi con una facilità sconcertante, anche al buio: perché sì, una parte di me desiderava da morire che mi spogliasse, all'altra non faceva impazzire l'idea di esporsi, la voce di Olivia che ronzava intorno alla ragione al pari di uno sciame di mosche.
Tuttavia, le sue parole rappresentarono uno slancio di audacia, al punto che non riflettei neanche tanto nel dire: «Allora puoi...»
«Cosa?»
«Beh.» Toccò a me ridere, seppur fosse una risata leggerissima, che ne ricalcava le insicurezze e l'immenso desiderio di sotterrarmi; quella notte, le parole diventarono il mio più grande nemico, più di quanto non lo fossero state durante l'infanzia. E lui, che era probabile avesse già capito, stampò un sorriso sulla mia guancia. «Ok, mi piacerebbe che continuassi.»
«Sempre qui?»
Allargò nuovamente il palmo sul seno, il capezzolo che scorreva tra le dita. Strinse. Ancora. Mi morsi il labbro per trattenere un gemito.
«No.» Con la mano libera, trascinai la sua giù, sul bordo degli slip. «Stasera parlo decisamente male, perdonami.»
Grazie al gomito con cui si stava sostenendo, Desmond mi si avvicinò con un balzo; intercettai la mano ritirarsi, un verso dettato dallo sforzo, l'ombra scattante del suo braccio piegarsi sui boxer; sentii più spazio, ipotizzai che se li fosse calati un po' per consentirmi un'azione più agevolata.
Qualche secondo, e mi strappò un sospiro di piacere quando le sue dita calde si infilarono negli slip; morbido, accarezzò il centro dei miei tormenti, le sue labbra che si avventarono contro le mie, a berne i lamenti. Mi venne spontaneo divaricare appena le gambe, piegare le ginocchia.
Scorsi ancor più svelta sulla sua erezione.
Dai suoi ansiti, capii che era molto vicino.
«Avrei voluto che...» mi uscì in un sussurro, ma si smorzò di colpo e chiusi gli occhi, assuefatta da quel tocco così incredibilmente pratico, gentile; ora, stava intraprendendo un lento andamento circolare. «Avrei voluto che ci fossi stato tu al posto di Alejandro.»
Si chinò a mordermi la spalla.
«Anch'io» ansimò. «Non ho mai smesso di pensarlo.» Velocizzò, rallentò, velocizzò, rallentò. «Non ho mai smesso di pensare a uno scambio, a cosa avrei provato al suo posto nel toccarti.» Si fermò. «Toccarti. Stringerti.» Fece scivolare un dito dentro, per metà; serrai la bocca. «Sentirti.»
Non avrei retto a lungo se avesse continuato a parlarmi così.
«Anche se ci avrebbero guardati?»
«Sì.» Avvertii quel dito addentrarsi, arretrare di poco, e scivolare fino in fondo; in un primo momento mi provocò un leggero fastidio, ma fu una sensazione passeggera; il tempo di rilassare i nervi, che soffocare il piacere divenne un'impresa ancor più complessa. «E non ti trattenere, per favore.» Mi baciò, con impeto. «La tua voce, Ophelia... è una di quelle cose che non mi stancherò mai di ascoltare. Non te ne vergognare: fammela sentire.»
Strinsi le cosce nella sua mano, in un riflesso incondizionato.
Ma andò avanti, determinato a non fermarsi; prese un andazzo più incalzante, ma comunque profondo, mai peccando di delicatezza. Provai a cercare i suoi occhi, sopra di me, ma intravidi solo due specchi opachi. Lo immaginai guardarmi avidamente, come non gli avevo mai visto fare. Bastò per generare disordini vari: i respiri che diventavano seconde voci tanto facevano chiasso, il martellare del cuore che, prepotente, si diffondeva nelle vene.
Venni cercando disperatamente le sue labbra, cercando una scappatoia, qualsiasi cosa che ne inghiottisse il gemito e non mi permettesse di sentirlo, per paura che l'imbarazzo sarebbe stato troppo da sopportare; tuttavia, Desmond lo intuì e ritrasse la bocca di un soffio, apposta, deciso a volermi ascoltare. Lasciò le mie labbra aperte, prive di appoggi, libere di accogliere l'orgasmo.
La mia mano, nei suoi boxer, si bloccò. I sussulti mi impedirono di continuare.
Senza pensarci, a occhi chiusi, la mano libera andò a adagiarsi sulla sua, che indugiava negli slip, il dito ancora dentro. Si era fermato pure lui. E per un po', spinta da uno strano istinto, premetti sulle sue nocche. Un modo sottinteso per chiedergli di non andare via.
Per questo, Desmond esalò un'imprecazione.
E, forse spronato da quel mio gesto improvviso, si sollevò un po' di più sul gomito e lo vidi guardare verso il basso: si sfilò dai miei slip e insinuò la mano nei boxer, dove c'era la mia; l'avvolse, si creò un saldo intreccio di carne, e cominciò a scorrere veloce insieme a me.
Quando venne, gli sfuggì un gemito bassissimo.
Ci volle un po' prima che riprendesse fiato e cascasse sul cuscino, vicino alla mia tempia; accorciai comunque le distanze, fino a sentire la sua barba e l'affanno solleticarmi la pelle.
In un gesto brusco, poi, sollevò il busto e si tirò su i pantaloni. Mi girai, i nostri nasi si scontrarono. Ci guardammo, ma senza poterlo fare sul serio. Sebbene stessimo ancora cercando di regolarizzare il fiato, alzai il braccio e gli accarezzai il mento con l'indice, lui mi imitò.
Prima che le palpebre si chiudessero e l'adrenalina lasciasse il posto al sonno, mi concessi qualche secondo per rielaborare tutto.
Avevo riconosciuto la vertigine provata sul palco. Ma stavolta era stata... particolare, di un ramo familiare diverso: perché quello era stato un tipo di libertà che non avevo raggiunto da sola, ma insieme a un'altra persona. Era una libertà condivisa. Era una connessione dove lui mi aspettava; non c'era egoismo, non pensava a se stesso, ma era tutto un "O insieme, o niente".
Era quel genere di amore di cui avevo bisogno, che sapeva di cura.
Fisica, ed emotiva. Realizzarlo, mi stampò un sorriso.
«Tutto ok?»
Quel mormorio arrochito giunse da Desmond.
«Sì.» Mi rifugiai nell'incavo del suo collo. «Con te sempre.»
ANGOLO AUTRICE
Toh, solo un'ora di ritardo. Vado migliorando.
Non ho testa per fare l'angolo autrice, ma sappiate che non ho riletto, e ho paura di farlo. Non mi resta che pregare che sia stato un minimo apprezzato, e che nel complesso il chap vi sia piaciuto. 🙏🏻
Questo è stato uno di quei capitoli che da una parte non vedevo l'ora di scrivere per ovvi motivi, dall'altro mi spaventano a morte, proprio perché temo di non essere all'altezza delle mie aspettative. Tuttavia, finalmente diamo un po' di spazio alla fisicità del rapporto fra Des e Ophelia: io sono quella che mette sempre in primo piano l'intesa emotiva, ma comunque fra loro mi figuravo pure qualcosa di più consistente, e vista la passione che impiegano anche nelle più piccole cose, mi immaginavo che ci fosse anche in questo lato della loro relazione. Ero curiosa di vederli anche sotto punto di vista, e non poteva che uscire un atto, sì composto da ansiti e desideri vari, ma con un po' di comunicazione.
Penso sia alla base di ogni rapporto. 🤍
Questions:
▪️ In realtà non ne ho, al massimo: scena preferita e perché?
Mi sfrego le manine per il prossimo capitolo.
Alla prossima, guys! Fatemi sapere, ogni commento è prezioso. 🕊️
Playlist:
Maneater (slowed version) - Nelly Furtado (prima parte, ballo a tre)
https://youtu.be/NCEZC_tCV6s
Sous Les Draps - Michael Tai (seconda parte)
https://youtu.be/J1PewYDeCMw
Everything In Its Right Place - Radiohead (terza parte; da quando entrano a quando vengono interrotti)
https://youtu.be/onRk0sjSgFU
5:57 - MOVEMENT (terza parte; scena a letto)
https://youtu.be/PIbSF2NX6Cg
Instagram: The_blackcatshadow
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